Land Grabbing: la minaccia alle comunità locali in Africa, Asia e America Latina

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

– Aggiornato il 04/04/2023

 

Negli ultimi anni, il fenomeno del land grabbing si è intensificato in Africa, Asia e America Latina, minacciando aree gestite collettivamente dalle comunità locali secondo norme consuetudinarie non legalmente riconosciute dagli stati. Questa situazione mette in pericolo le tutele e le protezioni di cui godono queste comunità, mettendo costantemente a rischio le loro terre, che rischiano di essere espropriate e vendute. Le comunità che vivono su queste terre sono spesso considerate occupanti abusivi, nonostante vi risiedano da decenni e la rendano produttiva. Per prevenire il land grabbing, è essenziale riconoscere legalmente le norme consuetudinarie e le proprietà collettive, in modo da garantire protezioni giuridiche alle comunità locali e impedire la cessione di terre senza il loro consenso.

 

Land Grabbing: cos’è e come minaccia le popolazioni locali

Il fenomeno del “land grabbing” è la presa di possesso di grandi quantità di terra da parte di individui, aziende o governi stranieri. Questo processo minaccia la sicurezza alimentare, la conservazione dell’ambiente e soprattutto i diritti delle popolazioni locali.

Sebbene non sia un fenomeno nuovo, dall’inizio della crisi globale dei prezzi alimentari del 2007-2008, l’accaparramento di terre è aumentato rapidamente. L’agribusiness ne trae enormi profitti, e i paesi privi di risorse naturali (come le Monarchie del Golfo) vedono nel land grabbing un’opportunità per garantire la propria sicurezza alimentare ed energetica.

Tuttavia, il land grabbing mette a rischio le comunità locali, soprattutto in paesi in via di sviluppo. La piattaforma Land Matrix ha quantificato che, dal 2000 ad oggi, sono stati trasferiti o pianificati 70 milioni di ettari di terreno, un’area più grande della Francia. Le comunità locali che non dispongono di titoli di proprietà sono particolarmente vulnerabili all’appropriazione delle risorse da parte di aziende o governi.

È essenziale prevenire questo fenomeno riconoscendo legalmente i diritti delle popolazioni locali sulle terre in loro possesso e limitando gli investimenti esteri che minacciano la loro sicurezza alimentare e le loro risorse naturali. Il land grabbing rappresenta una minaccia per l’equità sociale e ambientale e deve essere affrontato con urgenza.

 

Le comunità locali e l’uso comune della terra

Le comunità locali rappresentano un insieme di formazioni sociali che dipendono direttamente dalle terre in cui vivono, a rappresentarle sono soprattutto le popolazioni indigene. Queste comunità sono formate da oltre 5.000 diversi gruppi sociali tradizionali che si identificano come tali e che ottengono di solito un riconoscimento ufficiale del loro status. Ciò che li accomuna è la rivendicazione di un forte legame tra la comunità e il territorio, ritenuto importante per la loro cultura, la loro identità e la loro sopravvivenza.

La gestione delle terre combina i sistemi legali di diritto con una vasta gamma di pratiche comuni nelle zone rurali. Nelle aree in cui l’attività principale è la piccola agricoltura, è raro trovare titoli individuali di proprietà privata della terra, che è invece gestita collettivamente. Le terre comuni sono solitamente gestite come proprietà condivisa all’interno della comunità, con un sistema interno di allocazione a singoli individui di terreni delimitati. La giurisdizione su tutta la terra appartiene quindi alla comunità nella sua interezza, che poi decide come amministrare le sue risorse.

Tuttavia, le terre comuni sono le più esposte ai fenomeni di land grabbing proprio a causa delle ambiguità legislative sui regimi di proprietà comune della terra. Le norme consuetudinarie e tradizionali sono considerate vincolanti solo dai membri della comunità, e se non vi è alcun riconoscimento statale, i terreni non possono essere accatastati e difesi dal land grabbing.

Una soluzione sperimentata da alcuni paesi per tutelare i gruppi locali è la cosiddetta “community-based land tenure”.

 

La gestione della terra da parte delle comunità locali

Con “community-based land tenure” ci si riferisce a tutte quelle situazioni in cui le risorse naturali sono gestite al livello della comunità, alla quale lo Stato attribuisce un valido titolo di proprietà o una concessione. La comunità stessa amministra la sua terra secondo le sue regole, riconosciuta dagli attori esterni come appartenente alla comunità nella sua collettività.

La tutela delle terre comuni può essere garantita in due modi. Il primo è attraverso un titolo di proprietà valido, che comprende tutti gli aspetti giuridici della proprietà privata. Il secondo è tramite la concessione di diritti di uso da parte dello Stato, che però non garantisce il pieno controllo della terra ai soggetti della comunità. Quest’ultima posizione è particolarmente diffusa in Africa, soprattutto in quei paesi ex-socialisti in cui tutta la terra appartiene per Costituzione allo Stato.

Secondo un’indagine della Rights and Resources Initiative, il 65% delle terre nel mondo è posseduto da comunità che ne amministrano la proprietà attraverso sistemi consuetudinari, questo significa che 1,5 miliardi di persone nel mondo gestiscono i loro diritti di proprietà fondiaria secondo queste forme. Solo il 18% di queste comunità gode di una qualche forma di protezione legale, mentre l’enorme estensione di terra rimanente è contesa tra le rivendicazioni delle comunità che le possiedono di fatto e le rivendicazioni su base legale di governi o attori privati in possesso di una concessione.

 

Il dibattito sulle terre comuni e la loro proprietà

Negli ultimi dieci anni, il riconoscimento dei diritti delle comunità locali sulle terre comuni ha attirato molta attenzione a livello internazionale. Recentemente, la Banca Mondiale ha affermato l’importanza della certezza dei diritti fondiari per il raggiungimento di buoni livelli di sviluppo, ma i passi più significativi sono stati compiuti dalle Nazioni Unite. La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (UNDRIP) sottolinea l’importanza del diritto di accesso alla terra per l’esistenza delle popolazioni indigene e stabilisce che la loro ricollocazione non può avvenire senza il libero consenso delle popolazioni coinvolte. Questo principio si estende sempre più alle comunità locali, diventando la base della lotta delle popolazioni senza diritti di proprietà sulla terra per evitare l’espulsione in caso di esproprio.

Tuttavia, non tutti concordano con questa posizione, e ci sono favorevoli e contrari alla proprietà comune della terra. Basandosi sugli stessi punti, ovvero la validità economica del modello, il rapporto con le dinamiche di sviluppo e la capacità di conservare le risorse naturali, diversi attori giungono a conclusioni divergenti.

Tra i detrattori, la teoria della “tragedia dei comuni” è molto popolare. Secondo questa tesi i beni comuni sono destinati alla distruzione a causa della competizione tra gli individui che li condividono, che porta inevitabilmente a un loro sfruttamento eccessivo. Inoltre, un territorio frammentato tra piccoli produttori di sussistenza fatica a vedere crescere la propria resa, soprattutto a causa dell’incapacità dei suoi possessori di introdurre con efficienza migliori tecnologie. Infine, i diritti collettivi sulla terra, a causa della loro negoziabilità legata alla consuetudine, sono considerati lacunosi e inadatti a rendere sicura la proprietà e quindi attirare gli investimenti.

Il pessimismo di questa posizione si traduce nel supporto a politiche di privatizzazione e razionalizzazione delle terre comuni. Alcuni governi di paesi in via di sviluppo si sono basati su questo assunto per appropriarsi di territori prima gestiti in maniera comune, approfittando della mancanza di un titolo di proprietà e stabilendo legalmente l’incapacità delle comunità di gestire correttamente quelle terre, ad esempio accatastandole come “disabitate”, “improduttive” o “desolate”.

Trovare nuove pratiche o migliorare quelle oggi in uso è cruciale perché sviluppo e conservazione possano convivere e, soprattutto, per evitare che i gruppi e gli individui più potenti possano beneficiare di questo scollamento dei diritti per procedere a un accaparramento personale delle risorse comuni.

La gestione sostenibile delle risorse comuni da parte delle comunità è stata ampiamente studiata, in particolare da Elinor Ostrom, che ha dimostrato la capacità delle comunità di rendere produttive e conservare le risorse condivise. I titoli di proprietà collettivi, inoltre, sono considerati efficaci per garantire la proprietà e lo sviluppo economico delle comunità. La conservazione delle terre comuni è anche importante per preservare lo stile di vita delle comunità e per far fronte ai cambiamenti climatici, alla povertà estrema e all’insicurezza alimentare, nonché per proteggere la biodiversità e la diversità culturale.

Tuttavia, il modello dell’agricoltura di piccola scala non è sostenibile come modello di sviluppo economico, e molti governi dei paesi in via di sviluppo preferiscono progetti agricoli di vasta scala per l’accumulo di valuta estera, l’aumento dell’occupazione e la sicurezza alimentare. Questa ambizione di sviluppo può causare conflitti con le comunità che vogliono preservare il loro stile di vita tradizionale e le risorse comuni. Trovare un equilibrio tra sviluppo e conservazione è quindi una sfida, e le politiche migliori per raggiungere questo obiettivo non sono ancora state unanimemente decise.

 

 

Fonti e Approfondimenti

Almeida F. (2017) Legislative Pathways for Securing Community-Based Property Rights, Washington, DC: Rights and Resources Initiative

Oxfam, International Land Coalition & Rights and Resources Initiative (2016)

Rights and Resources Initiative (2015) Who Owns the World’s Land? A global baseline of formally recognized indigenous and community land rights. Washington, DC: Rights and Resources Initiative

 

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