L’odio etnico è vivo in Macedonia

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Entro la fine dell’anno la Macedonia andrà al voto, dopo che la caduta dell’autocrate Nikola Gruevsky  avvenuta lo scorso agosto aveva lasciato il paese temporaneamente nelle mani di Gjorge Ivanov, capo del partito conservatore/nazionalista. L’esito del voto e la stessa vita politica futura del paese saranno pesantemente influenzati dal caos generato dalla divisione etnica del paese, ancora una volta centrale nell’attualità della piccola repubblica balcanica.

La maggioranza dei 2 milioni di abitanti del paese è di etnia slavo-macedone, che rappresenta il 65% della popolazione mentre circa il 25% della popolazione della Macedonia è di etnia albanese, una comunità concentrata in alcune aree montuose dell’ovest e spesso in tensione con la maggioranza slava del pease. Il rimanente 10% dei macedoni ha origini turche, bosniache, serbe, greche o bulgare.

Treccani

Lo scontro tra i due gruppi maggiori deriva in larga parte dalla percepita esclusione degli albanesi dalle istituzioni, nonostante la lingua e l’autonomia delle zone a maggioranza albanese siano tutelate, ma soprattutto da ragioni legate alla turbolenta storia recente della regione. Le due popolazioni sono infatti distinte oltre che dal punto di vista cultuale anche da quello linguistico e da quello religioso (cristiani ortodossi gli slavi e musulmani gli albanesi), e questa distanza è stata più volte cavalcata dalle rispettive correnti nazionaliste che hanno sfruttato il rancore risalente alla “Guerra dei Balcani” per la propria propaganda.

La guerra combattuta nel 2001 nel nord del paese tra l’esercito regolare e gli insorti del Fronte di Liberazione Nazionale albanese è fondamentale per capire le attuali tensioni. Dopo che nel 1999 quasi 200.000 profughi di etnia albanese provenienti dal Kosovo si riversarono nel nord della Macedonia, con loro passarono il confine molti guerriglieri dell’NLA (National Liberaion Army) e dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) che presto crearono disordini nelle aree in cui si stabilirono. Le violenze sistematiche che queste formazioni scatenarono contro la popolazione macedone dell’area, da loro ritenuta terra albanese, causarono centinaia di morti e fu necessario l’intervento dell’esercito e della NATO per tutelare la popolazione e fermare la guerra.

Questi eventi tracciarono un solco profondo tra le due comunità. Nuovi feroci scontri emergono ogni volta che una figura pubblica riapre anche minimamente il discorso sulla guerra e ogni volta che una decisione politica viene ritenuta penalizzante da uno dei due gruppi. Come se non bastase, soprattutto tra i giovani sta crescendo la segregazione tra le comunità: sebbene in Macedonia le minoranze siano tutelate soprattutto nell’aspetto culturale e linguistico, moltissimi genitori scelgono infatti di mandare i figli in scuole esclusivamente albanesi o macedoni, rimarcando di fatto la tossica divisione tra “noi” e “loro” in cui affonda le radici l’odio etnico.

In molte comunità albanesi serpeggia tutt’ora un forte sentimento separatista, derivante spesso dalla narraiva della “Grande Albania”, la vasta regione un tempo abitata da albanesi che oltre il loro stato vero e proprio comprende il Kosovo e parti di Montenegro,Serbia e appunto Macedonia. Per molte comunità che in questi paesi sono minoranze etniche questo progetto ideologico/nazionale rappresenta forse una speranza di migliori condizioni di vita e maggiore inclusione, ma la verità è che nelle zone di confine le comunità sono mescolate al punto da non poter passare in maniera indolore da una sovranità all’altra. Ormai questa retorica è solo la giustificazione politica con cui si auto-assolvono i gruppi paramilitari nazionalisti e i loro sostenitori.

Molti nel paese sono inoltre preoccupati che l’estremismo religioso vicino alle posizioni dell’ISIS, possa entrare nel conflitto, diffondendosi tra i soggetti più radicali del separatismo albanese. Già nella guerra del 2001 fu segnalata la presenza di un battaglione jihadista salafita nella zona nord del paese, ma la nuova recrudescenza del terrorismo religioso potrebbe surriscaldare nuovamente gli animi, visto anche l’alto numero di foreign fighters tornati nella zona dalla Siria e quanti sono ancora (alcuni con alti gradi militari) ufficiali delle brigate jihadiste.

Come già accaduto in molti paesi che hanno fallito nel disinnescare la tensione inter-etnica, molti temono che la caduta di una personalità forte come quella di Gruevski potrebbe portare a nuove instabilità, come nel caso della Libia dopo Gheddafi, dove quello del dittatore era l’unico potere in grado di bloccare la lotta intestina tra le tribù del paese.

I nazionalismi mai sopiti fanno molta presa sui giovani, amareggiati da disoccupazione e mancanza di prospettive (decine di migliaia emigrano ogni anno) e ormai ostili alla politica ufficiale sempre più inetta e populista, e nel vuoto di potere che rischia di seguire all’epoca Gruevsky rischiano di causare nuovi scontri e nuovo odio.

Chiunque raccolga l’eredità di Gruevsky sarà quindi obbligato a muoversi con cautela, per evitare che si crei un vuoto di potere nel quale potranno inserirsi gruppi pronti a sfruttare la situazione per i propri scopi. Questi obiettivi, tra l’altro, hanno ormai poco di ideologico: i separatisti organizzati sarebbero più interessati a rendere alcune zone ingovernabili, così da renderle un punto nevralgico delle reti del contrabbando e del traffico di droga, armi ed esseri umani come sono oggi vaste aree del vicino Kosovo o del nord dell’Albania.

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