Intervista a Giorgio Gattei: Bail-in, le premesse per la distruzione del risparmio

Giorgio Gattei, docente di storia del pensiero economico, aveva già iniziato a teorizzare la possibilità di una “distruzione” del risparmio per ristabilizzare un’economia “stanca” del libero commercio e vincolata dai patti del fiscal compact sulla spesa pubblica. A Parma e Bologna durante la presentazione del libro “Tempesta Perfetta” a cura dei ragazzi di Noi Restiamo. Oggi illustrerà questa teoria per lo Spiegone.

Di solito, la discussione in merito alle cause della crisi del 2008 contrappone due macroaree, tra chi sostiene che sia una crisi da sottoconsumo e chi crede che invece sia dovuta alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Alcuni sostengono pure che in Europa, e specialmente in Italia, ci sia bisogno di un maggiore livello di risparmio, rispetto a quello d’indebitamento, allo scopo di forzare la ripresa degli investimenti. Quali sono le sue impressioni soprattutto in merito a quest’ultima affermazione? C’è veramente bisogno che il livello del risparmio aumenti?

Tanto per cominciare, mi rimane veramente difficile credere a chi racconta che il dissesto economico attuale è dovuto ad una insufficienza di risparmio a fronte di un eccesso d’indebitamento. In realtà basta analizzare i dati con attenzione per rendersi conto che è vero esattamente l’opposto: il risparmio accumulato a fronte degli investimenti effettuati è in eccesso, ossia c’è più risparmio che investimento. Ed è proprio per questo che tale sovra-risparmio viene preferibilmente offerto alle famiglie e agli Stati indebitandoli entrambi, soprattutto gli Stati che “non possono fallire” e che rimborseranno i propri creditori, specialmente se esteri, con imposte e tasse a carico dei loro cittadini.

Ci spieghi meglio.

Che ci si trovi in una situazione di sovra-risparmio non è una novità. Già alcuni economisti come Larry Summers (consigliere economico alla presidenza Clinton) e Paul Krugman (premio Nobel per l’economia nel 2008) hanno preso a parlare di un fenomeno di stagnazione secolare per indicare una condizione di malessere economico strutturale in cui c’è capacità di risparmio, perché i profitti, le rendite, gli interessi e i dividendi sono alti mentre i salari sono bassi, ma non c’è convenienza ad investire nella produzione “reale” perché le aspettative di domanda non si mostrano allettanti. Il che è comprensibile: se si riducono i salari, s’indebolisce la domanda di consumo delle famiglie, che ben difficilmente può essere compensata da quella dei “riccastri”, ed è per questo che le banche hanno provato, attorno al 2000, a forzare la domanda delle famiglie concedendo loro, con azzardo e larghezza, quel “credito al consumo” che ha gonfiato la bolla speculativa poi scoppiata con la Grande Crisi dei Mutui Subprime!

Ma per capirci di più, serve un po’ di teoria. Chiunque abbia frequentato un corso di macroeconomia sa che è sempre vero identificare il reddito nazionale (Y) con la somma dei consumi delle famiglie (C), degli investimenti delle imprese (I), della spesa pubblica al netto delle tasse (G – T) e delle esportazioni al netto delle importazioni (X – M). Tutto questo in formula si può tradurre così:

   Y = C + I + G – T + X – M

Ora, una volta che al livello del reddito si sottrae il livello dei consumi, ciò che resta è il risparmio: S = Y – C, così che ne risulta, riadattando la formula di cui sopra, l’equazione dei “saldi di settore”:

(S – I) = (G – T) + (X – M)

dove a sinistra dell’uguale c’è il “saldo privato”, mentre a destra troviamo la somma del “saldo pubblico” e del “saldo estero”.

Se, come abbiamo detto, siamo in una situazione di sovra-risparmio, il saldo privato sarà positivo (S > I). Il che significa che, per pareggiare i conti, ci sarà bisogno di un deficit statale, ossia di una spesa pubblica maggiore delle tasse riscosse (G > T) e/o che l’economia sia export-led, ossia che le esportazioni superino le importazioni (X > M).

Quindi, se le soluzioni ad una situazione di sovra-risparmio si identificano o con un incremento di spesa pubblica in disavanzo oppure con un economia in avanzo commerciale, come si conciliano queste soluzioni con la nostra realtà?

Iniziamo fornendo un po’ di dati. Secondo Eurostat, per l’UE-19 il “saldo privato” (S – I) nel 2015 è ammontato a 676 mld di euro, in crescita rispetto ai 545 mld del 2011; il “saldo estero” (X – M) è positivo e crescente, passando da 135 mld del 2011 ai 461 mld del 2015; mentre il “saldo pubblico” (G – T) è positivo e pari a 215 mld nel 2015, ma in forte calo rispetto ai 409 mld del 2011 per il fatto che da marzo 2012 è in vigore l’accordo europeo di fiscal compact che ha l’obiettivo di portare i bilanci pubblici, in un prossimo futuro, al pareggio così che le entrate fiscali finiscano per coprire integralmente le spesa pubblica (T = G).

Posto allora che il “saldo pubblico” è decrescente per decisione politico-economica europea, l’unica possibilità di compensare l’eccedenza del risparmio sugli investimenti non può essere che quella di accrescere il “saldo estero”, spingendo sulle esportazioni fuori dalla zona-euro. Peccato però che la globalizzazione non goda oggi più di tanta buona fama. Il Fondo Monetario Internazionale ha dovuto riconoscere che le più grandi economie, come la Cina e gli Stati Uniti, hanno preso ad essere piuttosto “introverse” che “estroverse”: gli Usa non comperano più petrolio dal resto del mondo perché, con le nuove tecniche del fracking, ne hanno fin troppo in casa propria e addirittura hanno preso a venderlo sul mercato internazionale, mentre la Cina, che è in via di trapasso ad economia post-industriale e di servizi, ha preso a contare, per lo smercio della propria produzione, più sull’espansione della domanda interna, sostenuta dall’aumento programmato dei salari, che sulle esportazioni. Il risultato finale è che il mercato mondiale si va contraendo come confermano i dati del WTO, mentre con l’elezione del “protezionista” Trump gli Stati Uniti potrebbero venire a porsi come un freno alla globalizzazione, dopo esserne stati i promotori. E c’è già chi ne sta facendo le spese, come la sud-coreana Hanjin Shipping, settima compagnia di porta-container del mondo, che ha dovuto dichiarare fallimento alla fine di agosto lasciando le sue navi “congelate” alla fonda nei porti, mentre sono undici i grandi spedizionieri che hanno registrato cali nel trasporto del 30% rispetto all’anno scorso e dell’80% rispetto al 2007. Insomma, sembra che non ci sia tanto da sperare sulla compensazione del sovra-risparmio sul lato destro della equazione dei “saldi settoriali”. Ed è per questo che si deve affrontarne il problema direttamente sul lato sinistro, dove sta quella forbice del risparmio superiore agli investimenti.

Ma se il saldo pubblico in tendenziale riduzione e il saldo estero che sembra invertire la rotta ci costringono a concentrare l’attenzione sul saldo privato, quali sono le alternative che qui si presentano? Attraverso quali metodi si può riportare all’equilibrio il risparmio con gli investimenti?

Molto semplicemente le alternative sono due: aumentando gli investimenti oppure riducendo i risparmi.

Consideriamo il primo caso che, dato le circostanze, sembra la soluzione migliore. Proprio in questa direzione si è mossa la Banca Centrale Europea provando a stimolare gli investimenti con la riduzione del tasso di interesse portato ormai allo 0.00%. Eppure la BCE stessa si è dovuta arrendere di fronte alla inutilità della misura, perché gli investimenti privati non si sono affatto mossi. Ma ciò è evidente: essi dipendono dalle aspettative di profitto al netto del tasso d’interesse, ma se le prime si presentano negative, anche un tasso d’interesse nullo non può arrivare a rianimarli (si dice che “il cavallo non beve” e non lo si può costringere a bere). Allora Mario Draghi ha provato a impiegare il “bazooka”, come lui stesso l’ha chiamato, del Quantitative Easing (QE) che consiste nell’aumentare la base monetaria europea (la BCE è l’unica istituzione autorizzata a stampare moneta) mediante l’acquisto di titoli privati e pubblici in circolazione. Il problema però è che la BCE non può acquistarli, per statuto, sul “mercato primario, ossia direttamente dalle imprese e dagli Stati nazionali, ma li deve comperare sul “mercato secondario”, ossia dalle banche che li possiedono nei propri portafogli. Ma dove sta il problema? Le banche, con il denaro ricevuto in cambio di loro titoli, si sarebbero precipitate a concedere prestiti all’economia “reale”, sia alle famiglie che soprattutto alle imprese. Però non è andata affatto così e ne diamo le cifre esatte.

Dal marzo 2015 in cui è cominciato il Quantitave Easing e fino a dicembre è stata emessa maggior moneta per 658 mld di euro. Nello stesso periodo di tempo i prestiti bancari alle famiglie sono aumentati di 102 mld, mentre quelli alle imprese si sono ridotti (proprio così!) di 42 mld, con una ricaduta positiva sull’economia “reale” di appena 60 mld. Ma dove sono andati a finire gli altri 600 mld? In grandissima parte sono ritornati alla BCE, nel conto generale di tesoreria che le banche detengono presso di lei, che in effetti è aumentato di 515 mld e ciò nonostante che la BCE, per scoraggiarne il rientro, abbia imposto un tasso d’interesse negativo sui propri depositi dello 0,30% (passato allo 0,40% nel marzo 2016). A dispetto del paradosso si tratta di un comportamento razionale: se non si prevedono al momento prospettive di profitto “reale”, non è forse meglio lasciare i soldi al sicuro presso la BCE, anche al costo di un piccolo “pedaggio di sosta”, piuttosto che prestarli ad imprenditori che li investirebbero a rischio, fors’anche crescente, con la minaccia di non vederseli più restituire? Si tratta di quel fenomeno riconosciuto da Keynes negli anni Trenta a cui egli ha dato il nome esemplare di “preferenza per la liquidità”: dato il contesto economico negativo, i soldi che ho non mi conviene prestarli a nessuno!

Dunque, se la strada che mira ad un aumento degli investimenti sembra impercorribile, che altro resta se non affrontare quel risparmio in eccedenza? Ma come è possibile ridurlo?

Anzitutto io preferirei utilizzare un altro termine invece che “riduzione del risparmio”. Qui si tratta di una vera e propria distruzione del risparmio depositato presso le banche. E come si fa?

Si sa che qualsiasi banca è creditrice per i prestiti che concede alle famiglie e alle imprese, ma è pure debitrice per le proprie azioni ed obbligazioni che sono state sottoscritte e per i depositi che ha ricevuto. Ora, si dà il caso che al momento i clienti (famiglie, ma soprattutto imprese) hanno difficoltà a restituire integralmente i crediti ricevuti in prestito: per il sistema bancario europeo, secondo i dati del FMI, sarebbero 900 mld di euro i cosiddetti “crediti in sofferenza”, mentre per l’Italia alla fine del 2015 se ne stimavano 200 mld rispetto ai 44 mld del 2008 e con prevalenza di crediti alle imprese per 144 mld quale conseguenza inevitabile (come ha spiegato il governatore della Banca d’Italia) di 90 mila imprese fallite nel frattempo e di un calo del 20% della produzione industriale. Come arrivare allora a compensare questi mancati introiti di crediti bancari?

Le soluzioni sono varie: se di aumentare il capitale azionario bancario non si riesce perché non c’è nessuno che voglia investire i propri soldi in istituzioni finanziarie in difficoltà, potrebbe intervenire lo Stato (come si è sempre fatto) liberando le banche dal peso di quelle “sofferenze” acquistandole con le cosiddette bad banks oppure rilevando il loro patrimonio con denaro proprio ricavato da maggiori imposte e tasse così che l’onere del “salvataggio” finisca a carico di tutti i contribuenti (è la cosiddetta soluzione bail-out). Però adesso è stata introdotta la nuova procedura europea del bail-in, approvata dal Parlamento europeo nel 2014 ed entrata in vigore dal gennaio 2016. Secondo questa procedura devono essere tutti i creditori di banca  a dover subire il danno dei prestiti “deteriorati” mediante svalutazione dei loro risparmi: nell’ordine sia gli azionisti che hanno investito a rischio, gli obbligazionisti  che hanno prestato ad interesse e perfino i depositanti oltre i 100.000 euro che nei conti correnti hanno parcheggiato appena il proprio contante. E’ la nuova regola di responsabilità finanziaria europea per cui è colpevole non soltanto chi richiede un prestito (nella lingua germanica la parola schuld significa sia debito che colpa), ma pure chi concede i fondi per tali prestiti così che, se il risparmio è affidato a banchieri che si dimostrano incapaci di valorizzarlo, la colpa è del risparmiatore incauto e non del banchiere fellone ed è il primo che deve perdere i propri soldi e non il secondo!

Che ci sia qualcosa di illogico nella nuova procedura del bail-in l’ha capito il presidente dell’Associazione Bancaria Italiana che ha parlato di incostituzionalità perché verrebbe meno la garanzia di tutela del risparmio dei cittadini, ma si è sentito rimbeccare dal presidente dell’Eurogruppo che ormai “le regole sono cambiate” e poi, da una sentenza della Corte di giustizia europea, che il principio della condivisione delle perdite tra tutti i creditori bancari (sia azionisti che obbligazionisti che correntisti, nessuno escluso) “non viola le regole dell’Unione” dovendo anche il risparmiatore imparare a rischiare ed eventualmente anche a perdere il proprio risparmio se si devono riportare i “saldi settoriali” in equilibrio e altra soluzione non c’è. Insomma, se il “saldo estero” non tira a sufficienza perché la globalizzazione è stanca, se la spesa pubblica deve essere a calare perché si preferisce l’austerità e gli investimenti privati non ce la fanno a “bere”, è regola economica di mercato che siano i risparmi delle famiglie a sopportare l’onere di riportare l’equazione dei “saldi settoriali” al pareggio. Si può moralmente non condividere ma, come disse una volta il “buon” presidente Bill Clinton: “è l’economia, bellezza!” – e noi siamo, malgrado noi, economisti.

 

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