Il caso Khashoggi promemoria dell’autoritarismo saudita

Khashoggi
@POMED - wikimedia commons - Licenza: Attribution 2.0 International (CC BY 2.0)

L’Arabia Saudita continua a rimanere al centro del palcoscenico internazionale. L’ultima vicenda che ha richiamato l’attenzione sul regno è la nota scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi: entrato nel consolato saudita ad Istanbul lo scorso 2 ottobre per ritirare dei documenti, non ne è più uscito – vivo. Il fatto ha destato una forte eco a livello internazionale. Khashoggi occupava una posizione preminente all’interno dell’establishment saudita, nonostante da circa un anno vivesse in autoesilio negli Stati Uniti: il giornalista e editorialista, che tra gli altri era stato per molti anni consulente dell’ex capo dell’intelligence e ambasciatore saudita Turki al Faisal, era recentemente diventato una voce scomoda e critica nei confronti del proprio governo, con particolare riguardo verso le più recenti politiche adottate dal regno.

Se la sua eliminazione parrebbe essere solo l’ultima efferata mossa compiuta dal leader de facto del regno, ossia il figlio prediletto del sovrano, l’impatto creato dal caso Khashoggi potrebbe potenzialmente ritorcersi contro il giovane Mohammad bin Salman (MbS) mettendo in crisi le sue strategie a livello domestico, regionale e internazionale.

I conti in tasca

Con la salita al trono di re Salman nel 2015 e la progressiva ascesa al potere di MbS, il governo saudita ha in breve tempo cambiato il proprio modus operandi sia in politica interna che estera, discostandosi dalle linee caute e prudenti tendenzialmente mirate al mantenimento dello status quo tipiche di Riyad.

La figura del principe ereditario è stata molto dibattuta dagli analisti internazionali e occidentali. In molti si sono chiesti se effettivamente incarnasse, e altrettanti hanno creduto che potesse essere, l’agente del cambiamento necessario a condurre il regno saudita su un sentiero di riforme finalizzate in ultimo alla modernizzazione del Paese.

Il progetto di riforme sociali ed economiche sul quale il principe ha investito la propria immagine è stato presentato nel 2016 sotto il nome di Vision 2030: la visione di MbS sembrava voler scuotere l’assetto del regno sotto diversi punti di vista. Con l’intenzione di promuovere un islam moderato e di diminuire il potere dell’establishment religioso, di voler incoraggiare la vita sociale del Paese – ad esempio con l’apertura di cinema e teatri – e di concedere alcuni diritti alle donne, ha costruito una narrativa del cambiamento e del ringiovanimento. L’aspetto economico delle riforme, invece, mirava a liberare l’Arabia Saudita dalla dipendenza dal settore petrolifero: primo produttore al mondo di petrolio e unico swing producer, il regno ha un’economia che ruota attorno all’export di questo bene, cosa ormai divenuta insostenibile.

Tuttavia, la trasformazione economica fatica a decollare; le manovre quali l’introduzione dell’IVA al 5%, le risorse recuperate attraverso le retate anticorruzione e la «saudizzazione» del lavoro – ovvero le politiche volte a favorire l’occupazione dei giovani sauditi nel settore privato – non hanno finora portato i risultati speratila quotazione in borsa di ARAMCO (la società nazionale di idrocarburi), che ha incontrato non poca resistenza all’interno della famiglia reale e dell’élite saudita, è stata infine rimandata a data destinarsi.

MbS ha più che mai bisogno dei capitali esteri: per questo motivo, il principe ha pubblicizzato il suo progetto di rinnovamento della monarchia nei suoi viaggi in Cina, Russia, Stati Uniti ed Europa. Si è inoltre impegnato nella promozione di una nuova immagine dell’Arabia Saudita agli occhi della comunità internazionale, investendo milioni in campagne pubblicitarie e assumendo esperti di pubbliche relazioni. Egli ha fatto della percezione del cambiamento e di una monarchia improntata verso il futuro il pilastro della propria strategia comunicativa. Ma il caso Khashoggi ha riportato l’attenzione sul «lato oscuro» del principe. Molti finanziatori sembrano ora volerne prendere le distanze: per fare solo un esempio, pochi giorni prima dell’apertura della Future Investment Initiative a Riyad, molti degli investitori e dei media partner hanno cancellato la propria partecipazione.

Il lato oscuro di MbS

Mentre riceveva i plausi dell’Occidente, MbS è stato anche duramente criticato da molte voci, rimaste però fino ad oggi per lo più inascoltate o deboli. In particolare, le critiche sono state dirette all’aggressività del principe in politica estera. Basti pensare alla guerra sui prezzi del petrolio del 2015 per indebolire i competitors statunitensi, al finanziamento di gruppi ribelli in Siria, all’impegno nel silenzioso conflitto in Yemen accanto alle truppe emiratine, al sostegno dato ad Al-Sisi in Egitto; e ancora, all’evidente intromissione nella politica libanese nel momento in cui il primo ministro Hariri rassegnava le dimissioni in diretta televisiva da Riyad, alle crisi diplomatiche con il Qatar, che continua a rimanere sotto embargo, e più recentemente con il Canada, a seguito delle preoccupazioni espresse da quest’ultimo per l’arresto di alcune attiviste, di cui ne esortava il rilascio; e, infine, al ritrovato allineamento con la leadership americana di Trump e al nuovo (insolito ma non troppo) asse saudita-emiratino-israeliano in chiave anti-Iran.

Ma se le vicende di politica estera sono comunque note a livello internazionale, ciò che è passato decisamente più inosservato sono gli avvenimenti legati alla politica interna del regno. Più MbS acquisiva notorietà, più si muoveva per accentrare il potere nelle proprie mani ed eliminare o silenziare potenziali oppositori. Nell’arco di poco tempo il governo è riuscito a reprimere ciò che rimaneva della stampa indipendente del Paese e diversi gruppi di cittadini attivi nel sostenere la necessità di riforme sociali e politiche; nonché diverse voci interne alla famiglia reale o all’establishment saudita che, nonostante potessero essere in favore del mantenimento dello status quo, si posizionavano in netto disaccordo rispetto alle idee del principe.

A detta di molti oggi in Arabia Saudita vige un clima di terrore, nel quale le persone rischiano di essere tacciate come dissidenti se esprimono anche le più banali critiche nei confronti del governo. La repressione della libertà di parola ha colpito accademici, giornalisti, attivisti per i diritti umani, predicatori, uomini d’affari, membri del governo e principi. I vertici del potere non solo hanno agito tramite ondate di arresti, ma hanno anche sfruttato i social media – in particolare Twitter – per controllare, manipolare e attaccare le voci del dissenso.

Anche la tanto acclamata abolizione del divieto di guida per le donne è stata definita una riforma inconsistente e di facciata: poco prima della sua entrata in vigore, attivisti che per anni hanno manifestato a favore della causa sono stati arrestati. La spiegazione di ciò si deve vedere nel fatto che l’abolizione è stata una concessione del sovrano, e non il punto di arrivo di una protesta portata avanti per lungo tempo da una parte della società. La decisione è stata infatti presa a sostegno dei progetti di trasformazione e crescita economica e non è comunque stata accompagnata da altre politiche contro la segregazione di genere.

Nonostante MbS abbia parlato di un ritorno all’islam moderato pre-1979 – se moderato si poteva definire il wahhabismo promosso dal regno anche prima degli anni ‘80 – le sue politiche lasciano poco spazio al dibattito, al confronto e alla maturazione di riforme sia religiose che non. Secondo l’antropologa saudita Madawi al Rasheed, «il principe sembra sostenere un islam politicamente oppressivo coperto da una patina liberale», mentre lo stesso Khashoggi scriveva che «sostituire le vecchie tattiche di intolleranza con nuovi metodi di repressione non è la risposta» che l’Arabia Saudita dovrebbe dare alle esigenze di cambiamento.

Ma come MbS stesso riferiva in una intervista a Bloomberg, egli non è un riformatore, ma il principe ereditario dell’Arabia Saudita. E come tale, il suo interesse rimane quello di mantenere e consolidare il potere in ciò che continua a confermarsi un regime autoritario.

La tragicità del caso Khashoggi sembra aver richiamato l’attenzione non solo sulla morte del giornalista, ma anche sulle migliaia di vittime dello Yemen, sulle brutali condanne a morte all’interno del regno e sugli arresti arbitrari. L’immagine del principe è stata quindi danneggiata, forse in maniera irreparabile: da adesso in poi si aprono diversi scenari, rimane solo da vedere se MbS e i suoi partner internazionali reggeranno al contraccolpo o se la vicenda segnerà l’inizio di qualcos’altro.

Fonti e approfondimenti

https://www.washingtonpost.com/people/jamal-khashoggi/?utm_term=.6d8f9ed83d73

https://www.newyorker.com/magazine/2018/04/09/a-saudi-princes-quest-to-remake-the-middle-east

http://www.limesonline.com/chi-ha-ucciso-khashoggi-istanbul-saudita-mbs-complotto/109039

Caso Khashoggi: il “cigno nero” di MbS, timoniere in difficoltà

https://pomed.org/event/mbs-a-deeper-look/

https://www.washingtonpost.com/news/world/wp/2018/06/17/feature/saudi-women-on-the-front-line-of-change/?noredirect=on&utm_term=.2e8574651a67

Arabia Saudita: nessuna campagna di pubbliche relazioni potrà nascondere le violazioni dei diritti umani

https://www.internazionale.it/opinione/hana-al-khamri/2018/10/19/khashoggi-impunita-saudita

https://www.hrw.org/it/news/2016/11/01/295911

https://www.middleeasteye.net/columns/can-saudi-arabia-survive-without-house-saud-507921606

 

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