Uno sguardo all’interno del muro ungherese

Un anno fa è stato eretto un muro al confine tra Ungheria e Serbia. Questo avvenimento ha lasciato tutti inevitabilmente perplessi, ci si è domandati come, perché e se uno Stato potesse chiudere le proprie frontiere per bloccare un’ondata migratoria. Oggi 175 chilometri di muro lungo il confine serbo-ungherese impediscono i migranti dall’entrare nel paese, questo avvenimento è stato il fischio d’inizio di una partita che l’Europa non doveva perdere.

Il muro non è solo una difesa dall’ondata migratoria, è una metafora del complicato rapporto fra Ungheria e Unione Europea. Il Paese non si trova diviso dal resto del continente solo riguardo ai migranti. Diamo insieme uno sguardo dentro il muro ungherese.

Dal 1949 al 1989 la Repubblica Popolare d’Ungheria fu parte dell’Unione Sovietica, nel 1956 scoppiò la rivoluzione ungherese repressa immediatamente da parte dei sovietici riportando all’obbedienza lo stato magiaro. Le sorti del paese furono dunque quelle di uno stato satellite fino al rovinoso anno del 1989.

In seguito alla fine del regime comunista il Paese navigò verso  modelli occidentali, con conseguente cambio di sistema politico ed economico. Nel 1994 l’Ungheria presentò la domanda di adesione all’U.E. arrivata nel 2004, l’approdo nell’U.E. del Paese fu sancito dal referendum di adesione proposto nel 2003 ai cittadini. Ultima tappa del percorso di integrazione europea è stato il 2007 con l’entrata nell’area Schengen.

Il sistema politico Ungherese nei suoi sviluppi degli anni ’90 vede contrapporsi due schieramenti: 

  • Magyar Szocialista Párt”  partito di sinistra a favore di politiche liberiste che governa insieme ai liberali e al Fondo Monetario Internazionale dal 1994 al 1998 e del 2002 al 2010.
  • “Fidesz” partito di destra, che seppur conservatore ha alla base del suo programma l’intervento forte dello Stato in economia, apertamente nazionalista e populista, al governo tra il 1998 e il 2002 e attualmente dal 2010.

L’avvento al potere di Fidesz non sarebbe stato possibile senza la personalità di Viktor Orbán, nel 1998 fonda il partito e vince le elezioni contro i liberali e i socialisti. Da quel momento Orbán comincerà a costruirsi una notorietà enorme sia dentro che fuori l’Ungheria.

La politica e le istituzioni europee danno vita a una dura campagna contro il neo eletto premier già durante la sua prima amministrazione. Le accuse di antisemitismo e di autoritarismo pesano molto sul risultato delle elezioni del 2002, la sinistra vince clamorosamente la competizione soprattutto grazie alle accuse mosse in coro dalla stampa europea.

Seguono anni di isolamento per il presidente di Fidesz, i socialisti al governo del paese per due mandati conducono l’Ungheria verso il collasso finanziario. Con una strategia prudente e temporeggiatrice e con la fiducia costante del partito Orbán torna al potere nel 2010.

Le politiche pubbliche di Orbán sono spesso etichettate come “anticonvenzionali” queste scelte: vanno dalla tassazione maggiorata sui profitti delle banche alla nazionalizzazione dei fondi pensionistici, Orbán vuole marcare la discontinuità con le politiche della sinistra che rischiavano di gettare il paese in un ceco abisso di liberismo.

Il controllo dello stato sull’economia si è concretizzato in manovre come la ri-nazionalizzazione dei fondi pensionistici per un valore totale di 10 miliardi, o nella ri-acquisizione dell’azienda energetica Mol, acquisita da investitori russi nel 2009.

La disoccupazione è al 10%, i consumi privati in costante aumento. I successi di Orbán in campo economico stupiscono ancora di più se consideriamo che tutto ciò è stato realizzato senza aumentare il debito pubblico, passato dal 80,9% nel 2010 al 77,3% attuale (i governi socialisti lo avevano fatto impennare dal 55,1% del 2002 all’80,9%).

Il presidente ungherese è considerato da molti un rivoluzionario, accanito avversario degli “eurocrati” e protettore dell’europa dei popoli, da altri è sempre stato discreditato  con l’accusa di essere un autoritario. Orbán è semplicemente una delle tante facce della disomogenea politica europea, le sue scelte non possono essere ridotte a schemi autoritari o individualistici. Tra errori e traguardi l’Ungheria dimostra di essere uno stato capace di difendere la propria autonomia e allo stesso tempo di promuovere iniziative comuni europee, troppo spesso scartate ingiustamente.

Sotto il profilo politico gli attriti di Orbán con i leader europei sono palesi ma i rapporti con le imprese non vanno nella stessa direzione ed inoltre è innegabile che la crescita economica sia stata aiutata dai fondi europei.

Finché la stabilità continuerà ad essere garantita di certo non ci sarà una rottura definitiva fra Ungheria e Germania, le imprese tedesche continueranno ad investire nel paese. La dimensione di sviluppo regionale è un’ulteriore attrattiva per gli investitori tedeschi attratti dall’accessibilità del mercato del lavoro dell’Europa dell’est

L’Ungheria ha il merito di aver introdotto una legislazione efficacie e a difesa dei suoi cittadini, la forza e il pragmatismo del governo Orbán hanno portato un guadagno in termini di benessere ai cittadini e non solamente delle nazioni europee che troppo frequentemente hanno abusato dei nuovi arrivati appropriandosi delle economie locali.

La gestione del paese sotto il profilo economico è dunque sicura, e rappresenta il cavallo da battaglia che Orbán rinfaccia ai governi europei. Le maggiori critiche tuttavia si muovono soprattutto sulla visione estremamente conservatrice del leader. Fidesz è un partito popolare ma anche populista.

La base ideologica è fortemente influenzata da una visione “cristiana” dei rapporti sociali, e negli ultimi anni le scelte del premier hanno preso una piega ancora più duramente “di destra”. A Orbán non sono mancate le occasioni per dimostrarlo, la nuova costituzione entrata in vigore nel 2012 rappresenta il punto di partenza della sua politica:

  • il matrimonio esclusivamente riconosciuto tra uomo o donna.
  • la rivoluzione del ’56 è sancita come momento chiave della storia ungherese, in contrapposizione con l’esperienza comunista.
  • l’accento sull’appartenenza alla “nazione Ungherese” che supera i confini nazionali e include i 2 milioni e mezzo di magiari che vivono negli stati confinanti.

Un’ulteriore momento di crisi tra Orbán e l’europa è stata la “legge bavaglio” sui media, che prevedeva un forte controllo statale sull’informazione, sanzioni fino a 700 mila euro per le emittenti che colpivano “l’interesse pubblico” e “obbligo di dichiarare le fonti per questioni legate alla sicurezza nazionale”

Il governo, messo alle strette dalla Commissione Europea e bombardato dai media europei ha smussato la legge, presentandone una versione meno autoritaria. Non sono mancate, anche dopo la nuova legge, forti manifestazioni da parte dei giornalisti ungheresi.

Le scelte di Orbán dal suo mandato del 2010 fino alla nuova elezione del 2014 risentono inoltre di due fattori importanti:

  1. Il principale alleato di governo è il Partito Popolare Cristiano Democratico, storicamente radicato già dal 1944, assicura al governo una maggioranza del 68% dei seggi
  2. Il partito di opposizione Jobbik, partito d’estrema destra anti-europeista che sale nei consensi (20% nel 2014) a discapito dei socialisti e che rischia dunque di scavalcare un governo già ai limiti della destra. Orbán e il suo partito devono far fronte molto spesso all’inevitabile deriva verso destra del dibattito politico.

La strada intrapresa dal paese, tra errori e successi, tra esempi positivi e negativi è sicuramente una strada che non porta fuori dall’Europa. Dai recenti avvenimenti tutti hanno da trarre una lezione, i rapporti futuri tra la vecchia Europa e i nuovi arrivati dovranno formarsi su un rapporto di equilibrio troppo spesso sbilanciato o verso il nazionalismo o verso gli interessi economici. Tra i primi paesi con cui l’europa dovrà riconciliarsi c’è sicuramente l’Ungheria.

 

 

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