“Don’t forget us”: la guerra infinita della Repubblica Centrafricana

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Dal 2013, nella Repubblica Centroafricana va avanti una guerra civile che non sembra avere speranze di risoluzione in tempi brevi. Il Paese vive giornalmente di scontri, sturpi, massacri, mutilazioni e di una guerra che ogni giorno porta a combattore migliaia di bambini-soldato. Una guerra che vede contrapposti musulmani e cristiani, Séléka e anti-Balaka, ma che va oltre le mere differenze religiose. È ormai qualcosa di più: uno scontro tra civili che tra giochi di potere e interessi economici e politici si è radicato nella stessa popolazione, che ne resta la vittima principale. In questo articolo tratteremo delle cause e dello sviluppo del conflitto.

 

Le cause

Il conflitto nella Repubblica Centrafricana (CAR) ha le sue radici nelle vicende del periodo coloniale e nella struttura economica che i conquistatori contribuirono a creare. La politica coloniale della semi-schiavitù favorì alcuni gruppi etnici e religiosi. In questo caso i francesi preferirono i musulmani, che a quel tempo possedevano zone ricche di risorse naturali.

Nel corso degli anni il sistema economico imposto dalla Francia cambiò forma a seconda delle preferenze dei detentori del potere e degli industriali provenienti dal colosso europeo. Con la proclamazione d’indipendenza del 1960 scomparvero i privilegi passati e vennero ridistribuite terra e risorse. I continui stravolgimenti di potere portarono a riassegnazioni terriere continue e ogni nuovo Presidente centrafricano cercò di favorire il gruppo etnico di provenienza, cambiando sistematicamente gli equilibri socio-economici. 

Il sottosviluppo e la povertà combinati con l’avidità e la corruzione degli attori statali, soprattutto durante il mandato di François Bozize, contribuirono a sgretolare la società in tante piccole fazioni. La spaccatura più evidente fu quella religiosa, tra musulmani e cristiani. 

Alle ragioni economiche vanno ad aggiungersi quelle sociali. Le due sono strettamente collegate. La frammentazione etnica è un problema centrale per la comprensione dello stato centroafricano: le radici storiche e la società mal organizzata, senza un potere amministrativo forte, sono le cause maggiori della divisione del Paese in numerosi gruppi, ognuno dei quali ha cercato di organizzarsi militarmente per accaparrarsi la propria fetta di terreno.

La mappa che segue mostra solo in parte il livello di disgregazione sociale: più di ottanta gruppi etnici compongono la popolazione della Repubblica Centroafricana, ognuno dei quali parla una lingua diversa.

 

I fatti

La frammentazione sociale e religiosa appena descritta non poteva che sfociare in una guerra civile: la cosidetta Central African Republic Bush War. La guerra ebbe inizio con una ribellione, guidata da Michel Djotodia, dopo che François Bozizé prese il potere nel 2003. Durante questo conflitto le forze di Djotodia combatterono il governo della CAR, insieme a tanti altri piccoli gruppi di sovversivi sparsi qua e là dentro i confini del Paese. Nel 2007, anno in cui le forze ribelli presero il controllo di diverse città, il conflitto causò decine di migliaia di sfollati.

Il 13 aprile dello stesso anno fu firmato un accordo di pace tra il governo e i ribelli a Birao. L’accordo prevedeva l’amnistia per i membri del gruppo ribelle, il suo riconoscimento come partito politico e l’integrazione dei suoi combattenti nell’esercito nazionale. 

Secondo l’organizzazione dei diritti umani, durante la Bush War centinaia di civili furono uccisi, più di 10.000 case furono bruciate e circa 212.000 persone abbandonarono le loro case per vivere in condizioni disperate nella boscaglia situata nelle zone settentrionali della Repubblica Centrafricana. Inoltre i gruppi ribelli sostenevano che Bozizé non avesse rispettato i termini dell’accordo del 2007 e che continuassero ad esserci abusi politici, tra cui l’utilizzo di mezzi di tortura ed esecuzioni illegali, soprattutto nella parte settentrionale del paese.

Per questi motivi, nel 2012, ripresero gli attacchi da parte di un nuovo gruppo, sempre capitanato da Djotodia, che prese il nome di Séléka (Coalizione), formato da sciami di ribelli sparsi per tutto il Paese. La religione musulmana era il loro comunque denominatore. Il gruppo Séléka chiamò a sé un numero sempre maggiore di soldati, in particolare mercenari provenienti dagli Stati limitrofi. La volontà della coalizione era chiara fin da subito: prendere il potere. All’inizio del 2013 il Fronte Séléka aveva raggiunto una forza tale da poter impensierire la capitale Bangui, avendo conquistato molte città e villaggi a Nord del Paese.

 

Bozizé chiese assistenza alla comunità internazionale, in particolare alla Francia e agli Stati Uniti, durante un discorso nella capitale Bangui. Il presidente francese François Hollande respinse la richiesta, affermando che le truppe francesi sarebbero state utilizzate solo per proteggere i cittadini francesi in CAR e non per difendere il governo di Bozizé. Nel frattempo, i ministri degli esteri della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (CEEAC) annunciarono un aumento delle truppe della Forza Multinazionale per l’Africa Centrale (FOMAC), per sostenere i 560 membri della missione già presente (MICOPAX).

Ma Séléka avanzava ormai verso la capitale. Il Presidente Bozizé accettò un possibile governo di unità nazionale con i membri della coalizione Séléka.  Egli aggiunse che il governo CAR era pronto ad iniziare i colloqui di pace, “senza condizioni e senza indugi“. L’11 gennaio 2013, fu firmato un accordo di cessate il fuoco a Libreville, in Gabon. I ribelli, lasciata cadere la loro richiesta di dimissioni del Presidente François Bozizé, dovettero nominare un nuovo capo di governo entro il 18 gennaio 2013. Il 17 gennaio, Nicolas Tiangaye fu nominato primo ministro.

Il cessate il fuoco venne interrotto il 23 gennaio 2013. Le parti si accusavano a vicenda di non aver onorato i termini dell’accordo di condivisione del potere. Dopo questa ennesima rottura degli accordi il Fronte Séléka decise di entrare a Bangui, prendendo d’assalto il Palazzo del Governo. Bozizè fuggì in Repubblica Democratica del Congo e Djotodia venne eletto Presidente il 25 marzo 2013.

La presa di potere da parte del Fronte Séléka portò il Paese in uno stato di collasso e violenza. Gli scontri periodici furono sostituiti da una guerra civile totale tra le due fazioni. L’economia del Paese, ridotta a metodi di sopravvivenza, il banditismo e la guerriglia urbana, spinsero la nazione a dichiarare il fallimento, seppur altri attori regionali continuassero a sfruttare i suoi giacimenti minerari. Djotodia promise di sciogliere il Fronte Séléka e riportare la pace all’interno del Paese, ma la frammentazione dell’amministrazione statale e gli interessi campanilistici impedirono il processo di distensione.

 

Un nuovo attore

Una nuova ondata di violenze non tardò ad arrivare quando un gruppo ribelle di fede cristiana, gli anti-Balaka, cominciò a sferrare attacchi in funzione anti Séléka. Il movimento anti-Balaka è stato creato nel primo decennio del XXI secolo. Il gruppo era principalmente impegnato nella difesa degli abitanti dei villaggi. Il governo di Bozize incominciò poi a finanziare il gruppo soprattutto con munizioni e altre forniture militari.

Anche se il movimento anti-Balaka nacque come un gruppo spontaneo gestito da civili che avevano bisogno di sicurezza, la fazione inserì rapidamente ufficiali militari di basso rango, che lo portarono ad assumere una vera e propria struttura militare. 

Dopo il 2013, e il crescente potere acquisito del gruppo Séléka, l’anti-Balaka è passato allo scontro aperto. Il gruppo è riuscito rapidamente ad espandere la sua sfera di influenza e la sua mobilitazione. 

 

Le conseguenze

Lo scontro tra i due gruppi armati ha avuto tragiche ripercussioni nel Paese. Villaggi distrutti, esecuzioni sommarie, saccheggi e violenze hanno costretto migliaia di civili ad abbandonare le proprie case, come documentato in un rapporto realizzato da Human Rights Watch. All’inizio del 2014, i ribelli di Séléka si sono ritirati a est, mentre Djotodia è stato costretto alle dimissioni e sostituito dal presidente di transizione Catherine Samba-Panza, ex sindaco della capitale Bangui. Tuttavia le atrocità non si sono fermate.

Le milizie anti-Balaka hanno cominciato ad attaccare la minoranza musulmana, mettendo a ferro e fuoco i loro villaggi, al punto che le Nazioni Unite hanno classificato queste aggressioni sistematiche come pulizia etnica. Decine di migliaia di musulmani sono fuggiti in Camerun e Ciad, mentre altre migliaia vivono in campi profughi all’interno dei confini nazionali.

Un rapporto, presentato al Consiglio di sicurezza, da una commissione d’inchiesta, nel Dicembre del 2014, parlava di migliaia di vittime e oltre 500.000 sfollati:Migliaia di persone sono morte a causa del conflitto. Entrambe le parti hanno commesso abusi e violazioni dei diritti umani. Séléka e gli anti-Balaka sono responsabili di crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Circa 2,5 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, più della metà della popolazione centrafricana.

Nuovi (fallimentari) tentativi di pace

Nel gennaio del 2015, un gruppo di ex ribelli di Séléka e di miliziani anti-balaka hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, firmato a Nairobi, in Kenya, alla presenza di François Bozizé e di Michel Djotodia: l’intesa prevedeva la fine delle ostilità, il disarmo, la smobilitazione e il reintegro dei ribelli. Il trattato è stato subito respinto dal governo di Bangui, perché “escluso dai negoziati. Le ostilità sono così proseguite fino alla firma di un nuovo accordo ad Aprile 2016 sottoscritto da Joachim Kokate, in rappresentanza degli anti-Balaka, e dall’ex presidente Michel Djotodia per gli ex Séléka. Ancora una volta il cessate il fuoco non è stato rispettato.

Anche se la religione potrebbe sembrare la principale causa del conflitto, i problemi economici e sociali profondamente radicati stanno alimentando le fiamme di questa guerra civile. La radice dell’attuale crisi politica e sociale è il collasso sistematico dello Stato. Il fallimento della Repubblica Centroafricana è stato  accentuato dall’assenza di un sistema giudiziario, dall’incapacità di fornire una vita dignitosa ai cittadini e dalla debolezza complessiva delle sue forze di sicurezza, che avrebbero dovuto impedire l’emergere dei vari  gruppi armati.

Tutte le fazioni che combattono nel conflitto sono riuscite rapidamente a diffondere una cultura di violenza e di banditismo nell’intero Paese. Armati da un ampio spettro di armi provenienti da Europa, Medio Oriente, Corno d’Africa e Cina (le munizioni cinesi sono probabilmente quelle più utilizzate nel conflitto) questi gruppi riescono a controllare il Paese. Nel frattempo, i Paesi vicini utilizzano la guerra civile per trarre profitto o ampliare la loro influenza. La ricostruzione del governo e del sistema giudiziario e la fondazione di una qualche forma di società civile sono essenziali per avviare il processo di riconciliazione.

Fonti e Approfondimenti

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https://www.crisisgroup.org/africa/central-africa/central-african-republic/253-avoiding-worst-central-african-republic

https://freedomhouse.org/report/freedom-world/2015/central-african-republic

https://www.africaportal.org/publications/central-african-republic-a-conflict-misunderstood/

http://www.limesonline.com/la-repubblica-centrafricana-non-deve-essere-il-nuovo-ruanda/61050?refresh_ce

https://www.cfr.org/interactives/global-conflict-tracker?cid=ppc-Google-grant-conflict_tracker-031116&gclid=CjwKCAjw6szOBRAFEiwAwzixBaAJ81yiTmLdi_NVtLB5Xfbd

https://www.hrw.org/world-report/2017/country-chapters/central-african-republic

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