Lo Spiegone

La storia delle tensioni in Tibet

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In vista del 59° anniversario della rivolta di Lhasa del 10 marzo 1959, e della decima ricorrenza della Grande insurrezione scoppiata nell’altopiano tibetano nel marzo 2008, il 26 febbraio il comitato di sorveglianza della Regione Autonoma del Tibet (TAR) si è riunito per stabilire l’adozione di misure preventive per il “mantenimento della stabilità” del territorio. Durante il meeting, il comitato ha fornito istruzioni circa l’incremento di misure di sicurezza per il monitoraggio e un maggiore controllo di città, prefetture e monasteri, al fine di garantire l’ordine pubblico in un momento di ricorrenze piuttosto significative sia per la storia del Tibet, che per la Repubblica Popolare Cinese (RPC), che nelle giornate di sabato 3 e lunedì 5 marzo ha visto riunite nella capitale “le due sessioni” annuali della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPPCC), organo formato da diversi partiti e organizzazioni cinesi e dell’Assemblea Nazionale del Popolo (ANP), unica camera legislativa del Paese.

L’attenzione cinese per il mantenimento della sicurezza interna, riassumibile nella cosiddetta politica del weiwen o “stability maintenance“, è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, specie a partire dai fatti di Tiananmen del 1989. Dagli anni Novanta infatti, la sicurezza e soprattutto la prevenzione dei dissesti locali è emersa come una delle top priority delle autorità cinesi, divenendo il perno centrale per l’allargamento progressivo dell’apparato di sicurezza interno alla nazione. Quali sono stati gli effetti di questa politica di sorveglianza nella regione del Tibet? E quali sono stati gli avvenimenti chiave che hanno portato al deterioramento delle relazioni tra il governo centrale e la minoranza etnica tibetana?

La storia più recente del Tibet comincia nel 1911, anno della caduta della dinastia Qing (1644-1911), quando la regione, da sempre Stato vassallo cinese, diventa Stato sovrano indipendente di stampo teocratico guidato dal Dalai Lama, massimo esponente religioso del Buddhismo tibetano. Con la vittoria comunista del 1949 e la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nel 1951 il Tibet, vittima dell’invasione da parte dell’Armata di Liberazione guidata da Mao Zedong, finisce nuovamente sotto il controllo cinese. Tra i delegati del governo cinese e di quello tibetano viene negoziato e poi firmato, il 23 maggio dello stesso anno, un accordo di diciassette punti, noto ai cinesi come “Trattato di liberazione pacifica del Tibet“, dove viene stabilito in primo luogo il riconoscimento della sovranità cinese sul territorio tibetano e il ritorno del suo popolo “nella grande famiglia della madrepatria, la Repubblica Popolare Cinese”. Il Dalai Lama viene apparentemente integrato all’interno dell’organo governativo cinese, dove gli viene affidato l’incarico di vicepresidente dell’Assemblea Nazionale, titolo però dal valore puramente onorifico. Il governo tibetano, anche se formalmente in carica, si trova infatti privato del potere esecutivo, assunto in ultima istanza da una giunta militare di etnia Han. La politica cinese di assimilazione forzata incontra una resistenza sempre maggiore nel territorio, fino a raggiungere il culmine massimo di tensione il 10 marzo 1959. Tragiche le settimane tra quella data e il 28 marzo, che vedono il dramma tibetano consumarsi per mano della dura e violenta repressione dell’amministrazione militare ai moti di rivolta. Secondo le stime del Governo tibetano in esilio (CTA – Amministrazione centrale tibetana), sono circa 87.000 i tibetani a perdere la vita negli scontri, numerosi quelli costretti alla fuga in India, Nepal, Sikkim e Bhutan. Tra questi il capo spirituale e leader politico della regione, il Dalai Lama che, una volta raggiunta l’India, forma nel Dharamshala il governo tibetano in esilio.

Le campagne di persecuzione religiosa e politica nei confronti dei cosiddetti ‘rivali del partito’ hanno prodotto un numero elevatissimo di vittime nei decenni successivi. Si pensi ad esempio che, durante la Rivoluzione Culturale del 1966, avviata da Mao con il pretesto di ripulire il partito dai «revisionisti controrivoluzionari», tra le numerose vittime di ogni etnia e professione religiosa furono circa 1,2 milioni i tibetani uccisi, oltre 100.000 quelli internati nei campi di lavoro e 6.254 i monasteri finiti in macerie. Per non parlare del numero di esuli, costretti a trovar rifugio in India, in Europa e nel resto del mondo. Nonostante le politiche repressive del governo cinese, il popolo tibetano ha continuato a dar voce al proprio dissenso nel corso del tempo, grazie anche a un’azione occidentale – spesso di dubbia moralità – a proposito della tematica. L’ultimo grave episodio ad aver catturato l’attenzione internazionale risale al 2008. In seguito a una serie di dimostrazioni pacifiche anticinesi scoppiate nella capitale Lhasa in occasione del 49° anniversario della rivolta tibetana – pochi mesi prima dell’apertura in agosto delle Olimpiadi in Cina – il tempestivo intervento delle truppe cinesi ha portato a una repressione dura e sanguinosa. Un centinaio le vittime, numerose le violenze e i saccheggi a case e siti religiosi; immediata l’espulsione di stranieri dalla Regione autonoma, e la successiva chiusura delle frontiere. Secondo quanto riportato al tempo dall’agenzia Nuova Cina, il governo regionale del Tibet avrebbe definito i disordini opera architettosamente orchestrata “dalla cricca del Dalai Lama”, accuse “totalmente infondate” secondo quanto riferito da un portavoce del leader spirituale in esilio dei tibetani. 

A livello di relazioni bilaterali tra Cina e Unione Europea, la questione del Tibet, e in particolar modo i fatti del 2008, hanno portato non poche tensioni specie con Stati quali Francia e Germania. Gli incontri ad alto livello con il Dalai Lama, ricevuto prima dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2007 e poi da Nicolas Sarkozy, il 6 dicembre dell’anno successivo a Danzica (Polonia) – durante una cerimonia in onore del premio Nobel per la Pace Lech Walesa, sindacalista polacco – avrebbero scatenato dure reazioni da parte cinese. La Cina infatti avrebbe addirittura annullato il vertice bilaterale con l’Unione Europea, previsto per il primo dicembre in Francia, sfondando inoltre in una retorica di ritorsioni commerciali, che hanno portato l’Unione Europea a compiere un passo indietro, considerato il contesto di crisi di quegli anni.

Per quanto riguarda il Tibet, gli avvenimenti del 2008 hanno portato alla nascita di un fenomeno oggi molto diffuso nella regione, quello cioè delle auto-immolazioni. A partire dal 2009 sono stati circa 152 i tibetani a darsi fuoco lungo le strade, in prossimità di luoghi di culto, spesso monaci ma anche uomini, donne e laici. Gesti questi compiuti allo scopo di richiamare l’attenzione nazionale e internazionale, di esternare al mondo intero le condizioni di povertà, limitazione e repressione che la popolazione è costretta a subire giorno dopo giorno. La foto sopra riportata, famosa ormai in tutto il mondo, ritrae Jamphel Yeshi, tibetano di 27 anni in esilio in India, mentre corre con il corpo incendiato dopo essersi cosparso di benzina ed essersi dato fuoco a New Delhi, pochi giorni prima della visita nel paese dell’ex presidente cinese Hu Jintao (foto del 26 marzo 2012). In un lettera trovata dopo la sua morte, avvenuta due giorni dopo in ospedale per le ustioni riportate sul 97 per cento del suo corpo, Yeshi scrive: «Noi (tibetani) chiediamo la libertà di religione e cultura. Chiediamo la libertà di usare la nostra lingua. Chiediamo gli stessi diritti che hanno le altre persone nel mondo».

Alla luce di quanto accaduto nel corso degli ultimi 60 anni, appaiono dunque comprensibili le ragioni che hanno spinto il governo cinese ad adottare misure preventive volte appunto a scoraggiare eventuali ondate separatiste tibetane. In quest’ottica, il Global Times, quotidiano cinese pro-governativo sotto il controllo dell’agenzia di stampa del partito, ha pubblicato l’11 febbraio un articolo per informare i cittadini di una circolare (‘Reporting Leads on Crimes and Violations by Underworld Forces’) rilasciata dall’Ufficio di pubblica sicurezza della Regione Autonoma del Tibet in data 7 febbraio, contenente 22 articoli di attività ritenute illegali dal partito e quindi passabili di denuncia da parte dei cittadini. La circolare sottolineerebbe il ruolo e il compito di ogni cittadino di informare le autorità delle attività di “bande criminali connesse alle forze separatiste del Dalai Lama”, e di “stare in guardia sulle ‘forze malvagie’ a lui collegate, che potrebbero far uso di templi locali e controllo religioso per ‘confondere e incitare’ la popolazione contro il partito e il governo”. L’articolo evidenzia inoltre come “il Dalai Lama, in esilio da diversi decenni, non abbia ancora abbandonato l’ambizione di separare il Tibet dal resto del territorio cinese”. In un’intervista al Global Times Dai, professore all’Università cinese della Pubblica Sicurezza ed esperto di materie religiose, avrebbe parlato del grande problema della “diffusione di gang separatiste in Tibet” riferendo che la “campagna contro questi gangsters servirebbe dunque a scoraggiare eventuali ondate secessioniste del Dalai Lama”. Matteo Mecacci, presidente dell’ICT (International Campaign for Tibet), gruppo di sostegno con base a Washington DC, ha commentato che “la circolare pubblicata in Tibet, che chiamerebbe i tibetani a denunciare chi è sospettato di avere legami con il leader spirituale tibetano, il Dalai Lama, non è altro che un promemoria della dittatura totalitaria ed estrema che il Partito Comunista Cinese sta continuando ad imporre al Tibet”.

Se si ascoltano le parole del Dalai Lama, il prospetto sembra però totalmente diverso. In occasione di una sessione organizzata dalla Camera di Commercio Indiana il 23 novembre 2017, il leader tibetano avrebbe ancora una volta affermato di non cercare l’indipendenza. “Vogliamo rimanere con la Cina. Quel che vogliamo è più sviluppo”. “Il passato è passato. Dobbiamo guardare al futuro”. Il Tibet infatti, stando alle parole della guida spirituale tibetana, avrebbe già da tempo, abbandonato le sue aspirazioni separatiste, ponendo come obiettivo principale quello di una maggiore autonomia della regione sotto la sovranità cinese, con il controllo dei propri affari interni ma non di quelli esterni. Questa posizione venne per la prima volta rivelata nel 1987, poi confermata in un discorso al Parlamento europeo nel 2001. L’amministrazione Obama avrebbe dichiarato il proprio sostegno per la “via di mezzo” del Dalai Lama nel 2014, opzione però del tutto fuori discussione da parte cinese.

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Il report ‘Relentless: Detention and Prosecution of Tibetans under China’s ‘Stability Maintenance’ Campaign’, pubblicato dallo Human Rights Watch, mostra come le proteste pacifiche e le resistenze sociali di bassa intensità, attività legali secondo la legge internazionale, abbiano di recente subito un netto calo in termini di tolleranza da parte delle autorità cinesi. Questo ha portato lo Stato a esercitare un maggiore controllo sulle vite dei suoi cittadini, crescenti atti di criminalità verso forme di protesta non-violente e risposte eccessive a pacifici dissesti locali. Tali misure – parte come già accennato della più ampia politica di sorveglianza dello weiwen – hanno portato ad un drastico aumento dei casi di auto-immolazione sul territorio a partire dal 2012. Al centro del gesto l’esigenza, per il Paese, di ottenere maggiori attenzioni da parte della comunità internazionale in nome di quella libertà di culto, lingua, religione, movimento ancora lontana per la popolazione del Tibet. Ciononostante non si arrende la popolazione. Come mostra la figura sopra riportata, dei 479 casi di Tibetani arrestati tra il 2013 e il 2015, la maggior parte appartiene a quel gruppo di ribelli che, consapevoli delle conseguenze, ha comunque scelto di dar voce alle proprie idee politiche e alla propria protesta pacifica, entrando così in aperta collisione con il divieto imposto dal partito cinese (la figura sotto mostra alcuni dei motivi che hanno scatenato queste ondate di dissenso).

 

 

 

Fonti e Approfondimenti:

http://tibetpolicy.net/comments-briefs/tar-unveils-stability-maintenance-guidelines-ahead-of-march-10-anniversary/

http://www.corriere.it/esteri/08_marzo_14/tibet_violenze_5e3481e4-f1be-11dc-869a-0003ba99c667.shtml

Chinese police circular urges public to report on loyalty to ‘evil forces’ of Dalai Lama

http://www.globaltimes.cn/content/1089266.shtml

https://www.hrw.org/report/2016/05/22/relentless/detention-and-prosecution-tibetans-under-chinas-stability-maintenance

https://www.hrw.org/news/2016/05/22/china-repression-expands-under-stability-maintenance-tibetan-areas

https://www.hrw.org/video-photos/interactive/2017/06/20/tibet-glossary-repression

https://www.ilcaffegeopolitico.org/32011/tibet-a-cinquantanni-dalla-costituzione-della-regione-autonoma

http://tibet.net/2018/03/statement-of-the-president-of-the-central-tibetan-administration-on-the-59th-anniversary-of-the-tibetan-national-uprising-day/

https://www.theguardian.com/commentisfree/2012/mar/29/dalai-lama-tibet-deaths-self-immolation

http://www.limesonline.com/quando-il-dalai-lama-porta-guai/1565

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