“Roe versus Wade”: la sentenza che ha legalizzato l’aborto

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

La sentenza “Roe vs Wade” è un’importantissima sentenza del 1973, annoverata tra le più controverse che la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia mai pronunciato. Le due parti in causa – Roe e Wade – sono diventate, nella cultura americana (ma non solo), le rappresentanti di due diverse correnti di pensiero in relazione alla questione dell’aborto. Se si parteggia per Roe, si segue una corrente Pro-Choice; se, invece, si dà retta alla visione di Wade, si fa parte del gruppo dei Pro-Life.

Con 7 voti a favore e 2 contrari, il 22 gennaio 1973 la Corte Suprema pronunciò una sentenza che rappresenta ancora oggi un precedente per il diritto all’aborto in primis nel panorama americano, ma anche a livello mondiale: con questa sentenza, infatti, venne legalizzato l’aborto negli Stati Uniti, fino a quel momento disciplinato autonomamente da ogni singolo Stato. Secondo le legislazioni di alcuni Stati la possibilità di aborto era prevista solo nei casi in cui fosse in pericolo la vita della donna, a seguito di uno stupro, o per malformazioni fetali; in altri, invece, era vietato in ogni caso. Solamente quattro Stati prevedevano la possibilità che la donna ne facesse liberamente richiesta.

Secondo quanto stabilito dalla Corte, nel 1973 le donne si sono viste riconosciute il diritto di decidere se proseguire o terminare una gravidanza, sulla base dell’interpretazione del XIV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che recita:

 “…Nessuno Stato porrà in essere o darà esecuzione a leggi che disconoscano i privilegi o le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti in quanto tali; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà o delle sue proprietà, senza giusto processo (due process of law), né rifiuterà ad alcuno, nell’ambito della sua sovranità, l’eguale protezione davanti alla legge (equal protection of the laws)…” 

Gli eventi

E’ necessario, però, fare un passo indietro e retrodatare l’origine della causa al 1970: quando Norma McCorvey, conosciuta come Jane Roe (pseudonimo usato per la protezione della privacy), rimasta incinta per la terza volta, decise di avviare – con il supporto dell’avvocatessa Sarah Weddington – un processo davanti alla Corte Distrettuale contro le leggi anti-aborto dello Stato del Texas, dove vigeva il divieto di abortire, eccetto nei casi in cui la vita della donna era messa a rischio. La richiesta, mossa da Weddington, per la dichiarazione di incostituzionalità della legge texana venne accolta dalla Corte sulla base dell’interpretazione dell’Emendamento IX della Costituzione, che fa menzione dei diritti individuali (tra cui il diritto alla privacy), e della possibilità di questi ultimi di essere integrati da altri diritti non esplicitamente espressi dalla Costituzione. Il diritto di scegliere sul futuro della proprio gravidanza veniva annoverato tra questi.

Wade, l’avvocato che rappresentava lo Stato del Texas – non d’accordo con la decisione della Corte Federale – decise di appellarsi alla Corte Suprema, la quale, nella data citata, emanò la sentenza che influì non solo sul caso specifico, ma sulla sorte di altri 46 Stati.  A differenza della precedente sentenza, la Corte Suprema prendeva come punto di partenza per l’analisi e la risoluzione del caso non più l’emendamento IX, ma l’emendamento XIV. Inoltre, la decisione della Corte prevedeva alcune limitazioni all’assoluta libertà della donna di scegliere, in particolar modo in riferimento alla durata della gestazione: infatti, l’aborto è permesso fino al momento in cui l’unica possibilità per il feto di sopravvivere sia dentro il grembo della madre (limite temporale che non è più  necessario rispettare solo qualora fosse in pericolo la vita della donna).

 

Le decisioni successive

Come già detto, l’aborto rappresenta una delle questioni più spinose mai apparse davanti alla Corte Suprema, che nel 1992 si concentrò nuovamente sulla questione dell’aborto con il caso “Planned Parenthood v. Casey“. In questa sentenza, con una maggioranza di 5 giudici, la Corte Suprema si espresse nuovamente a favore di “Roe”, introducendo il principio del “peso ingiustificato” (undue burden), con cui si intendeva l’impossibilità da parte della legislazione dello Stato di introdurre ostacoli volti a rendere più difficile alla donna la scelta, e la messa in atto, dell’aborto. E’ interessante notare che tra i giudici che votarono a favore del caso si legge anche il nome  di Anthony Kennedy, il quale solo pochi mesi fa ha presentato le sue dimissioni, rappresentando un momento cruciale di estrema crisi per la composizione della Corte e, di conseguenza, per la futura direzione che gli Stati Uniti prenderanno in ambito di diritto.

Un ulteriore caso interessante per ribadire i principi stabiliti fino ad ora dalla Corte Suprema, risalente al 27 giugno 2016, riguarda la condanna di una legge del Texas (approvata dal governo conservatore nel 2013) che aveva ridotto il numero di cliniche in cui veniva consentito l’aborto, rendendo così più difficile alle donne (non facoltose) il ricorrere a tale pratica in sicurezza e nel rispetto delle norme di salute. I giudici della Corte, con una maggioranza di 5 e una minoranza di 3 (per un totale di 8 giudici invece di 9, a causa alla morte del giudice Scalia non ancora sostituito), sancì che la legge texana violava il principio del “undue burden“, come già stabilito nella sentenza del 1992. Tale decisione – che si è dimostrata molto difficile da prendere a causa della complicata situazione interna alla Corte – ha rappresentato una scelta coerente e continuativa con la sentenza del 1973.

 

La situazione critica attuale

Nonostante il proliferare di discussioni di carattere etico e i vari tentativi portati avanti velatamente dagli Stati più conservatori, a partire dal 1973 i singoli Stati – da un punto di vista normativo – non hanno più potuto mettere in discussione tale principio di libera scelta. Ma l’apparente stabilità del riconoscimento di questo diritto si è fortemente incrinata negli ultimi mesi. Se l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti sembrava aver già messo a rischio questa certezza, le dimissioni di Anthony Kennedy lo scorso 26 giugno, e la recente nomina di Brett Kavanaugh  come suo successore e nuovo giudice della Corte Suprema, mettono sempre più in pericolo questo principio. In realtà, la direzione presa della Corte non sorprende nessuno; bisogna, infatti, tener presente che Trump ancor prima di essere eletto affermava: “Se sarò eletto presidente eleggerò giudici della Corte suprema con posizioni anti-aborto”. E’ quindi “solo” la spaventosa concretizzazione di una sua promessa in campagna elettorale.

In ogni caso, se negli Stati Uniti la possibilità di una donna di optare per l’aborto era già più complicata di quanto possa apparire dalle sentenze della Corte, poiché dipende da diversi fattori (quali la realtà in cui la donna vive, le sue risorse finanziarie e la sua capacità fisica), negli ultimi mesi queste difficoltà sono state ulteriormente rafforzate e sicuramente la Corte presto giocherà di nuovo un ruolo fondamentale.

 

 

Fonti e Approfondimenti

 

 

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