Disuguaglianza economica: la sfida inevitabile della politica statunitense

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il tema della disuguaglianza economica sta guadagnando sempre più spazio nella discussione politica statunitense, non che questo rappresenti una novità, ma l’attenzione che riceve oggi sicuramente lo è. Mentre i redditi delle famiglie restano stagnanti e gli effetti nocivi della disuguaglianza si acuiscono, la politica di Washington non può nascondersi dietro l’ormai tramontata retorica del “sogno americano”.

La disuguaglianza, in economia, è la misura di quanto la distribuzione delle risorse sia lontana dalla situazione di equità, tendendo invece alla concentrazione di molto nelle mani di pochi. In particolare la disparità di reddito (stipendi, rendite e altri guadagni) risulta molto più interessante da valutare rispetto alla disparità nel possesso della ricchezza (beni capitali, proprietà e altri assets), che invece è frutto di dinamiche protratte nel tempo.

Per misurare la disuguaglianza di reddito esistono vari indicatori, come il confonto tra il reddito medio delle varie fasce di popolazione, l’indice di Atkinson oppure degli indicatori statistici di concentrazione. Il più utilizzato di questi è il coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianza della distribuzione dei redditi assegnando un valore tra 0 (perfetta equidistribuzione) e 100 (uno solo possiede tutto). Ovviamente usare questo indicatore per misurare la disuguaglianza di reddito ha delle controindicazioni, visto che il coefficiente non esprime alcuna misura della povertà ed è influenzato pesantemente dal divario di sviluppo città/campagna o tra regioni, ma è comunque ritenuto una misura significativa.

L’andamento della disugualianza tra la popolazione mondiale (non divisa per provenienza) risulta in calo: negli ultimi 20 anni moltissimi abitanti di paesi popolosi e relativamente poveri come India e Cina hanno migliorato le proprie condizioni di vita, così come in altre aree. La misura di questa disuguaglianza resta alta, ma tra il 2003 e il 2013 è sceso da 69 a 65, anche se molti autori criticano questo dato, rimarcando come nonostante il dato stia lentamente migliorando, il divario tra il gruppo dei più ricchi e quello dei più poveri è in aumento.

Di pari passo è calato il divaro tra Stati, che probabilmente continuerà a scendere grazie alla forte strategia di crescita di molti paesi di recente industrializzazione, ma il rovescio della medaglia sono le situazioni vissute all’interno dei singoli paesi. La disuguaglianza tra i cittadini segue un trend più o meno crescente in tutti i Paesi, tanto nelle aree già problematiche da questo punto di vista quanto nei paesi occidentali industrializzati, in cui storicamente i redditi sono distribuiti in maniera relativamente più omogenea.

Un dato emerge però con evidenza: la disuguaglianza assume negli Stati Uniti proporzioni molto superiori alle medie degli altri Paesi occidentali. Imputare questo dislivello alla struttura stessa dell’indicatore risulta difficile: le dimensioni socio-politiche di partenza sono comparabili con quelle europee o australiane. Il problema, quindi, risiede nelle politiche economiche e sociali degli ultimi decenni.


L’aumento della disuguaglianza viene spesso collegato con l’accelerazione della globalizzazione dalla fine della guerra fredda, processo giunto al suo culmine nei primi anni 2000.
L’assunto è molto semplice: la possibilità di delocalizzare la manodopera industriale ha fatto perdere molti dei posti di lavoro che storicamente avevano permesso il miglioramento sociale della classe operaia americana, lasciando disponibili solo posti per personale altamente formato. Non sorprende quindi che negli ultimi decenni la disoccupazione tra le fasce dei lavoratori non specializzati sia cresciuta fortemente, tra l’altro mentre i salari loro offerti non crescevano e perdevano progressivamente potere d’acquisto. Questa è in realtà una semplificazione, una retorica utile ad un certo discorso politico-ideologico, un guardare ad un effetto piuttosto che a una causa, che va invece ricercata altrove.

Come sostenuto da molti studiosi autorevoli, come Joseph Stiglitz, Emmanuel Saez, Anthony Atkinson o Thomas Piketty incolpare completamente la globalizzazione è riduttivo: sono le “regole del gioco” con cui vi si è giunti ad aver determinato il carattere predatorio dell’intero processo. In quegli anni e già da molto prima la ricchezza degli Stati Uniti è cresciuta moltissimo, ma di pari passo i redditi delle famiglie sono rimasti stagnanti, al contrario dei profitti delle fasce economiche superiori che sono aumentati esponenzialmente. La mancata redistribuzione non è un fenomeno inesorabile ma il frutto delle scelte (o delle omissioni) della politica, che è in grado di correggere le distorsioni del mercato.

I dati statistici possono offrire una conferma parziale a queste affermazioni:  il trend della disuguaglianza dal dopoguerra è sempre in crescita ma subisce la recente impennata già dal 1980, periodo in cui la globalizzazione era un sogno audace piuttosto che una realtà, ma il neoliberismo già guadagnava potere e si apprestava a diventare l’ideologia dominante nel campo economico a stelle e strisce.

La coincidenza dell’implementazione delle politiche neoliberiste e la crescita della disuguaglianza non deve sorprendere: mano a mano che vennero smantellati i regolamenti e le barriere poste al mercato nazionale e mondiale questo assunse sempre più l’aspetto di un’arena in cui “chi vince prende tutto”, e chi era già dotato di potere economico vide crescere enormemente le sue possibilità di sfruttarlo.

La globalizzazione rappresenta quindi solo l’ampliamento di un’arena le cui regole erano già state stabilite in epoca Reagan, un processo in cui se da una parte le condizioni di vita di molti americani sono migliorate sensibilmente quelle dei più ricchi lo hanno fatto in maniera esponenzialmente maggiore, mentre chi non è riuscito a “tenere il passo” è stato lasciato indietro e quasi incolpato di questo.

L’aumento della disuguaglianza di per sè infatti non prevede in automatico l’aumento della povertà: anche se a diverse velocità possono crescere contemporaneamente i redditi di tutte le fasce di popolazione. Il problema si pone quando lo squilibrio di potere economico si traduce in uno squilibrio sensibile nel potere politico, ed è a quel punto che le condizioni di vita ne risentono.

Negli Stati Uniti il problema politico è reso particolarmente grave dalla fortissima connessione tra ricchezza e potere, aumentata parallelamente al costo delle campagne elettorali. Il bisogno di spendere somme sempre maggiori per la politica obbliga i candidati a ricercare sponsor e donazioni per finanziare le proprie candidature alle cariche pubbliche (assegnate con sistema plurality) e queste non sempre sono disinteressate.

Elezione dopo elezione la politica è quindi diventata sempre più dipendente dal denaro ricevuto dai centri del potere economico o dalle disponibilità economiche dei candidati stessi, che hanno guadagnato così un fortissimo ascendente su quella che sarà poi l’agenda della politica locale e nazionale. Diventando soggetti indispensabili per vincere le elezioni, le grandi corporation saranno quindi in grado di pretendere legislazioni favorevoli e fare ostruzionismo verso quelle che non gradiscono, che però sono solitamente quelle capaci di contenere la crescita della disuguaglianza.

Gli interessi dei grandi gruppi finanziari e delle corporation e quelli dei cittadini meno forti economicamente, infatti, sono assolutamente divergenti: imposte progressive, responsabilità sociale delle imprese, regole contro il monopolio e la concorrenza sleale e maggiore potere regolamentare dello stato (salario minimo etc.) sono politiche che salendo nella gerarchia economica riscuotono sempre meno successo, mentre sarebbero in grado di migliorare le condizioni di vita delle fasce più deboli.

Se da un lato quindi le grandi imprese ricevevano sgravi fiscali, regolamenti permissivi e l’appoggio della politica nel premere fortemente per l’apertura dei mercati internazionali e la loro liberalizzazione, la classe media non riceveva un simile trattamento di favore. Al grido di “meno stato e più mercato” le tutele del lavoro sono andate scomparendo, così come quasi tutta l’attività sindacale e programmi statali di supporto al reddito delle famiglie e di istruzione/formazione pubblica.

Mentre la classe media perdeva progressivamente la possibilità di ricevere una buona istruzione o un lavoro tutelato i centri del potere economico e finanziario prosperavano, tanto da impedire che l’enorme aumento di produttività dell’economia americana di quegli anni si traducesse in un effettivo aumento del reddito delle famiglie.

L’aumento della disuguaglianza non provoca automaticamente povertà, lo abbiamo detto, ma un gravissimo aspetto che caratterizza i paesi con alti livelli di disuguaglianza è l’immobilità sociale: persone nate in una certa classe economica hanno basse probailità di riuscire a passare a quello superiore, rischiando invece il declassamento.

Questa complessiva riduzione delle possibilità di miglioramento economico ha un impatto particolarmente duro al livello politico, causando diffuse situazioni di “privazione relativa”, la frustrazione che deriva dalla delusione delle proprie aspettative di miglioramento delle proprie condizioni di vita, che inevitabilmente influenza il comportamento elettorale oltre che il sistema di valori.

La politicizzazione della disuguaglianza sarà quindi un aspetto via via sempre più caratterizzante della politica del prossimo futuro, sempre più importante con il diffondersi della consapevolezza sul tema e l’inasprirsi degli effetti negativi sulla vita quotidiana. La disuguaglianza non è infatti una novità ma la grande attenzione che sta guadagnando negli studi scientifici e nell’informazione mainstream, al contrario, lo è.

Già nelle proteste legate alla crisi finanziaria iniziata nel 2007 hanno iniziato a serpeggiare le prime rivendicazioni contro la disuguaglianza, per poi esplodere nel 2011, quando “noi siamo il 99%” divenne lo slogan di punta del movimento Occupy. Proprio in quel periodo infatti fecero scalpore le rilevazioni secondo cui l’1% più ricco della popolazione americana aveva toccato la quota del 50% della ricchezza nazionale, segnando irreparabilmente la frattura tra il “noi” e il “loro”.

In tempi più recenti il discorso sulla disuguaglianza è stato al centro della campagna di Bernie Sanders per la corsa alla nomination dei Democratici per le elezioni presidenziali, vinta però da Hillary Clinton. Se pensiamo a quanto le idee radicali in fatto di redistribuzione economica non siano esattamente popolari negl Stati Uniti, il successo ottenuto dal senatore del Vermont è stato travolgente e indica che forse è in corso un cambiamento consistente nell’opinione pubblica.

Durante la sua campagna elettorale lo stesso Donald Trump ha messo in evidenza alcuni di questi argomenti, sebbene in maniera superficiale. Trump ha sfruttato la retorica che incolpa la globalizzazione di aver causato la disuguaglianza per proporre in maniera populista una sorta di nuovo protezionismo economico, in cui addirittura l’industria del carbone ha un ruolo, e ha promesso di rivedere proprio quelle norme fiscali favorevoli ai grandi patrimoni di cui ha sottolineato di beneficiare lui stesso.

A cento giorni dal suo inizio è incauto giudicare una presidenza, ma i segnali che ha dato fino ad ora non promettono bene e sembrano confermare queste promesse come semplice campagna elettorale. La presidenza Trump non sembra intenzionata a invertire la rotta del paese verso la deregulation selvaggia e la privatizzazione dei servizi pubblici, che anzi intende smantellare ulteriormente a partire da sanità e supporto alle fragilità. La stessa politica fiscale sembra escludere una resa più progressiva delle imposte ma anzi pianifica ulteriori sgravi a corporation e super-ricchi, proprio quelli che aveva criticato in campagna elettorale.

Quale che sia il futuro dei cittadini americani nei prossimi anni resta certo che ormai l’incantesimo del “sogno americano” è irrimediabilmente concluso: lavorare duro non assicura il miglioramento delle proprie condizioni di vita e il progresso generale del paese non si tradurrà in benefici individuali.

 

 

Fonti e Approfondimenti:

Anthony B. Atkinson – Disuguaglianza. Che cosa si può fare

Joseph Stiglitz – La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla

Joseph Stiglitz – Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro

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https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2593894

https://ourworldindata.org/global-economic-inequality

http://annualreviews.org/doi/pdf/10.1146/annurev.publhealth.21.1.543

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https://www.foreignaffairs.com/articles/world/2017-04-17/liberal-order-rigged?cid=int-now&pgtype=qss

It’s the Inequality, Stupid

http://inequality.stanford.edu/publications/20-facts-about-us-inequality-everyone-should-know

http://thehill.com/blogs/pundits-blog/economy-budget/318941-many-of-trumps-policies-will-further-intensify-income

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