I diritti dell’infanzia e l’Amministrazione Trump

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@Sarahmirk - Wikimedia Commons - CC BY-SA 4.0

Secondo il Dipartimento di Sicurezza Interna degli Stati Uniti circa 2000 bambini, nell’arco temporale che copre il periodo 19 aprile e 31 maggio 2018, sono stati separati dalle proprie famiglie alla frontiera statunitense. Secondo i gruppi di attivisti i numeri sono ancora più alti.

Le ragioni di questa separazione sono da collegarsi alle leggi sull’immigrazione illegale promulgate dall’amministrazione Trump per le persone provenienti dal Messico. Si applica la cosiddetta politica della “tolleranza zero”. Secondo questa politica gli adulti sono perseguibili penalmente e messi in carcere: i bambini, rimasti soli, entro 72 ore vengono affidati all’Ufficio per il ricollocamento dei rifugiati (ORS), acquistando contestualmente lo status di “minori stranieri non accompagnati”, categoria che in realtà dovrebbe riguardare i bambini che arrivano al confine non accompagnati, non coloro che, in quello stesso confine, vengono strappati dalle braccia dei genitori. Questo processo disumano è stato condannato da enti, organizzazioni, tra cui le Nazioni Unite, e singoli individui, provenienti da background differenti, ma tutti coscienti che un comportamento del genere rappresenti, senza alcun dubbio, una violazione dei diritti dell’uomo e, ancora più grave, la violazione dei diritti dell’infanzia.

Per comprendere la molteplicità di queste condanne possiamo citare alcuni nomi, tra cui, la first lady americana, Melania Trump, la ex first lady Laura Bush e, in particolare, spicca la condanna di una personalità carismatica e autorevole quale Papa Francesco, che ha definito immorale tale politica e, in un’ottica più ampia, ha condannato, in generale, le politiche dei populisti, accusandoli di creare psicosi. Degno di nota è anche il comportamento dell’icona della musica, Bruce Springsteen, che ha interrotto il concerto  di Broadway del 19 giugno per condannare il trattamento disumano nei confronti di migliaia di bambini.
Le denunce sembrano aver smosso, dopo aver causato non pochi dolori e aver mobilitato e commosso i più, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che nel pomeriggio di mercoledì 20 giugno ha firmato un ordine esecutivo per riuscire a non separare le famiglie,  a meno che ciò comporti una minaccia per il benessere del bambino.

Un’altra mossa “terrificante” e degna di essere menzionata riguarda l’annuncio di ritirarsi dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, avvenuto durante la giornata di martedì 19 giugno. Le Nazioni Unite sono state definite dagli USA come “un’organizzazione ipocrita e fine a sé stessa che si prende gioco dei diritti umani”. Ad essa sono preceduti, nei mesi scorsi, altri provvedimenti non meno pericolosi, quali la decisione di recedere dagli accordi di Parigi, dall’accordo sul nucleare, e, in particolare, dalla Dichiarazione di New York, volta a raggiungere un accordo internazionale per migranti e rifugiati. Inoltre, altro punto dolente, anche se non si può incolpare unicamente la presidenza Trump in questo caso, riguarda la mancata ratifica della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia.

Convenzione sui Diritti dell’Infanzia

La Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, senza alcun voto contrario, è il risultato e il punto di arrivo di un processo lungo che vede le sue origini nella Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, nota anche come Dichiarazione di Ginevra, redatta nel 1924 dalla Società delle Nazioni a seguito dei gravissimi danni che la Prima Guerra Mondiale aveva causato a molti bambini. Con l’istituzione delle Nazioni Unite, la Dichiarazione era stata nuovamente approvata dall’Assemblea Generale, all’unanimità e senza astensioni, il 20 novembre 1959. Il limite di questo documento, che, al contrario, rappresenta la grande forza di quello del 1989, risiede nella mancata obbligatorietà del primo, dovuto alla natura della dichiarazione in quanto tale, e alla natura giuridica vincolante del secondo. Quest’ultimo infatti, in quanto convenzione, vincola gli stati che lo hanno ratificato a rispettarlo al fine di non violare il diritto internazionale. Questo documento prevede un meccanismo di controllo sull’azione degli Stati, i quali annualmente devono presentare ad un Comitato ad hoc un rapporto sull’attuazione dei diritti dei bambini sul proprio territorio.

La convenzione, composta da 54 articoli, conta ad oggi 196 Stati che la hanno ratificata (per ultima la Somalia nel 2015) e rappresenta il trattato di diritti umani con il maggior numero di ratifiche. Si può infatti affermare come tutti gli stati del mondo siano vincolati da essa, nonostante riserve ed interpretazioni, ad eccezione degli Stati Uniti. Questi ultimi hanno preso parte attivamente alla stesura del documento di bozza, firmandolo nel 1995, ma non ratificandolo mai, nonostante le forti opposizioni e campagne portate avanti, in primis, dal gruppo che ha preso il nome di Campagna per la ratifica della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, composto da attivisti dei diritti umani, giuristi, studenti e molti altri. Ovviamente la colpa della mancata ratifica non può essere addossata esclusivamente alla Presidenza Trump, dato che prima di questa altre avrebbero potuto procedere alla ratifica. Passandole brevemente in rassegna: la Presidenza Clinton, nonostante una posizione favorevole alla Convenzione, non l’ha mai presentata al Senato e, dopo di lui, anche la Presidenza Bush può essere incolpata di inazione. Infine Obama ha definito la mancata ratifica come “imbarazzante”, promettendo una sua azione, che in realtà non è stata realizzata. In questo panorama, la mancata ratifica, ad ora, da parte dell’Amministrazione Trump non sorprende affatto, e tanto meno ci si aspetta una futura presa di posizione in quel senso, basti pensare che la decisione di istituire tale Convenzione era stata presa dalla Commissione per i Diritti Umani, che dal 2006 si è trasformata nel Consiglio ONU dei Diritti Umani, quello stesso consiglio che pochi giorni fa gli Stati Uniti hanno annunciato di voler abbandonare.

È interessante soffermarsi sui contenuti di questa convenzione, che seppur non ratificata dagli USA, può essere considerata un contenitore di principi e di diritti la cui violazione, seppur non giuridicamente condannabile, rappresenterebbe per gli Stati Uniti e agli occhi della comunità internazionale, una grave minaccia per i diritti umani e, quindi, per il diritto internazionale in generale. In riferimento all’amministrazione americana e alla situazione al confine tra Stati Uniti e Messico bisogna necessariamente citare due articoli, senza però mettere in secondo piano tanti altri orrori che vengono perpetrati causando altrettante violazioni del diritto internazionale.

L’articolo 9.1 recita “Gli Stati parte (della Convenzione) vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo.” Nel leggere queste parole sorgono spontanee diverse domande e considerazioni. Accanto all’articolo appena citato, è doveroso fare un ulteriore passo avanti, per alimentare ulteriori riflessioni, e riportare l’articolo 10.1 della stessa Convenzione: “In conformità con l’obbligo che incombe agli Stati parti in virtù del paragrafo 1 dell’art. 9, ogni domanda presentata da un fanciullo o dai suoi genitori in vista di entrare in uno Stato parte o di lasciarlo ai fini di un ricongiungimento familiare sarà considerata con uno spirito positivo, con umanità e diligenza“. 

E’ necessario ora fare un salto indietro. Se la Convenzione da una parte ha l’incredibile forza di essere vincolante, dall’altra, la Dichiarazione, a causa del suo mancato vincolo, rappresenta un punto di forza forse maggiore in questo caso, perché seppur gli Stati Uniti non abbiano mai mosso passi per una ratifica della prima, l’approvazione della seconda da parte dell’Assemblea Generale nel 1959 sancisce un vincolo, se non giuridico, quanto meno morale da cui gli stessi States non dovrebbero essere esenti.

Non bisogna mai dimenticarsi che il principio VI della Dichiarazione recita “il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre.

Fonti e Approfondimenti:

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