Is there life after Brexit? Il “modello Svizzera”

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Beware the Swiss trap” è l’avvertimento lanciato dai falchi nel governo di Theresa May. Il “modello Svizzera” è il terzo degli scenari considerati per un futuro post-Brexit, dopo l’opzione Norvegia e lo scenario del WTO. C’è chi considera questa prospettiva con favore perché, almeno in apparenza, tutelerebbe maggiormente la sovranità nazionale rispetto a un “modello Norvegia”. Molti, tuttavia, sostengono che questa autonomia sarebbe solo apparente.

Quali sarebbero i vantaggi e i costi del “modello Svizzera”?

La Svizzera fa parte dell’Area Europea di Libero Scambio insieme a Norvegia, Liechtenstein e Islanda, ma non dello Spazio Economico Europeo. Nel 1992, dopo aver firmato il trattato costitutivo del SEE, il Consiglio federale presentò domanda di adesione all’Unione Europea. I cittadini svizzeri, tuttavia, bocciarono l’accordo in un referendum (50,3 contro 49,7%) bloccando le procedure di ratifica.

A partire dal 1993, dunque, i rapporti tra Berna e Bruxelles sono stati definiti con due serie di accordi (gli Accordi Bilaterali I e II), la cui base legale risiede in un accordo di libero scambio del 1972: un complesso di circa 120 accordi di natura prevalentemente economica.

 

Mercato unico: più flessibilità, meno accesso

Diversamente dai Paesi del SEE, la Svizzera non gode di accesso completo al mercato unico. Il commercio dei beni è quasi totalmente liberalizzato – a eccezione di alcuni prodotti agricoli – mentre lo stesso non può dirsi del mercato dei servizi: esiste un accordo in materia di assicurazioni, ma non sui servizi finanziari e bancari. Per il Regno Unito è una questione di vitale importanza: i servizi compongono l’80 per cento dell’economia nazionale (12 per cento del prodotto interno) e il 38 per cento delle esportazioni agli altri Paesi dell’Unione.

Il surplus nel commercio dei servizi, pari a 14 miliardi di sterline (circa 16 miliardi di euro), consente di compensare, almeno in parte, l’enorme deficit nel mercato dei beni, che ammonta a 96 miliardi di sterline (110,6 miliardi di euro). L’Unione, del canto suo, ha mantenuto una posizione ambigua, limitandosi ad affermare che la fornitura di servizi dovrà avvenire “conformemente alle norme dello Stato ospitante”. La liberalizzazione di questo settore, dunque, sembrerebbe esclusa allo stato attuale.

Per quanto riguarda i contributi finanziari al bilancio dell’Unione, questi si ridurrebbero sostanzialmente: in quanto Paese terzo, il Regno Unito non dovrebbe più finanziare molte delle politiche comuni, tra cui la PAC.

Stabilire un confronto tra i contributi britannici e quelli svizzeri in base ai dati a disposizione, tuttavia, non fornisce un metro di paragone adeguato, per due ragioni: in primo luogo, i due Paesi non sono comparabili per popolazione o dimensioni dell’economia; inoltre, in seguito a un controverso referendum che ha limitato l’ingresso dei lavoratori dell’Unione in Svizzera (violando il principio di libera circolazione delle persone), Bruxelles ha sospeso la partecipazione del Paese ad alcuni programmi, tra cui Horizon 2020 ed Erasmus+.

Di conseguenza, il contributo netto della Svizzera è crollato da 59,5 euro a 12 euro pro capite (dati del 2014), contro i 115 euro della Norvegia e i 79 euro del Regno Unito. Se ci si basa sui dati pre-referendum, comunque, il contributo pro-capite della Svizzera è pari a circa tre quarti di quello britannico. Nel 2017 la Svizzera è stata reintegrata nel programma Horizon 2020 – ma non in Erasmus+, ma i dati più recenti sui contributi versati non sono stati resi noti.

 

Una sovranità apparente?

Il quadro legale dei rapporti tra Svizzera e Unione è molto più frammentato e flessibile di quello del SEE. L’aspetto più interessante per i Brexiteers è la mancanza di vincoli sull’acquis communautaire: gli accordi sono statici, nel senso che la Svizzera è tenuta ad applicare le disposizioni e le sentenze europee precedenti alla stipula dell’accordo, ma non ad adottare automaticamente le nuove disposizioni. Qualsiasi modifica deve avvenire con il consenso delle parti tramite emendamenti agli accordi in vigore. Nei fatti, tuttavia, la situazione è ben diversa: la Svizzera è praticamente obbligata ad applicare l’acquis, perlomeno nelle aree coperte dagli accordi. Qualora non lo facesse, non potrebbe esportare i propri prodotti nel mercato europeo o si esporrebbe a misure di ritorsione, come accaduto nel caso del referendum sull’immigrazione del 2014.

A fronte di questi vincoli formali e informali, la Svizzera non è rappresentata nelle istituzioni europee e gode di diritti di consultazione limitati. L’applicazione degli accordi e l’introduzione di nuove misure è discussa in 24 Comitati misti con poteri limitati, che si riuniscono una volta l’anno; manca un forum di consultazione permanente o un’autorità preposta alla risoluzione delle controversie.

È proprio questa la principale fonte di disaccordo con l’UE: la Svizzera rifiuta di sottoporsi a qualsiasi autorità giudiziaria straniera o sovranazionale, inclusa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Bruxelles, del canto suo, lamenta la mancanza di un organo di supervisione esterno, che impedisce di sanzionare la Svizzera qualora questa venga meno ai suoi impegni o non applichi l’acquis in maniera conforme alla normativa europea. Il Regno Unito vorrebbe sottrarsi all’autorità della Corte di Giustizia; considerata la posizione dell’Unione nei confronti della Svizzera, tuttavia, sembra improbabile che Bruxelles possa acconsentire.

 

Modello Svizzera: un accordo insoddisfacente

Quali sono i punti deboli del “modello Svizzera”? Essendo il prodotto di una negoziazione continua iniziata più di vent’anni fa, non offre una soluzione immediata; impegnarsi in questo percorso significherebbe estendere il periodo di transizione all’infinito oppure, al contrario, rassegnarsi ai vuoti normativi che inevitabilmente si creeranno a partire dal 2021. Si tratta, inoltre, di una soluzione che lascia scontente entrambe le parti: per l’Unione, il Regno Unito sarebbe libero di cherry-pick, scegliendo a proprio piacimento le aree da liberalizzare (come i servizi) e chiudendo allo stesso tempo le frontiere ai lavoratori europei; si ricordi che la salvaguardia dell’integrità del mercato unico è condizione irrinunciabile per qualsiasi accordo.

Per Londra, invece, il “modello Svizzera” risulta ancora troppo restrittivo: non solo perché non consente sufficiente accesso al mercato dei servizi e perché, nei fatti, continua a vincolare il Paese all’applicazione dell’acquis senza diritto di voto o consultazione, ma anche per la cosiddetta “trappola svizzera”. Di cosa si tratta? È la cosiddetta “guillotine clause”, in base alla quale, se anche una sola delle clausole viene violata o denunciata, tutti gli accordi decadono istantaneamente. È proprio questo il vincolo più stringente: l’intera architettura negoziale risulta estremamente precaria e il governo svizzero ha forti incentivi a rispettare gli accordi e ad applicare l’acquis, pena la perdita dell’accesso al mercato unico.

Il “modello Svizzera”, dunque, sembra scontentare tutti. Bruxelles difficilmente vorrebbe impegnarsi a intraprendere con Londra un processo negoziale come quello in atto con la Svizzera, definito “complesso e farraginoso”. L’Unione favorisce meccanismi più vincolanti, come quello del SEE, che garantisce maggiore armonizzazione legislativa e meccanismi di supervisione e risoluzione delle controversie.

Dal canto suo, il governo May si dimostra reticente ad accettare una guillotine clause e punta a ottenere un accordo più flessibile come quello canadese: nel caso del CETA, la violazione di una clausola dell’accordo provoca la decadenza del capitolo a esso inerente, ma non dell’intero trattato. C’è da dire, tuttavia, che il CETA liberalizza solo in parte il mercato dei servizi.

Resta da fare una considerazione politica. Per la Svizzera, la controversia sul referendum del 2014 ha messo a dura prova i meccanismi istituzionali interni: per risolvere la controversia con Bruxelles e rispettare gli accordi, il Consiglio federale interno è stato costretto a ribaltare il risultato della consultazione popolare, dando implicitamente priorità al diritto europeo su una procedura istituzionale interna consolidata. Ancora oggi, la questione è oggetto di acceso dibattito.

Nell’attuale stato di transizione e instabilità, il Regno Unito saprebbe sostenere uno stato di negoziazione continua, potenzialmente conflittuale con Bruxelles? Fino a che punto il governo sarebbe disposto a scendere a compromessi con i propri elettori, per rispettare gli accordi con l’Unione?

 

 

Fonti e approfondimenti

BBC, “Brexit: What are the options?”, 12/6/2017

Diane Bolet (London School of Economics), “Is Switzerland a model for the UK-EU relationship?”, 6/12/2017

David Buchan (Centre for European Reform), “Outsiders on the inside. Swiss and norwegian lessons for the UK”, settembre 2012

Consiglio Europeo, “Orientamenti”, 23 marzo 2018

Credit Suisse, “Survey on Swiss-European Relations: Increasing Contradictions in the Opinions of the Swiss Population”, 14/11/2017

Zsolt Darvas, “Single market access from outside the EU: three key prerequisites”, 19/7/2016

Direzione degli Affari Europei della Confederazione Svizzera, “La politica europea della Svizzera”, gennaio 2018

Documento del governo del Regno Unito sulle possibili relazioni con l’Unione dopo la Brexit,  “Alternatives to membership: possible models for the United Kingdom outside the European Union”, 4/3/2016

House of Commons library, “Statistics on UK-EU trade”, 19/12/2017

Institute for Government, “Brexit and financial services”, 10/4/2018

Parlamento Europeo, “Lo Spazio economico europeo (SEE), la Svizzera e il Nord”, gennaio 2018

Politico, “Brexiteers fear ‘Swiss trap’ trade deal”, 17/10/2017

Reuters, “Swiss pledge more funds for EU budget, progress on treaty”, 23/11/2017

Reuters, “Trade options for UK financial services after Brexit”, 7/3/2018

Shepherd & Wedderburn, “Brexit: The Swiss model”, agosto 2016

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