Lo Spiegone

La politica estera di Donald Trump

La politica estera degli Stati Uniti d’America ha avuto una forte discontinuità con la presidenza di Donald Trump rispetto alle precedenti amministrazioni. Il 45° Presidente degli USA, infatti, ha inaugurato nel 2016 una politica estera apparentemente insensata, avventata e sconsiderata, attirando lo scetticismo degli alleati storici nel Vecchio Continente, le forti critiche dei due stati confinanti, Canada e Messico, e aprendo delle grandi opportunità per i grandi competitori strategici, Cina e Russia. Nonostante questo evidente periodo di riassestamento strategico che gli USA stanno vivendo, la politica estera di Donald Trump può essere spiegata attraverso due grandi teorie delle relazioni internazionali.

Il “gioco a due livelli”

Negli anni ’80 il politologo statunitense Robert D. Putnam individuò un collegamento fondamentale tra le azioni in politica estera degli USA e le strategie in politica interna. Il suo studio è stato condotto sull’amministrazione Carter, ma tutt’oggi rimane valido per comprendere come le elezioni e l’opinione pubblica influenzino fortemente le decisioni in politica estera. Infatti, la politica estera di Washington è molto più presente all’interno del dibattito giornaliero tra gli americani di quanto possa avvenire in altri paesi come l’Italia. La capacità di sviluppare una politica estera virtuosa ed efficace è uno dei pilastri di giudizio dell’operato del presidente e della sua amministrazione.

E’ quindi evidente come la consapevolezza di cosa debba essere preso in considerazione negli affari globali si scontri spesso con le pulsioni dell’elettorato. Di fronte a questo dilemma il Presidente degli USA è sempre chiamato a rispondere a seconda della sua vocazione personale e dell’influenza che i propri più stretti consiglieri hanno sulla decisione finale. Prediligere la razionalità politica rispetto alla percezione popolare risulta spesso conveniente in uno sviluppo positivo di situazioni difficili e particolarmente complesse; dall’altra parte, prediligere una politica estera basata sugli indici di gradimento della popolazione spesso porta a un rafforzamento della legittimità del presidente attraverso la vittoria elettorale.

Donald J. Trump in questo senso ha sicuramente adottato un approccio basato sulle percezioni del proprio elettorato. Infatti, la maggioranza della popolazione USA ha sempre avuto un approccio conservatore e isolazionista nei confronti degli affari globali. Gli indici di gradimento nei confronti di paesi come Iran, Cina e Russia sono sempre stati negativi. Ultimamente si sono anche aggravati, andando a erodere ulteriormente la struttura su cui si è per lungo tempo basata la politica estera di Obama. Questo peggioramento si è riversato sulle azioni forti che gli USA di Trump hanno intrapreso durante gli ultimi due anni, andando quindi a evidenziare come il “gioco a due livelli” sia tornato al centro delle decisioni di politica estera USA dopo quasi un decennio di “pazienza strategica” e razionalità politica messe in campo da Barack Obama.

 

Può essere intravista anche un’ulteriore linea di congiunzione tra le decisioni in politica estera e la ricerca di legittimità personale di Donald Trump all’interno del proprio partito. Infatti, se viene studiato il caso delle azioni contro le organizzazioni internazionali si potrà notare come Trump stia cercando di guadagnare consensi all’interno del partito repubblicano, dal quale ultimamente stanno emergendo numerosi critici dell’operato della Casa Bianca. I repubblicani sono i più scettici rispetto alle organizzazioni internazionali, creando quindi l’opportunità di sfruttare questo elemento a favore di Donald Trump. L’indice di gradimento dell’ONU da parte dei repubblicani negli ultimi anni di presidenza Obama era sopra il 50%, mentre è crollato di quasi 10 punti percentuali negli ultimi due anni. In questo senso Trump ha potuto sfruttare abilmente i suoi poteri esecutivi per guadagnare consensi che gli potrebbero tornare utili nel prossimo futuro all’interno del proprio partito.

La struttura del processo decisionale statunitense

Durante la fine degli anni ’60 dello scorso secolo Graham Allison elaborò per la prima volta una teoria su come il processo decisionale statunitense fosse strutturato su tre livelli macroscopici. Questi potevano prevalere o essere minoritari nella decisione finale in politica estera, ma tutti e tre concorrevano nell’elaborazione della decisione. Lo studio di Allison venne sviluppato applicandolo alla Crisi dei Missili di Cuba del 1962 e della tensione crescente tra l’URSS di Nikita Khrushev e gli USA di John Flitzgerald Kennedy. Nonostante lo scenario internazionale sia mutato radicalmente, la struttura individuata da Allison è interessante per capire come il Presidente, la burocrazia e il processo Organizzativo si intreccino nella politica estera USA.

trump pence.jpg

Il primo modello è quello “razionale”: le azioni in politica estera sono prese in maniera unitaria dai membri del governo. In questo modello il governo è un agente razionale e quindi ha la capacità di decidere in maniera pertinente riguardo le necessità nazionali e la sicurezza.

Il secondo modello è quello “organizzativo” in cui il governo è considerato essere un “conglomerato di organizzazioni semi-feudali e malamente alleate, nel quale ognuna ha una sua vita”. Queste fazioni quindi sono di fatto le detentrici del potere esecutivo del governo, creando un’erosione del potere del Presidente e una maggiore instabilità di governo dovuta al susseguirsi di queste organizzazioni. Si crea quindi una decentralizzazione di potere nel quale il Presidente ha il solo compito di far dialogare le differenti anime di governo. Le parole di John Kennedy in questo senso sono molto esplicative: “Il Dipartimento di Stato è come una ciotola piena di gelatina”. 

Il terzo modello, quello burocratico è invece altamente competitivo. In questo modello di governo esiste un costante braccio di ferro tra le diverse sezioni del governo. Nonostante ciò, la gerarchizzazione imposta a Washington fa in modo di elaborare un modello non unitario con tanti diversi dipartimenti in contrapposizione tra loro. In questo terzo modello il potere decisionale è condiviso, a differenza del secondo dove le differenti fazioni prevalgono durante la durata del governo. Se questo modello di decisione non viene gestito in maniera forte il risultato più probabile potrebbe essere quello di agire in maniera confusa, competitiva e di compromesso politico.

L’atteggiamento di Donald Trump nei confronti dei diversi Dipartimenti sembra far prevalere un’unica corrente di governo, la sua, e un costante contrasto verso il processo burocratico che mira a smantellare l’operato della precedente amministrazione. L’uscita dal JCPO, la tensione commerciale con la Cina, i dazi imposti e l’atteggiamento isolazionista in campo internazionale rispecchiano questa volontà.

La politica estera imprenditoriale

Donald Trump non si è formato nella sua carriera passata per diventare Presidente degli USA. Il campo imprenditoriale è quello che suo padre ha trasferito a lui durante la giovane età. La mente imprenditoriale e quella politica però non sempre vanno di pari passo, anzi. La trasformazione della Casa Bianca in un ufficio del direttore generale sembra essere avvenuta senza che il popolo americano se ne accorgesse. Nonostante ciò, l’obiettivo dell’imprenditore è quello di aumentare il profitto della propria azienda; tradotto in termini politici, il Presidente-imprenditore Donald Trump deve aumentare il profitto-elettorato del proprio paese. In questo modo quindi il “gioco a due livelli” e l’attacco all’apparato burocratico della Casa Bianca sono rispettivamente la fase offensiva e difensiva di Donald Trump all’interno di un mondo profondamente differente dal suo.

La chiave della politica estera è sicuramente centrale perché Trump può dimostrare di essere in grado di arrivare dove nessun altro Presidente prima di lui è riuscito ad arrivare (ovvero l’incontro con Kim Jong-un a Singapore); per rassicurare il popolo americano che lui è in grado di difendere la loro sicurezza economica (imponendo importanti dazi alla Cina); per ampliare la propria fetta di influenza all’interno del partito repubblicano (attaccando le Organizzazioni internazionali). In questo modo le azioni in politica estera di Donald Trump devono essere intese come una necessità di agire al di fuori del paese per dimostrare ai propri elettori di essere un valore aggiunto alla loro possibilità di benessere, senza però dare delle sicurezze concrete in merito.

Fonti e Approfondimenti

Putnam, R.D., (1988), Diplomacy and Domestic Politics: the Logic of Two-Level Games, International Organization, 42:3, 427-460

Allison, G.T., (1969), Conceptual Models and the Cuban Missile Crisis, The American Political Science Review, 63:3, 689-718

https://www.brookings.edu/blog/order-from-chaos/2018/10/04/who-was-mike-pence-really-addressing-in-his-speech-on-china/

https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/remarks-vice-president-pence-administrations-policy-toward-china/

http://www.pewresearch.org/fact-tank/2018/10/19/5-charts-on-global-views-of-china/

https://news.gallup.com/poll/116236/iran.aspx

http://www.pewresearch.org/fact-tank/2016/09/20/favorable-views-of-the-un-prevail-in-europe-asia-and-u-s/

http://www.pewglobal.org/2017/08/16/publics-worldwide-unfavorable-toward-putin-russia/

http://www.pewglobal.org/database/indicator/24/

http://www.pewglobal.org/2018/08/28/as-trade-tensions-rise-fewer-americans-see-china-favorably/

https://www.realclearpolitics.com/epolls/other/trump_favorableunfavorable-5493.html

Exit mobile version