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Le risorse africane: panoramica sul petrolio

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il petrolio, fonte di guadagno e speculazione per le grandi compagnie occidentali, oltre che affliggere con quella che viene definita maledizione delle risorse la zona del Golfo Persico, non risparmia vaste aree del continente africano. Quest’ultimo non ospita giacimenti importanti come quelli mediorientali, ma la miscela che vi viene estratta è più ‘pulita’, più pregiata, ed economicamente più conveniente.

La storia del petrolio, ha inizio in tempi lontani, quando esso veniva utilizzato per la produzione di medicinali. La sua importanza crebbe prima in modo graduale, grazie all’invenzione delle lampade ad olio e al suo utilizzo per la produzione di nuovi materiali, finché esplose, quando le maggiori potenze mondiali decisero di alimentare i propri mezzi militari non più a carbone, ma a petrolio.

A partire dal primo dopoguerra, gli inglesi, i francesi, gli americani, gli olandesi e gli italiani, diressero i propri interessi in Medio Oriente e, poco dopo, in Africa. Nel continente nero si iniziò a estrarre petrolio negli anni ’50 e la produzione ha continuato a crescere fino al 12% sul totale mondiale di qualche anno fa, per poi calare leggermente negli ultimi anni a causa delle gravi instabilità interne dei paesi esportatori.

Per molto tempo la Nigeria è sembrato essere l’unico grande bacino petrolifero del continente, ma poi ad essa si sono affiancati l’Angola e il Sudan, e più recentemente anche il Gabon e la Guinea Equatoriale, che ha avuto un boom di produzione negli ultimi anni.

Le grandi compagnie petrolifere hanno dimostrato nel corso del tempo, un debole per il petrolio africano: ciò che ha attratto Stati Uniti, Cina e non solo, è stata la scoperta di nuovi giacimenti, così come la loro posizione geografica – situati per la maggior parte sulle coste del Mediterraneo e nel Golfo di Guinea – che permette una riduzione dei costi di trasporto, a cui contribuisce la presenza di giacimenti offshore, che si trovano in mare aperto, e allontanano il lavoro di estrazione dai problemi politici della terraferma. L’interesse delle compagnie occidentali è anche stimolato dalla migliore qualità del petrolio estratto in Africa, che riporta percentuali di solfuri considerevolmente minori rispetto a quello estratto in Medioriente.

La richiesta, e quindi il consumo, di petrolio a livello mondiale è aumentata e i fattori principali di tale dato sono l’allargamento delle importazioni da parte dei paesi emergenti, Cina e India in particolare, e il miglioramento della condizioni economiche globali dopo i ribassi causati dall’avvento della crisi economica e finanziaria del 2008. Allo stesso tempo anche la produzione di petrolio è velocemente incrementata, tanto da far sì che il prezzo scendesse considerevolmente: se fino a settembre 2014 il presso al barile si aggirava intorno ai 100$, all’inizio del 2016 era sceso sotto i 30$.

L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, l’OPEC, dopo numerosi incontri, ha raggiunto un accordo nel dicembre dello scorso anni per far sì che gli stati che lo compongono abbassino la loro produzione di petrolio per permettere l’innalzamento del prezzo dello stresso; da questa procedura sono però stati esentati due dei cinque stati africani che ne fanno parte, Nigeria e Libia, che sono afflitti da conflitti interni.

Il continente africano ospita, oltre ad alcuni grandi esportatori di petrolio, molti stati che, invece, il petrolio lo importano. Su 54 stati africani, 38 sono paesi importatori, tutti quanti classificati come paesi in via di sviluppo. La situazione che l’OPEC sta cercando di gestire (l’abbassamento del prezzo del petrolio), mentre penalizza gli stati esportatori, è una grande opportunità per gli importatori: il basso costo dell’oro nero permette ad essi di procedere all’acquisto della stessa quantità, con una spesa minore cosicché il rimanente possa essere utilizzato per finanziare l’economia dello stato stesso.

Le condizioni dei paesi esportatori risultavano, prima dell’accordo, più buie. Gli stati la cui ricchezza deriva maggiormente o interamente dalla vendita di petrolio sul mercato mondiale, si dimenticano spesso di tutti gli altri settori dell’economia, di conseguenza questi non vengono incentivati, non si sviluppano, e non sono perciò in grado di supplire alle perdite causate dal ribasso del prezzo del greggio.

Recenti studi hanno dimostrato che il livello di ricchezza e di sviluppo dei paesi esportatori di petrolio, così come il loro tasso di democratizzazione, sono evidentemente più bassi di quelli dei paesi importatori. In tali contesti, nessuna delle caratteristiche di quella che viene definita maledizione delle risorse è assente: il rallentamento della crescita economica, violenti conflitti civili e l’instaurazione di regimi non democratici. Un’altra caratteristica spesso riscontrata è la presenza di gruppi a stampo secessionista nelle zone ricche di giacimenti petroliferi, come nella zona del Biafra in Nigeria, o nel Cabinda in Angola.

Non mancano, oltretutto, i danni ambientali. Il WWF denuncia i numerosi permessi accordati per l’esplorazione delle zone del parco di Virunga, in Congo, e di quelle limitrofe, con la paura che la flora della foresta venga danneggiata, se non distrutta e con essa anche le popolazioni animali presenti. Contemporaneamente un rapporto di Public Eye, un’organizzazione non governativa svizzera, denuncia la vendita di combustibili diesel di pessima qualità ed altamente tossici da parte di compagnie europee ad alcuni stati africani, come la Nigeria, il Ghana e la Costa d’Avorio.

 

L’ingresso della Cina in Africa

Come ricordato, la Cina, uno dei paesi in via di sviluppo, sta potenziando la sua economia e la sua posizione di potenza mondiale, processo che richiede l’acquisto e l’utilizzo di grandi quantità di petrolio. Vista la situazione poco stabile del Medio Oriente, i cinesi hanno subito optato per investire in Africa.

In generale negli ultimi anni i rapporti tra il colosso asiatico e l’Africa si sono intensificati, in particolare a livello economico, attraverso la stipulazione di accordi, spesso bilaterali, con gli stati africani, per lo scambio di materie prime in cambio di finanziamenti per il rilancio delle economie del continente.

La grande differenza tra i cinesi e le altre potenze che investono in Africa, come Stati Uniti e Francia, è che essi non sono interessati alla politica, almeno non direttamente: il loro approccio è pragmatico e utilitarista, tanto da essere accusati dai governi occidentali di arrivare a fare accordi con sanguinose dittature. Non curante delle accuse, la Cina sta procedendo con grandi piani di sviluppo per l’Africa lanciando progetti di costruzione di strade, ferrovie, centrali elettriche e reti di comunicazione.

 

Gli USA, l’Africa e il petrolio

Gli Stati Uniti, come la Cina, hanno cominciato ad avere interessi in Africa quando la quantità di materie prime, di petrolio nello specifico, necessaria al loro fabbisogno, è aumentata. In Africa così come in Medio Oriente, è dopo la fine della Guerra Fredda che gli Stati Uniti hanno cominciato a farsi spazio: alla fine del 1992, sotto l’egida dell’ONU, guidano la missione UNITAF, con il compito di ‘utilizzare ogni mezzo’’ per far cessare il conflitto somalo, la missione fallisce.

Dopo l’11 settembre 2001, con l’inizio della guerra al terrore di Bush, gli stati africani sono degli ottimi alleati per la sconfitta dei gruppi jihadisti, tanto da spingere gli USA nel 2007 a creare un commando militare per l’Africa, l’AFRICOM. 

A controllare il petrolio c’è la Exxon Mobile, una compagnia figlia della Standard Oil di Rockefeller, che lavora in Europa con il marchio Esso. La grande compagnia però ha subito un grande smacco nel 2007, quando il suo valore sul mercato è stato superato da quello della PetroChina, la compagnia cinese.

Tutto sommato le differenze tra Pechino e Washington non sono poi così marcate: mentre il primo non fa caso ai regimi con cui tratta, anzi, forse predilige quelli autoritari perché più sicuri e decisi, il secondo cerca di stabilire una presenza stabile e forte sul territorio, in modo da poter intervenire in caso di necessità. I cinesi sembravano disinteressati alle questioni politiche del continente, ma sono diventati una forza militare molto presente sotto i colori delle Nazioni Unite e hanno in progetto di costruire la loro prima base militare a Gibuti. 

A questi va inoltre aggiunta la Francia. Françafrique è il termine utilizzato per definire i rapporti tra la potenza europea e il continente nero, sul quale ha sempre avuto un grande influsso, prima come colonizzatore, ora come investitore. A livello petrolifero è la Total a gestire da anni l’intero processo di produzione.

Il petrolio risulta in fin dei conti l’ennesima potenzialità sprecata dell’Africa, una delle tante risorse che invece di farla crescere, l’affligge. Mentre, come ricordato, la produzione di petrolio del continente nero si aggiri ora intorno al 10% del totale mondiale il suo consumo rimane inferiore al 4%, a dimostrazione che nessuna evidente crescita è in atto.

 

 

 Fonti e approfondimenti

http://www.aljazeera.com/indepth/interactive/2016/10/race-oil-gas-africa-161020104953200.html

Fai clic per accedere a Oil%20and%20Gas%20in%20Africa.pdf

https://www.theguardian.com/global-development/2016/jan/13/africa-oil-giants-anxious-times-commodities-boom-oil-metals

http://cartografareilpresente.org/article117

http://espresso.repubblica.it/internazionale/2016/01/27/news/ong-contro-i-petrolieri-salviamo-i-gorilla-di-montagna-1.247917

Fai clic per accedere a PublicEye2016_DirtyDiesel_A-Public-Eye-Investigation.pdf

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