Il sogno iniquo: la crisi del 2008 nasce dalle disuguaglianze

La crisi del 2008 è frutto delle disuguaglianze
@Brian Sims - Wikipedia - CC BY 2.0

Il progetto “Il sogno iniquo” cercherà di approfondire la questione delle disuguaglianze negli USA. Useremo un approccio multidimensionale che permetterà di capire quali sono le radici di questa sbilanciamento negli Stati Uniti e come questo influnzi il cosidetto “sogno americano”.

Quando si parla della crisi economica scoppiata negli USA nel 2008, spesso la si interpreta come una contingenza, risultato dello scoppio della bolla dei mutui subprime che hanno portato al fallimento, tra gli altri, di Lehman Brothers. Facendo ciò, tuttavia, si elimina dall’analisi lo studio delle cause più profonde di questa crisi economica, che sono da ricercare nell’aumento delle disuguaglianze avvenuto nel trentennio precedente all’inizio della Grande Recessione.

La crescita delle disuguaglianze

L’analisi sulle disuguaglianze parte dal 1980, anno che segna una cesura per quanto riguarda l’impostazione della politica economica anglo-sassone prima, e mondiale poi. Con le elezioni di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli USA, si afferma sulla scena economica mondiale una nuova ideologia che prende il nome di neoliberismo e che è in netta controtendenza rispetto alle politiche keynesiane che, dal New Deal di Roosevelt e durante tutta la ricostruzione post-bellica, erano state l’architrave delle politiche economiche globali.

Uno dei principi chiave del neoliberismo è la riduzione dell’intervento dello Stato in economia. Di conseguenza, vengono depotenziati i sistemi di welfare che, secondo i sostenitori di questa teoria economica, sono un fardello troppo pesante per le casse dello Stato e vengono ridotte le tasse sui redditi da lavoro e da capitale, con un’attenzione particolare alle fasce più benestanti della popolazione. Questo perché una delle ipotesi di questa corrente di pensiero, chiamata trickle down economics, è che favorendo la crescita delle classi più ricche tutto il Paese andrà a beneficiarne. L’idea è che il guadagno di risorse che ne deriverebbe sarebbe tale da permettere a tutti, anche alle classi più povere, di beneficiare della ricchezza creata, che ricadrebbe a cascata su tutta la popolazione.

I dati, tuttavia, dimostrano come i principi e le ipotesi del neoliberismo siano state smentite dalla realtà. Dagli anni ’80 le disuguaglianze hanno  ricominciato a crescere in modo rapido, con la forbice ricchi-poveri che si è allargata velocemente.

Mettendo a confronto i redditi medi del percentile più ricco e del restante 99% della distribuzione, vediamo che mentre nel 1975 le due curve erano allo stesso livello, nel giro di 35 anni l’1% più ricco è arrivato ad avere in media un reddito triplo rispetto al resto della distribuzione. Il reddito medio dell’ultimo percentile è cresciuto del 142%, mentre la loro quota di reddito su quello nazionale è raddoppiata, passando dal 10% al 20%. Nello stesso periodo, il reddito familiare mediano negli USA è cresciuto solo del 9%, anche a causa della scarsa crescita dei salari: basti pensare che per il quintile più povero a un aumento delle ore lavorate del 22% è corrisposto un aumento del salario orario del 5%, nonostante una crescita della produttività del 74,5%.

Nello stesso periodo, mentre i redditi del ceto medio ristagnavano, retribuzioni dei CEO sono impennate. Le paghe degli amministratori delegati sono infatti cresciute molto più velocemente di quelle dei lavoratori: se nel 1965 il rapporto tra la paga di un CEO e quella del lavoratore medio era di 20:1, nel 2013 è cresciuto fino ad arrivare a 300:1. Inoltre, questa crescita sproporzionata è avvenuta senza alcuna correlazione con i cicli macroeconomici o le performance aziendali, il che significa che le retribuzioni crescevano anche negli anni di stagnazione economica o in caso di perdita del valore aziendale.

Negli ultimi 35 anni di trickle down economics, l’economia è quindi sì cresciuta, ma gran parte della ricchezza è stata distribuita in modo ineguale, lasciando ai percentili medio-bassi della distribuzione solo una piccola parte della torta.

Dalle disuguaglianze allo scoppio della crisi

L’evidenza empirica ci dice quindi che dal 1980 a oggi le disuguaglianze sono cresciute. Ma in che modo possono essere considerate responsabili per lo scoppio della crisi?

Ci sono due considerazioni da fare.

In primo luogo, la teoria ci dice che a una maggiore disuguaglianza dovrebbe corrispondere un’indebolimento della domanda aggregata: nel momento in cui i salari reali dei ceti medio-bassi non crescono, la domanda di beni sul mercato dovrebbe calare, poiché sono proprio gli invidui nella parte medio-bassa della distribuzione a spendere  in beni di consumo.

In secondo luogo, le disuguaglianze economiche sono correlate alle disuguaglianze di opportunità. Questo, in una prospettiva di medio-lungo periodo, contribuisce a indebolire le possibilità di crescita di un Paese, perché una quota consistente degli individui che fanno o faranno parte della forza lavoro è sostanzialmente privata delle possibilità di arricchirsi. Come evidenzia questo paper del FMI, i Paesi con maggiori disuguaglianze hanno infatti performance economiche peggiori e sono più instabili dal punto di vista macroeconomico.

Di queste due considerazioni, la prima è di particolare importanza. Se la teoria collega l’aumento delle disuguaglianze alla diminuzione della domanda aggregata, a causa del calo del potere d’acquisto dei consumatori, i dati empirici sugli USA relativi al periodo in esame ci dicono che non è stato così, perché i consumi sono rimasti costanti.

Questo paradosso ha in realtà una spiegazione semplice: le famiglie, vedendo i loro salari reali diminuire (o non crescere), hanno iniziato a utilizzare i loro risparmi e a indebitarsi, pur di mantenere il tenore di vita che avevano avuto negli anni del periodo post-bellico, periodo di prosperità economica.

Per quanto riguarda risparmi e indebitamento delle famiglie americane tra il 1960 e il 2010, fino alla prima metà degli anni 80 l’indebitamento rimane più o meno costante. Lo stesso accade per i risparmi. A partire dal 1985 circa i trend cambiano: i debiti iniziano a salire, e nel 2007 sono raddoppiati rispetto al 1985, mentre i risparmi nello stesso anno sono 1/5 rispetto al livello del 1985.

Andando a guardare invece l’indebitamento medio dei diversi quintili della distribuzione, vediamo come questo sia cresciuto per tutte le famiglie, eccetto che per quelle nel decile più alto della distribuzione. Questo risultato è coerente con quanto detto finora, e il maggiore indebitamento e l’erosione dei risparmi per i ceti medio-bassi vengono confermati dai dati empirici.

Il passo successivo è capire perché le famiglie si siano indebitate così tanto e perché sia stato possibile.

Una risposta è stata fornita dall’economista Rajan, secondo cui la crescita delle disuguaglianze ha avuto come risposta politica quella di aumentare la concessione di prestiti alle famiglie a basso reddito, utilizzati  per sostenere un livello di consumi e uno standard di vita più alto rispetto a quello garantito dai loro salari reali.

Questa teoria di Rajan si ricollega ad altre due ipotesi. La prima, detta relative income hypothesis, afferma che il livello di consumo delle famiglie è indipendente dal livello dei salari reali, perché è correlato negativamente alla posizione della famiglia nella distribuzione nella sua comunità locale e positivamente al salario reale degli anni passati. Questo significa che le famiglie a basso reddito tendono a ricorrere all’indebitamento per aumentare i loro livelli di consumi soprattutto nella spesa per beni cosiddetti posizionali, ovvero che influenzano la posizione nella distribuzione del reddito, in una sorta di tentativo di scalata sociale, e che questo è ancora più vero per quelle famiglie il cui reddito è calato o è stagnante se paragonato agli anni precedenti.

La seconda è la expenditure cascade hypothesis, secondo la quale maggiori disuguaglianze possono dare vita al fenomeno delle “spese a cascata”:  in tutta la parte inferiore della distribuzione assistiamo al fenomeno per cui gli individui sono influenzati dai pattern di spesa delle famiglie a reddito più alto delle loro, come afferma sostanzialmente la relative income hypothesis.

Considerato che tutte queste ipotesi trovano conferma nei dati empirici, è ragionevole pensare che le premesse della crisi si trovino in diversi fattori – comportamento dei consumatori, politiche economiche degli Stati e degli istituti di credito, cambiamenti nella strutturazione del mercato del lavoro, l’accelerazione del processo di globalizzazione, aumento della concentrazione di ricchezza per i percentili più alti della distribuzione – che si sono sostenuti a vicenda nel generare un elevato livello di indebitamento in particolare per le famiglie appartenenti al ceto medio, ma che hanno come radice comune l’aumento delle disuguaglianze economiche negli USA.

L’indebitamento, inoltre, è stato anche reso possibile dalle politiche economiche della FED e dei maggiori istituti di credito americani, in particolare negli anni a ridosso dello scoppio della crisi. L’abbassamento dei tassi di interesse effettuato dalla FED tra il 2001 e il 2003 – dal 6,5% all’1% – ha favorito un ricorso massiccio al credito per le famiglie che è stato concesso anche a molti individui privi delle garanzie necessarie per ripagare prestiti molto consistenti (spesso destinati all’acquisto di proprietà immobiliari), i cosiddetti NINJA (No Income, No Job and Assets). Quando però, negli anni successivi, la FED ha rialzato i tassi di interesse, questi individui si sono ritrovati impossibilitati a ripagare i propri debiti facendo esplodere la bolla speculativa. Le perdite per gli istituti di credito sono risultate essere enormi, costringendoli a restringere l’offera di moneta e generando una spirale che ha portato al crollo del PIL e dell’occupazione negli USA prima, e su scala globale poi.

Tutti questi dati confermano che la causa primaria della crisi sia da ricercare nell’aumento delle disuguaglianze economiche che è avvenuto dal 1980 circa in poi e che ha portato le famiglie a indebitarsi senza essere realmente in grado di sostenere i costi per ripagare i debiti.

Diversi fattori hanno portato allo scoppio della crisi, ma analizzando i dati empirici appare evidente come il punto di svolta sia il cambio di regime economico globale e l’avvento del neoliberismo, con tutti i trend relativi alla crescita delle disuguaglianze, alla concentrazione della ricchezza e all’indebitamento che si invertono nei primi anni ’80 del secolo scorso in maniera piuttosto netta.

Fonti e approfondimenti:

Davanzati, G. F. (2013), La crisi, dalle sue origini all’austerità. Un’analisi critica, Keynes Blog, 15 aprile 2013

https://keynesblog.com/2013/04/15/la-crisi-dalle-sue-origini-allausterita-unanalisi-critica/

Krugman, P. (2010), Inequality and crises: coincidence or causation?, address at the Alphonse Weicker Foundation

https://www.princeton.edu/~pkrugman/inequality_crises.pdf

Martin, A. (2014), Why inequality is an economic problem, New Economics Foundation, 18 dicembre 2014

https://neweconomics.org/2014/12/why-inequality-is-an-economic-problem

Stiglitz, J. (2015), Inequality and economic growth, The Political Quarterly S1, 134-155

https://www8.gsb.columbia.edu/faculty/jstiglitz/sites/jstiglitz/files/Inequality%20and%20Economic%20Growth.pdf

Van Treeck, T. (2012), Did inequality cause the U.S. Financial crisis?, IMK Working Paper 91

https://www.boeckler.de/pdf/p_imk_wp_91_2012.pdf

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