Site icon Lo Spiegone

L’Africa come l’Europa: i lavori per la Continental Free Trade Area

CIVIS TURDETANI, via Wikimedia Commons, Licenza CC-BY-SA 4.0

Durante la 18esima sessione ordinaria dell’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Africana, tenutasi nel 2012 ad Addis Ababa, in Etiopia, si parlò per la prima volta in via ufficiale della creazione dell’African Continental Free Trade Area. Quest’anno, alla fine di marzo, si è tenuto un summit straordinario a Kigali, in Ruanda, per discutere di nuovo del piano di attuazione del progetto. Il recente incontro ha portato alla stesura e alla firma di due documenti: l’Umbrella Agreement for the Establishment of AfCTFA (African Continental Free Trade Area) e la Kigali Declaration and the Protocol on Free Movement of Persons, Right to Residence and Right to Establishment.

Quando i 55 stati africani si sono trovati davanti i due testi per la ratifica, alcune titubanze e dubbi sono venuti a galla. In particolare ha fatto scalpore la notizia della mancata firma di Nigeria e Sudafrica, due delle più sviluppate e importanti economie del continente. Prima di capire le motivazioni che stanno alla base delle decisioni dei due grandi attori regionali, è necessario comprendere le caratteristiche del progetto di free trade area, le sue sfide e i suoi limiti.

AfCFTA

Proposta per la prima volta nel 2012, la Continental Free Trade Area è parte del progetto dell’Unione Africa a sostegno dello sviluppo e dell’integrazione regionale, volto all’aumento del commercio interno al continente. In effetti, le percentuali confermano il livello estremamente basso di commercio intra-continentale, testimoniato dal fatto che le esportazioni interne non abbiano superato il 18% nel 2016. La Commissione dele Nazioni Unite per l’Africa sostiene che il progetto di mercato senza barriere sarebbe in grado di sollevare tale dato di più del 52% tra il 2010 e il 2022, in particolare, il commercio dei prodotti industriali all’interno del continente subirebbe un’impennata del 53% nello stesso periodo. Per questo, durante il summit del 2012, è stato redatto un ulteriore documento: l’Action Plan on Boosting African Trade.

La free trade area concorre alla realizzazione dei sopracitati obiettivi insieme all’Agenda 2063 e rappresenta uno degli stage di sviluppo ed integrazione economica stabiliti dal Trattato di Abuja, in vigore dal 1994, che ha portato alla redazione dei vari passaggi che dovranno condurre alla creazione dell’African Economic Community. Il progetto finale, che dovrebbe risultare dalla messa in atto dei vari livelli proposti ad Abuja, oltre alla creazione di un mercato comune africano, prevede la realizzazione di un’unione doganale e monetaria e di un Parlamento Pan-Africano. L’Africa sta quindi cercando di seguire l’esempio dell’Unione Europea.

L’AfCFTA è stato promosso e costruito sulla base di negoziazioni tripartite tra le maggiori comunità economiche regionali, SADC (Southern Africa Development Community), COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa) ed EAC (East African Community), ma la partecipazione è aperta a tutti, anzi per la buona riuscita del piano è bene che tutti i 55 stati ne siano parte, anche se 22 firme sono sufficienti per decretarne l’entrata in vigore. In questo modo, il PIL totale sarebbe intorno a $3,4 trilioni e ne farebbero parte più di un miliardo di persone, facendo sì che esso costituisca la più grande free trade area dopo la creazione della World Trade Organization.

La fase 1 delle negoziazioni, che ha portato alla firma dell’Umbrella Agreement lo scorso marzo, era cominciata nel 2015. Gli stati in questo frangente hanno affrontato numerosi temi, tra cui il commercio di beni e servizi e il meccanismo di risoluzione delle controversie, ma allo stesso tempi molti punti sono rimasti incompleti, come le modalità di commercio dei beni e le regole riguardanti la provenienza dei prodotti o gli specifici settori interessati.

In ogni caso, si è deciso di non posticipare la fase 2 e di iniziare le negoziazioni dei punti che la compongono tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, con l’idea che le zone incerte verranno poi coperte attraverso futuri confronti. Protagonisti della seconda fase saranno le regole sulla concorrenza e sulla competizione, le norme riguardo il settore degli investimenti e la legislazione sulla proprietà intellettuale. Si vocifera che anche l’e-commerce potrebbe essere uno degli argomenti di cui si parlerà, ma si evitato di inserirlo nelle documentazioni ufficiali in quanto consapevoli del fatto che alcuni stati non hanno l’expertise adatto ad affrontare questo genere di tematiche.

La firma dell’Umbrella Agreement on AfCFTA

Come anticipato, non tutti gli stati hanno accolto con gioia l’arrivo del momento della firma dell’Umbrella Agreement: l’accordo è stato ratificato da 44 dei 55 stati presenti, tra i non firmatari anche Sudafrica e Nigeria, che hanno contribuito a lasciare fuori dal progetto, almeno per ora, il 37% del PIL del continente.

Le dichiarazioni che hanno seguito l’incontro di Kigali hanno fatto emergere tre gruppi di motivi per i quali alcuni paesi hanno optato per l’astensione alla ratifica: in primo luogo, alcuni stati avevano bisogno di più tempo per le negoziazioni interne, non avendo ancora raggiunto accordi definitivi tra le formazioni socio-politiche nazionali; un’altra causa sono stati i lunghi e particolareggiati processi parlamentari o costituzionali necessari alla ratifica; in più, alcuni dei rappresentati presenti a Kigali non avevano il mandato per poter firmare. 

In realtà i motivi non sono di certo soltanto questi. Molti dei paesi che avrebbero potuto firmare sono LDCs (Least Developed Country) e percepiscono buona parte delle loro entrate dalle tariffe sul commercio di beni e servizi, l’instaurazione definitiva di un mercato senza barriere li spaventa e rischia di peggiorare la loro situazione economica se l’argomento non verrà discusso con la giusta cautela. Una delle questioni rimaste irrisolte durante la prima fase delle negoziazioni è, infatti, la gestione delle misure speciali e del supporto che i LDCs riceverebbero all’interno della CFAT.

La consapevolezza della debolezza del sistema infrastrutturale dei trasporti è stato senza dubbio un altro dei punti scottanti che ha portato alcuni stati a posticipare il momento in cui firmeranno l’Agreement, insieme alla paura che, una volta firmato, esso li vincoli anche su questioni che non sono state ancora decise definitivamente o addirittura discusse.

Veniamo ora ai due casi scottanti, la Nigeria e il Sudafrica. 
Il Sudafrica deve rispettare le procedure previste per la ratifica dei trattati e, allo stesso tempo, come dichiarato dal Ministro dei Commerci, molte figure politiche sono titubanti, visto che numerose questioni sono ancora scoperte; è soprattutto la mancanza di accordi sulle regole di provenienza dei prodotti a spaventare il Sudafrica. Ciononostante, il presidente Ramaphosa ha messo la sua firma sulla Kigali Declaration, ribadendo la sua volontà di sostenere il progetto di free trade area. Gli atri stati di SACU (Southern Africa Custom Union) hanno seguito la rotta presa dal Sudafrica, tranne lo Swaziland, che ha invece firmato entrambi i documenti.

Il caso della Nigeria è invece più problematico. Il Paese è stato fondamentale per il raggiungimento del consenso ai negoziati, ma all’ultimo secondo ha deciso di tirarsi fuori. Il problema maggiore sono gli interessi dei gruppi che sostengono il presidente Buhari, che potrebbe ricandidarsi per le elezioni del prossimo anno e l’ultima cosa di cui ha bisogno in un paese con svariate problematiche è perdere il supporto dei sindacati, delle associazioni di manifatturieri e di chiunque altro sostenga che l’area di libero mercato metterebbe in pericolo lo sviluppo dell’industria nazionale, con il rischio di vanificare i progressi di differenziazione economica che sono stati fatti negli ultimi anni per allontanare la Nigeria dall’epiteto di rentier state.  Per difendere l’opinione degli stakeholders nei suoi confronti, Buhari ha affermato che la Nigeria non è una discarica per prodotti finiti. La decisione nigeriana rispecchia comunque la sua storica sfiducia nei confronti degli accordi di libero commercio, testimoniata dalla mancata firme del Economic Partnership Agreement stipulato tra ECOWAS e UE.

In conclusione, la mancata ratifica da parte di alcuni stati non mette in pericolo l’intero progetto, ma di sicuro lo indebolisce, almeno momentaneamente. La migliore soluzione per gestire il parziale impasse, sarebbe affrontare le discussioni sui punti non ancora chiari e portare a termine le negoziazioni a riguardo, ma sembra che la volontà di completare il processo entro il 2020 risulti un fattore di maggiore importanza.

Fonti e Approfondimenti

Exit mobile version