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La riforma spiegata dagli esperti: Intervista a Beniamino Caravita di Toritto

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Continua il nostro ciclo di interviste sul referendum costituzionale. Oggi, dopo aver ascoltato i pareri del Professor Oreste Massari e del Professor Gianfranco Pasquino, parliamo con il Professor Beniamino Caravita di Toritto, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico nella Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma e firmatario del manifesto del “BastaunSì”.

Quali sono le caratteristiche positive e negative della riforma?

Prima  di tutto questa riforma interviene su due profili tradizionalmente critici dell’assetto istituzionale, ossia il bicameralismo paritario e simmetrico ed il rapporto Stato-Regioni.
Per quanto riguarda il primo, da sempre si è ritenuto che questo modello di bicameralismo non funzionasse bene. In assemblea costituente si arrivò quasi per caso a questa decisione; comunisti e socialisti avrebbero voluto una sola camera, i democristiani avrebbero voluto due camere di diversa rappresentatività, i liberali pensavano al modello della seconda camera dei notabili. Il compromesso fra queste posizioni fu il modello delle due camere, una delle quali, il Senato, costruita facendo riferimento all’organizzazione regionale, ma, comunque, entrambe con una medesima legittimazione politica.
Già dal 1948 il modello del bicameralismo è sempre stato oggetto di numerosissime critiche ed ancora oggi è uno dei temi classici di discussione.
I modelli di organizzazione della seconda camera, se si intende superare il bicameralismo, non sono moltissimi. Uno è quello della seconda camera di nomina regia, come per il modello britannico e per il modello italiano prima della costituzione del 1948 ma che, di certo, non è riproducibile oggi. Gli altri due modelli possibili sono quello del Senato come camera di riflessione, e del Senato come camera di rappresentanza degli interessi territoriali. La scelta del legislatore costituzionale si è orientata verso un Senato rappresentativo degli interessi territoriali composto da senatori che saranno tratti dai consiglieri regionali. Il modello così ottenuto è paragonabile al modello di tutte le altre grandi democrazie occidentali, in cui vi è, al Senato, la rappresentanza degli interessi territoriali. La critica che spesso viene mossa, consistente nel fatto che non sarebbe eletto democraticamente, non sussiste. In realtà sarà eletto comunque da soggetti rappresentativi della sovranità popolare quali sono i consigli regionali. Inoltre, sulla base della modifica costituzionale è possibile prevedere una legge elettorale regionale che permetta di indicare i consiglieri regionali che poi diventeranno senatori.
Questo schema di funzioni ha un senso in quanto c’è una piccola area di legislazione bicamerale, ossia le leggi costituzionali e le leggi ordinamentali, mentre su tutto il resto il Senato può richiamare il testo, ma alla fine prevarrà sempre la camera politica.
Poiché i senatori saranno tratti dai consigli regionali, si riduce di 315 unità il numero dei parlamentari. Questi senatori godranno della immunità dei voti e delle opinioni espresse, che spetta già ai consiglieri regionali, e poi  solamente dell’immunità parlamentare sotto il solo profilo dell’autorizzazione all’arresto da parte della camera di appartenenza, non già di una generica immunità parlamentare, che è stata eliminata nel 1993.
Il secondo grande blocco riguarda invece la razionalizzazione  della potestà legislativa delle regioni. La riforma del 2001 è stata una riforma azzardata che ha dato troppi poteri alle regioni, costruendo un modello di legislazione concorrente che ha attribuito eccessive competenze legislative alle regioni ed ha sempre funzionato male.
La riforma interviene quindi sul testo del 2001 riportando alla competenza statale una serie di materie attribuite alla legislazione concorrente in maniera completamente smisurata, che non aveva senso fossero di competenza regionale (tutto il sistema delle infrastrutture). Si costruisce poi un  modello di rapporto basato sulla separazione delle competenze legislative con due principali meccanismi di raccordo:

  1. La possibilità che lo Stato detti in alcune materie di potestà regionale, le cosiddette “disposizioni generali e comuni”, ossia disposizioni che secondo lo Stato vanno applicate ugualmente in tutte le regioni;
  2. L’introduzione della cosiddetta “clausola supremazia” per cui lo Stato può dettare norme di competenza regionale. In questo meccanismo vi è una garanzia politica nel senso che se il Senato si pronunzia contro, la Camera può comunque prevalere se approva il testo a maggioranza assoluta

Vi sono alcuni interventi sul potenziamento della democrazia diretta in quanto viene aumentato il numero di firme richieste per un’iniziativa legislativa popolare, ma viene introdotto l’obbligo per il parlamento di prendersene carico e viene ridotto inoltre il quorum di validità del referendum abrogativo se vengono raccolte 800’000 firme. Viene infine introdotto il potere della Corte Costituente di  controllare in via preventiva  le leggi elettorali.
Tutti questi sono, a mio parere, aspetti fortemente positivi della riforma che dovrebbero spingere ad una sua approvazione.
Per quanto riguarda gli aspetti negativi, bisogna prima di tutto ricordare che in qualsiasi riforma bisogna individuare i punti di compromesso. Credo che l’aspetto più critico sia quello  di non aver previsto ulteriori meccanismi per il rafforzamento della posizione del governo.
Infatti, nonostante le critiche infondate che vengono mosse su la cosiddetta deriva autoritaria, mancano tutti i meccanismi classici di rafforzamento del governo rispetto al parlamento, ossia la fiducia al solo presidente del consiglio, la fiducia costruttiva e la possibilità per il presidente del consiglio di chiedere scioglimento delle camere, presenti ad esempio nel contesto tedesco. Forse quindi il vero difetto non è aver introdotto un modello autoritario, ma non aver rafforzato abbastanza il ruolo del governo.

Secondo lei c’è un collegamento tra la riforma e l’Italicum?

Il punto fondamentale da ricordare è che non dobbiamo votare sulla legge elettorale, ma sulla riforma. La mia opinione è che il modello di riforma costituzionale può funzionare molto bene sia con il sistema maggioritario che con il proporzionale.
Questo collegamento necessario tra Italicum e riforma non c’è. La riforma può ben funzionare anche con un sistema proporzionale.
Inoltre la legge elettorale, sulla base della riforma, sarà sottoposta immediatamente al giudizio costituzionale della Corte che potrebbe dichiararla illegittima, ossia fare ciò che aveva fatto con il Porcellum.
Ma, a parte questo, per tradizione è possibile anche ricorrere ad un referendum abrogativo per la legge elettorale, ossia è possibile un referendum abrogativo parziale della legge elettorale che la modifichi o reintroducendo il ballottaggio di coalizione o creando un quesito abrogativo che riconduca l’Italicum ad una legge proporzionale. Tutto ciò a meno che la Corte non lo dichiari illegittimo prima.
Molti di quelli che voteranno a questo referendum sono giovani e devono sapere che la scelta del maggioritario nasce da una doppia scelta referendaria nel 1991 e nel 1993. Nel primo referendum si modificò il sistema elettorale della Camera eliminando le preferenze, nel secondo il sistema del Senato venne trasformato da proporzionale a maggioritario.
La scelta della legge elettorale è quindi una scelta sub costituzionale. Non solo non c’è collegamento ma essa potrà essere cambiata dal parlamento, dalla Corte o da un referendum. Tutto questo va a dimostrare ancora una volta, anche a prescindere dai “sordi”, che domenica si vota su nuovo assetto costituzionale secondo i succitati due principi, non sulla legge elettorale.

Cosa ne pensa del voto all’estero?

Il voto all’estero è stato introdotto quindici anni fa e tornare indietro adesso mi sembra estremamente difficile perché ci sono significative comunità italiane rimaste profondamente legate all’ Italia. Tornare indietro nel voto in paesi come la Germania o la Gran Bretagna, dove ci sono grandi comunità di italiani, mi sembra una cosa improponibile.
Diverso è invece il problema del rapporto con l’America latina. In Italia abbiamo una legge sulla cittadinanza che attribuisce con troppa facilità anche a coloro che abbiano solo lontani antenati italiani, il diritto di essere cittadini italiani.
Non credo che si debba ragionare sull’eliminazione del voto all’estero,  ma piuttosto sul riequilibrare la legge sulla nazionalità italiana. Bisognerebbe poi eliminare l’incongruenza delle circoscrizioni mondiali per gli italiani all’estero e  costruire un sistema di maggiori garanzie per l’anonimato e la segretezza del voto. Il vero problema però sta nel fatto che per queste cose c’è bisogno di ragionare in tempo utile, non un minuto prima dell’elezione, altrimenti diventa un ragionamento strumentale. Il tema è dunque assolutamente da riaprire, ma non da mettere in discussione due giorni prima del voto.

Si sente sempre più parlare della possibilità di una deriva autoritaria, pensa che questa riforma possa incidere realmente sulla forma di governo italiana?

Non c’è assolutamente una deriva autoritaria. La forma di governo italiana rimarrà parlamentare razionalizzata, ossia quella in cui il gioco parlamento-governo è temperato dall’intervento da un lato della Corte e dall’altro del Presidente della Repubblica. Questo circuito non viene modificato dalla riforma. Certamente si rafforza la posizione dell’esecutivo, non per degli interventi sul circuito bensì per conseguenze di tipo sistemico. Tra queste infatti possiamo vedere come la fiducia monocamerale vada sicuramente a rafforzare l’esecutivo, il quale non dovrà più cercare la doppia maggioranza; il cosiddetto voto a data certa consistente nella richiesta del governo al parlamento o alla Camera di pronunciarsi, entro un certo limite di tempo, su testi cruciali di indirizzo politico; la possibilità per il governo di intervenire su una materia di legislazione regionale a tutela dell’interesse nazionale. Tutti questi sono rafforzamenti di tipo sistemico che non vanno a incidere sul circuito tipico parlamento – Presidente della Repubblica – Presidente del Consiglio.
Tutto ciò non porta dunque ad una deriva autoritaria, ma piuttosto al rafforzamento sia dell’esecutivo che del parlamento.
Molto spesso  quelli che parlano di pericolo di deriva autoritaria, o almeno una parte di essi, vogliono un governo debole e “spappolato”, perché con un governo debole i poteri non democratici sono in grado di influire maggiormente sulla politica. Così, per una diabolica eterogenesi dei fini la critica che critica evoca la deriva autoritaria favorisce i poteri non democratici che avranno vita più facile! 

Quali sono, a suo parere, le conseguenze politico-economiche del sì e del no?

Inevitabilmente il No lascia le cose come stanno. In primis avremo delle conseguenze costituzionali, ossia con il Sì avremo un nuovo testo, altrimenti rimarrà quello vecchio e nessuno dovrà lamentarsi.
Quando si afferma che, una volta passato il no, si scriverà un nuovo testo costituzionale si sta sostenendo una colossale bugia. Per scrivere un nuovo testo costituzionale c’è infatti bisogno che 316 deputati e 180 senatori la pensino nello stesso modo e nel parlamento italiano di oggi non esisterà mai la possibilità che una tale maggioranza parlamentare riesca ad individuare in tempi rapidi nuovi modelli di riforma. Ci sarà chi chiederà l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, chi chiederà la forma di Governo assembleare, chi il Senato degli ottimati, chi quello dei comuni, chi il monocameralismo, ci sarà chi chiederà il rafforzamento delle autonomie regionali e chi le vorrà eliminare. Non sarà  possibile trovare un minimo comune denominatore  per il processo di riforma.
Per quanto riguarda il profilo economico, nel caso di una vittoria del No, a breve termine potrebbe esserci anche una iniziale caduta della  borsa e dei titoli di stato, ma probabilmente ciò durerà solo pochi giorni in quanto il Mercato tende a riassorbire queste tensioni. Ma il grande problema starà nel fatto che la vittoria del No potrebbe aprire una grande fase di instabilità politica le cui conseguenze si riverbereranno  sulla  collocazione economica e politica  dell’Italia sia nel contesto europeo  che internazionale..

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