Loi Travail: la protesta non si ferma

di Ilaria De Gennaro

La riforma El Khomri é stata ribattezzata il “jobs act alla francese”. Il parallelo non é affatto azzardato. C’è un filo, troppo poco rosso a detta della fronda socialista, che lega il nostrano Jobs act alla Loi Travail francese.

Stessa diagnosi, stessa ricetta. A fronte di un’ormai cronica disoccupazione, anche la riforma francese è volta a favorire una maggiore liberalizzazione e flessibilità del mercato del lavoro.

Il testo è da mesi al centro di vigorose proteste da parte di tutti i settori del lavoro salariato, organizzazioni studentesche liceali e universitarie (di queste la principale è UNEF) e sigle sindacali (CGT, FO, FSU, Solidaires, UNEF, UNL, FIDL). Il fronte del no è una realtà fortemente eterogenea, in cui  fa da collante il netto rifiuto della legge El Khomri.

Il lavoro di limatura del governo e in seguito della commissione affari sociali dell’Assemblea Nazionale, ha dato una veste nuova al progetto di legge, ridimensionandone l’iniziale ambiziosità. Tuttavia l’intervento, lungi dal recepire le istanze provenienti dal basso, ha finito per scontentare anche gli imprenditori, dapprima favorevoli alla riforma. 

Cosa rimane del progetto iniziale

Per incoraggiare le imprese ad assumere, il progetto di legge amplia il ventaglio di causali a giustificazione del licenziamento economico (quello disposto per difficoltà economiche dell’azienda), rendendolo di fatto piú facile, in considerazione di momenti di difficoltà aziendale come un calo degli ordini o vendite negative per diversi mesi consecutivi, trasferimenti di tecnologia e anche riorganizzazione aziendale per la competitività.
A differenza del Jobs act, peró, le nuove regole non prevedono sgravi fiscali o sui contributi sociali per le nuove assunzioni.

Il progetto di riforma, poi, valorizza la contrattazione di secondo livello, (aziendale e individuale), prevedendo che all’interno dell’impresa i sindacati possano approvare un accordo derogatorio di quanto accettato a livello di categoria, al fine di stabilire orari di lavoro più flessibili e retribuzioni piú basse: 

  • La durata legale di lavoro resta di 35 ore settimanali, ma potrà essere modificata dal contratto aziendale.
  • La giornata lavorativa può essere portata da 10 ore ad un massimo di 12, per esigenze organizzative dell’impresa.
  • L’accordo d’impresa è chiamato a disciplinare anche il regime  degli straordinari, che non potranno essere retribuiti piú del 10% , a fronte di un tasso di maggiorazione del 25% , praticato attualmente dagli accordi di settore.

A cosa ha rinunciato il governo

La prima versione della legge limitava il potere dei giudici di valutare la legittimità del licenziamento e di fissare l’ammontare dell’eventuale risarcimento, limiti che dopo le prime proteste di piazza, sono stati introdotti solo come orientamenti non vincolanti. L’altra modifica rilevante riguarda le 35 ore : il testo originario prevedeva la possibilità, per l’impresa, di adottare unilateralmente il cosiddetto  forfait-jour, un orario di lavoro calcolato su base annua, anziché settimanale. Nella nuova stesura, invece, per poter derogare alla durata legale dell’orario di lavoro (35 ore settimanali) è necessario un accordo con le rappresentaze sindacali.

Risultato: adesso il nuovo testo scontenta davvero tutti. Le modifiche non hanno minimamente soddisfatto gli oppositori della prima ora. C’è chi parla di involuzione, bolla il progetto come filo-padronale e invoca l’intangibilità di certe conquiste. Come il deputato socialista Jean-Claude Mailly, che sottolinea il paradosso del metterle in discussione, proprio nell’anniversario degli 80 anni del Fronte popolare (la coalizione di sinistra al governo nel biennio 1936-38).

Particolarmente controversa è stata la modalità con cui il governo ha proceduto, ricorrendo all’espediente dell’articolo 49.3 della Costituzione, che fa decadere tutti gli emendamenti, e permette di eludere il dibattito parlamentare. L’Assemblea Nazionale (la camera bassa francese) vi si può opporre tramite una mozione di censura (corrispondente alla nostra mozione di sfiducia), in questo caso presentata dal centrodestra, che, qualora fosse passata, avrebbe comportato la caduta del governo.

L’opposizione non aveva i numeri per far passare il testo ma il governo temeva che la sinistra dissidente, i frondisti del Partito Socialista (PS), avrebbero solidarizzato con il centrodestra. La mozione è stata comunque rigettata e la legge approvata in prima lettura senza passare attraverso il filtro assembleare.

Il governo conta di avvalersi dell’articolo anche per far passare il testo al Senato.

Nonostante il governo si sia mosso all’interno del quadro costituzionale, questo atto sembra essere una vera e propria forzatura. Normali dinamiche del potere, dunque, se non fosse per uno scomodo precedente di François Hollande che nel 2006, in veste di segretario dei socialisti, aveva dipinto l’art 49.3 come “la violazione dei diritti del Parlamento, una brutalità, una negazione della democrazia, un modo per rallentare o prevenire la mobilitazioneLo stesso Valls nel 2008 era stato fautore, insieme ad altri deputati socialisti, di un emendamento volto a cancellarlo.

L’ennesimo ricorso al 49.3 (il quarto dall’inizio del mandato di Valls) è un chiaro segnale di debolezza da parte dell’esecutivo francese che non dispone di una solida maggioranza. 

Forzando la mano sul fronte politico, l’esecutivo ha acuito le tensioni con le opposizioni e le dissidenze interne. Questo ha portato alle modifiche al disegno iniziale, dando luogo però a un dissenso amplificato, invece che a una riduzione della tensione interna attraverso un compromesso democratico.

Le associazioni degli imprenditori, infatti, storcono il naso di fronte alla marcia indietro del governo, lamentando la “snaturazione” del testo originario. Intanto la mobilitazione sociale è sempre più massiccia. La petizione online contro la riforma ha superato il milione di sottoscrizioni, un vero e proprio record. Le manifestazioni si radicalizzano sempre di più, le violenze in seno ai cortei si fanno croniche e i toni della protesta sempre più accesi. A Parigi, Tolosa, Lione, Lille, la tensione è palpabile. Il presidente ha fatto sapere che non cederà sulla legge. Saranno le dinamiche in seno al Senato a decidere la sorte della travagliata riforma. Quello che è certo è che alle forzature del governo il fronte del no è intenzionato a rispondere con una riscoperta caparbietà che minaccia di infiammare ancora per molto le piazze francesi.

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