Kenya: una crisi umanitaria da mezzo milione di civili

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

di Alessandra Conti

L’Africa orientale è da sempre un’area in forte crisi e i problemi dei vari Stati sono interconnessi tra loro, legati da alcuni fili conduttori. Primo fra tutti è il terrorismo, a cui seguono siccità, povertà, conflitti tribali e guerre civili. Purtroppo nel mondo Occidentale non si sente spesso parlare di Paesi come Somalia, Etiopia, Sud Sudan, Kenya, anche se afflitti da problematiche enormi.

La Somalia ha una situazione di instabilità interna ormai cronica che è peggiorata con la caduta dell’Unione delle Corti Islamiche nel 2006. Queste erano una formazione di governo di matrice islamica che cercò, invano, di introdurre la Sharia all’interno del territorio somalo. Già da qualche anno si sente parlare della Somalia come “failed-State” (ovvero Stato fallito) perché non ha più uno, o più di uno, dei principi dello Stato. I tre principi fondamentali sono territorio, sovranità e popolazione. La caduta dell’Unione delle Corti Islamiche fece crollare i principi di territorio e sovranità.

Le Corti non svanirono, ma si trasformarono in un gruppo ancora più radicale chiamato Al-Shabaab, cellula di Al-Qaeda, che oggi è il maggiore gruppo terroristico di tutta l’Africa orientale. Questo gruppo, il cui nome letteralmente significa “I Giovani”, ha sede in Somalia ma compie attacchi in tutta l’area. Tra gli attentati più violenti possiamo ricordare quello in Kenya del 2 aprile 2015 nel quale morirono 150 studenti dell’università di Garissa.

Proprio il governo del Kenya nelle ultime settimane si è detto deciso ad attuare politiche antiterrorismo molto restrittive. Infatti, il ministro degli interni Joseph Ole Nkaissery, d’ispirazione socialdemocratica, ha annunciato che il Kenya costruirà una recinzione di 700 km e degli altri ostacoli, come un fosso e una strada di pattuglia per gli agenti di sicurezza, sul confine con la Somalia. Nkaissery ha però rassicurato che questa recinzione non andrà a impedire gli spostamenti da un Paese all’altro, ma servirà solamente ad avere un controllo maggiore verso chi cerca di entrare all’interno dei confini, come i terroristi di Al-Shabaab.

Più che essere un reale impegno quello del Ministro degli Interni sembra essere solo un palliativo per le eventuali critiche che si solleverebbero al riguardo. I principi di ospitalità delineati da Immanuel Kant nel 1795 sembrano essere evidentemente colpiti a morte con questa nuova politica delle sicurezza del governo keniota.

La Somalia, oltre ai suoi enormi problemi d’inesistente stabilità, si trova così a dover fronteggiare da sola il caos interno. Gli aiuti internazionali si stanno iniziando però a muovere, anche se molto lentamente: proprio in queste settimane infatti sta partendo una missione delle Nazioni Unite che vede coinvolte soprattutto Gran Bretagna e Russia in territorio somalo.

La notizia più critica però è stata annunciata venerdì 6 Maggio dal governo keniota, il quale ha minacciato di chiudere i campi profughi di Dadaab e Kakuma. Il campo profughi di Dadaab è il più grande del mondo, si trova nel Kenya orientale e contiene 350.000 rifugiati in prevalenza somali fuggiti da siccità, carestia e guerra; Kakuma si trova invece nel nord-ovest e contiene 200.000 rifugiati per la metà provenienti dal Sud Sudan, dove nel 2013 è scoppiata la guerra civile. La motivazione data dal governo per smarcarsi dalle accuse si è basata su di una posizione difensiva, affermadno che i campi profughi sono stati spesso utilizzati come base per pianificare attentati specialmente da organizzazioni come Al-Shabaab. Per questo motivo il governo, dopo una valutazione politica, economica e di sicurezza, ha deciso che, nonostante questa politica influenzerà la vita dei profughi, dovrà comunque essere perseguita dalla comunità internazionale, specialmente l’ONU, e non dalle autorità locali.

La verità è che il Kenya è stato lasciato solo, così come la Somalia. Il Kenya ha sempre avuto un ruolo molto importante nell’accoglienza dei rifugiati sia per la sua posizione strategica, sia perché nell’Africa orientale è il Paese dove si riscontra un maggiore benessere, nonostante il grande divario nella distribuzione delle ricchezze. Basandosi sui dati del PIL degli Stati di quella zona del mondo, il Kenya, con i suoi 61 miliardi di dollari e un’economia in progressiva ascesa (anche se i dati del PIL pro capite la limitano negli ultimi Paesi del mondo), è la più fiorente dell’Africa orientale.

Ora però anche il Kenya è esausto e provato. In merito alla questione molte organizzazioni internazionali si sono pronunciate. Medici Senza Frontiere ha dichiarato che la chiusura di questi campi potrebbe mettere migliaia di vite a rischio. Amnesty International ha affermato che nonostante il reinserimento dei rifugiati in Paesi terzi è stato lento, è necessario che il Kenya li integri pienamente nella società. L’UNHCR (Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati) lunedì scorso ha chiesto al Kenya di riconsiderare la sua posizione e di assicurarsi di non prendere decisioni che siano in contrasto con i suoi obblighi internazionali, soprattutto nei confronti di persone che scappano da pericoli e persecuzioni.

Se il Kenya chiudesse questi campi mezzo milione di civili si ritroverebbe senza un posto in cui andare, e i rifugiati sarebbero magari costretto a tornare nei luoghi da cui sono fuggiti, andando incontro a morte certa o a una vita di persecuzioni.

Inoltre sia Al-Shabaab sia altri gruppi terroristici come Jabha East Africa (gruppo terroristico che ha dichiarato da poco la propria alleanza con l’ISIS) stanno cercando nuove reclute e questo sarebbe lo scenario perfetto. Questi campi profughi sono dei veri e propri ghetti nei quali ai rifugiati non è permesso lavorare o inserirsi nella società in alcun modo. I profughi lottano quotidianamente per la sopravvivenza e gli aiuti internazionali tardano ad arrivare, questa del Kenya potrebbe essere l’ennesima minaccia alle Nazioni Unite, un ultimatum. Se così non fosse, se veramente chiudessero quei campi scoppierebbe una crisi umanitaria da mezzo milione di persone.

Ovviamente la soluzione non può essere questa, ma il Kenya non ha le forze per continuare a lottare da solo e le promesse che gli aiuti arriveranno non bastano più. Serve una mobilitazione internazionale, serve un interesse maggiore per un’area del mondo trascurata per troppo tempo e che, sempre di più, ricopre un ruolo chiave per obiettivi mondiali.

 

 

Fonti e Approfondimenti:

Closure of Kenyan camps will endanger half a million refugees

http://www.standardmedia.co.ke/article/2000199441/construction-of-the-700km-kenya-somalia-border-fence-to-continue-says-cs-nkaissery

http://www.indexmundi.com/g/g.aspx?c=ke&v=65&l=it

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