Una nuova speranza per i Rohingya: cosa cambia con l’accordo tra Myanmar e Bangladesh?

Rohingya
@DFID - UK Department for International Development-Flickr-CC-BY 2.0

I Rohingya rappresentano un’etnia di circa un milione e mezzo di persone, di religione islamica, distribuita prevalentemente tra Myanmar, Bangladesh e Pakistan. La lingua parlata è il rohingya, di matrice indoeuropea, ma la provenienza del gruppo è ancora oggi oggetto di ampie discussioni. Le due interpretazioni prevalenti sostengono una che sia indigeno dello Stato di Rakhine, in Myanmar; l’altra che provenga dal Bangladesh, prima di migrare nella colonia inglese: la Birmania.

 

La condizione dei Rohingya in Myanmar, dove la religione più praticata è quella buddista, è alquanto complessa. Nel periodo della giunta militare, ed in particolare nel 1978, il Paese ha ripetutamente violato i diritti umani del gruppo minoritario, provocandone la fuga in massa verso il Bangladesh. L’obiettivo era molto chiaro: comprendere quanti tra gli abitanti fossero locali e quanti stranieri, in conformità con le leggi vigenti. Esse, in particolare, non riconoscevano ai Rohingya la cittadinanza birmana e li costringevano a viaggiare con appositi permessi di soggiorno. Tra le altre misure altamente discriminanti erano in vigore, l’espropriazione dei terreni posseduti e una rigorosa politica sul controllo delle nascite volta a limitare la continuazione generazionale dell’etnia.

In tempi più recenti la situazione è ulteriormente precipitata. Nell’ottobre del 2016 attacchi armati si sono registrati tra militanti Rohingya e la polizia birmana, ai confini settentrionali dello Stato di Rakhine, dove la minoranza è più concentrata. Come conseguenza, il governo ha immediatamente bloccato le operazioni umanitarie e, a detta di Amnesty International, si sarebbe macchiato di episodi di pulizia etnica come forma di rappresaglia. Decine di migliaia di persone hanno perso le loro abitazioni e almeno trentamila si sono spostate in Bangladesh. Nella restante parte dello Stato di Rakhine, in via precauzionale, la restrizione delle libertà personali verso tutti i musulmani è stata posta in essere. Molti Rohingya, nonostante le promesse dei leader politici tra cui Aung San Suu Kyi di rivedere la legge del 1982 sulla cittadinanza chiaramente discriminatoria, a oggi non sono riconosciuti come birmani.

 

Una nuova ondata di violenze ha, poi, avuto luogo lo scorso agosto ed è stata definita dagli Stati Uniti d’America come chiaro tentativo di pulizia etnica. In totale oltre 620 mila persone hanno attraversato il confine con il Bangladesh in cerca di salvezza.

Nel mese di Novembre, il leader de facto birmano Aung San Suu Kyi ed il Ministro degli affari esteri del Bangladesh Abul Hassan Mahmood Ali si sono incontrati a Naypyidaw ed hanno concluso un accordo sul rimpatrio dei Rohingya, il cui contenuto non è del tutto desecretato. Ciononostante, alcuni punti sono stati rivelati, in quello che è definito solo un primo passo per riportare la popolazione Rohingya entro il territorio birmano.

 

Nel memorandum siglato non ci sarebbero restrizioni sul numero dei migranti da rimpatriare, contrariamente alle dichiarazioni di alcuni leader militari. Il processo è stato semplificato al massimo e consiste in un modulo da compilare, contente le generalità dei migranti e la volontà scritta di tornare in Myanmar. E’ da segnalare che non sussiste alcun obbligo di rientrare e vi è la promessa di non sottoporre a procedimenti giudiziari quanti siano fuggiti, fatti salvi coloro che abbiano partecipato ad attività di carattere terroristico. La lista, raccolta in Bangladesh, verrà poi consegnata alle autorità birmane, cui spetterà l’ultima parola sul rimpatrio. In tal senso, non è facilmente comprensibile il numero di quanti realmente siano intenzionati a tornare nel Rakhine, nel timore di una nuova ondata di violenza.

Vi sono, infine, alcune preoccupazioni riguardo la permanenza degli sfollati nei campi di rifugio temporanei, la cui collocazione e la cui sicurezza sono oggetto di dibattito. La questione, comunque, sembra essere parzialmente risolta, vista la conclusione nel mese di dicembre di un Memorandum of Understanding tra il Myanmar e l’India sulla costruzione di prefabbricati nello Stato di Rakhine per sopperire all’assenza di abitazioni, molte delle quali distrutte e incendiate nel corso del conflitto. L’accordo si configura come l’ultimo passo della dichiarazione di disponibilità a carattere economico-finanziario mostrata dalla leadership indiana sin dal mese di settembre. E’ comunque interessante notare come nel testo dell’accordo non compaia il nome dei Rohingya, ma si faccia riferimento esclusivamente alla volontà di sostenere il governo birmano nel ritorno alla normalità.

A sconvolgere maggiormente sono stata le parole di Aung San Suu Kyi, la quale ha bollato come scandaloso l’aver portato all’attenzione delle Nazioni Unite la questione dei Rohingya. Secondo la leader è più giusto che essa venga risolta tramite negoziati bilaterali tra Stati, alla luce delle buone relazioni internazionali tra i vicini.

 

Le reazioni rispetto all’accordo concluso sono state variegate. In molti hanno sostenuto il memorandum, ritenendo che esso rappresenti un punto di partenza molto importante per la cessazione delle ostilità. Le parole rassicuranti della leader birmana, insieme con il rimpatrio del Cardinale Patrick D’Rozario rappresenterebbero un primo importantissimo passo in questa direzione. Dall’altro canto, molti analisti e l’ambasciata degli Stati Uniti d’America in Myanmar sostengono che l’accordo non sarà assolutamente efficace. Esso sarebbe semplicemente un modo per la leadership birmana di scaricarsi di un consistente fardello di pressioni  e per riabilitare il Paese nella comunità internazionale. Un vulnus, in tal senso, sarebbe rappresentato dall’assenza di scadenze temporali e dalla poca tracciabilità del numero e delle generalità degli individui rimpatriati. In altre parole, poco o nulla sarebbe cambiato rispetto ai memoranda conclusi negli anni Settanta e Novanta, quando il processo è rapidamente collassato. Secondo alcuni analisi, una maggiore garanzia sarebbe stata la promessa di ricostruire case e villaggi, ben prima del rientro dei Rohingya, come sugello della volontà di creare una società più armonica. Nello specifico, un accordo simile è quello concluso nel 1992-1993, nel quale le rispettive autorità competenti (militari, nel caso del Myanmar) non riconoscevano il contributo dell’UNCHR nelle operazioni di rimpatrio. Solamente l’anno successivo, sotto le pressioni della comunità internazionale, all’agenzia ONU è stato consentito di stabilire una presenza sul territorio, per verificare la corretta gestione della crisi  l’effettivo rientro di un considerevole numero di Rohingya.

Ad ogni modo è certo che la crisi si prolungherà nel tempo, benchè sia giunta a un momento di svolta importante. Data la complessità della vita politica interna del Myanmar, infatti, è escluso che l’accordo possa avere un qualche impatto decisivo sulla risoluzione dell’annosa vicenda.

Fonti e Approfondimenti:

http://edition.cnn.com/2017/11/27/asia/rohingya-myanmar-bangladesh-agreement/index.html

https://www.theguardian.com/world/2017/nov/23/myanmar-signs-pact-with-bangladesh-over-rohingya-repatriation

http://www.independent.co.uk/news/world/asia/rohingya-burma-bangladesh-myanmar-latest-news-refugees-repatriate-muslims-a8071111.html

https://thediplomat.com/2017/11/does-the-new-myanmar-bangladesh-rohingya-deal-really-matter/

http://www.dhakatribune.com/bangladesh/nation/2017/11/25/vague-mou-rohingya-repatriation-raises-many-questions/

http://www.thedailystar.net/rohingya-crisis/india-myanmar-sign-mou-to-build-houses-for-rohingya-refugees-1507864

https://www.amnesty.org/en/countries/asia-and-the-pacific/myanmar/report-myanmar/

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