Un diritto a metà? Il diritto di voto nell’UE

In un recente articolo ci siamo soffermati sullo status di cittadino dell’Unione e sui diritti che ne derivano, tra i quali spicca il “diritto di esercitare l’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e alle elezioni europee in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza”.

Tale diritto, sancito dall’art. 22 TFUE, è rimasto immutato, nella sua formulazione, dal Trattato di Maastricht ed è una conseguenza della tutela del diritto di libera circolazione alla base dello status stesso. La mancanza di esercizio dei diritti elettorali al di fuori del Paese d’origine potrebbe essere interpretato, infatti, come una limitazione di tale libertà.

Partecipazione alle elezioni comunali

L’articolo di riferimento è composto da due parti. Nel primo paragrafo si fa menzione alla possibilità di un cittadino residente in uno Stato membro, di cui non ha la cittadinanza, di esercitare il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali dello Stato in cui risiede, tenendo in considerazione le modalità adottate e promosse dal Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo. Bisogna, inoltre, considerare la possibilità di disposizioni derogatorie nel caso di situazioni specifiche relative a determinati Stati.

Questo diritto di cittadinanza, approfondito dalla direttiva 94/80, mira a una maggiore integrazione dell’individuo nella collettività in cui risiede e i requisiti di voto e di eleggibilità sono gli stessi previsti per i nazionali. In ogni caso, l’art. 22 TFUE garantisce la possibilità di disposizioni derogatorie. Queste ultime concernono perlopiù la cosiddetta deroga “demografica”, che prevede una durata minima di residenza per l’esercizio dei diritti elettorali in quei Comuni in cui il numero degli elettori senza cittadinanza nazionale supera una certa quota dei votanti. E’ questo il caso del Lussemburgo che restringe il diritto di voto ai cittadini europei che abbiano la residenza da almeno 5 anni.

Un esempio di deroga all’elettorato passivo è l’impossibilità di essere eletti a determinati incarichi di governo di enti locali qualora non si abbia la cittadinanza dello Stato in questione. Tale limitazione è prevista anche dall’Italia che esclude l’eleggibilità di cittadini dell’Unione alla carica di sindaco.

Infine, il diritto di elettorato attivo e passivo nel Paese di residenza non esclude la possibilità del cittadino europeo di votare nel comune di origine, a patto che lo Stato membro di cittadinanza lo consenta. E’ consentito, dunque, in tali casi, il doppio voto.

Diritto di voto ed elettorato passivo alle elezioni europee

Il secondo paragrafo dell’art. 22 TFUE garantisce il diritto di voto e di eleggibilità per le elezioni europee a un cittadino europeo residente in uno Stato differente da quello di cui possiede la cittadinanza. Diversamente dal precedente, volto a una integrazione interna, questo diritto è volto al rafforzamento del rapporto del cittadino con l’Unione Europea. Può essere considerato, dunque, come un aspetto più “politico” per il panorama europeo e nella relazione tra individuo e Unione.

Come nel caso delle elezioni comunali, le condizioni e i requisiti di voto e di eleggibilità prevedono una piena equiparazione dei cittadini europei ai cittadini nazionali, fatto salvo della possibilità di deroghe, tra le quali, anche in questo caso, quella “demografica”.

Un’importante differenza rispetto al primo comma è sancita dalla direttiva 93/109 del 1993 che disciplina le modalità di elezione e stabilisce il divieto dell’elettore comunitario nel corso delle stesse elezioni sia di votare più di una volta che di presentarsi come candidato in più di uno Stato membro. La volontà di votare per il Paese di residenza o per il Paese d’origine deve ovviamente essere presentata dal cittadino stesso, secondo quanto dettato dalle legislature nazionali.

L’Italia e il diritto di voto per il Parlamento Europeo

Dopo aver descritto quanto sancito dall’Unione Europea in materia di diritto di voto, annoverato tra i diritti del cittadino dell’Unione, è interessante soffermarsi sulla legislazione italiana in materia di diritto di voto per le elezioni europee.

Le modalità di elezione dei membri del Parlamento Europeo spettanti all’Italia sono disciplinate dalla Legge 18/1979. In rispetto dell’art. 22 TFUE, la legislazione italiana considera tra gli elettori anche i cittadini degli altri Paesi membri dell’UE che abbiano provveduto a effettuare una richiesta formale entro e non oltre li novantesimo giorno antecedente la data fissata per le elezioni e che abbiano ottenuto l’iscrizione nella lista elettorale del comune italiano di residenza.

Oltre a questo diritto, la Legge del 1979 detta le modalità di elezione dei cittadini italiani residenti all’estero che decidono di votare per lo Stato d’origine. Ciò è garantito dal ricorso a intese tra il Governo italiano e i singoli Governi di ciascuno Stato dell’UE. L’organizzazione e la gestione della fase preparatoria e della costituzione dei seggi spetta alle rappresentanze consolari e diplomatiche (art. 7 della stessa Legge).

Leggendo la normativa, emerge una questione molto interessante da tenere in considerazione. La legge citata, infatti, garantisce il diritto di voto alle elezioni del Parlamento Europeo solo ai cittadini italiani residenti in un altro Paese dell’UE e, dunque, esclude la possibilità di voto per i cittadini italiani residenti fuori dall’Unione. A questi ultimi si fa riferimento esclusivamente all’art. 50 della Legge 18/1979 dove si legge che per gli elettori residenti in Stati che non sono membri dell’Unione Europea viene spedita, a cura dei comuni di iscrizione elettorale, una cartolina che riporta la data della votazione, l’avvertenza che il destinatario potrà ritirare il certificato elettorale presso il competente ufficio comunale e che dà diritto al titolare di usufruire delle facilitazione di viaggio per recarsi a votare nel comune di iscrizione elettorale. Dunque, secondo la legge italiana l’unica possibilità per esercitare il diritto di voto alle elezioni europee per un cittadino residente al di fuori dell’UE è tornare in Italia.

Questa limitazione dell’esercizio di un diritto accomuna pochi Stati dell’Unione Europea, quali Belgio, Bulgaria, Grecia, Danimarca e Italia (queste ultime due garantiscono il diritto di voto a diplomatici e personale militare fuori dall’UE).

Pur riconoscendo il rischio di abusi e la difficoltà di garantire un’applicazione corretta delle norme qualora si conceda la possibilità di votare sia nel Paese di residenza che nel Paese di origine, la mancanza di tale diritto potrebbe essere considerata una limitazione al godimento dei diritti del cittadino dell’Unione Europea.

La legge che disciplina le modalità di elezione e l’ampiezza dell’elettorato è una legge del 1979, aggiornata in minima parte con la Legge 10/2009 (modifiche esclusivamente all’art.1), e dunque, si fondava e applicava a un contesto storico completamente differente, nel quale la circolazione sul piano mondiale era molto ridotta rispetto a oggi. Per questo motivo, bisognerebbe leggere questa limitazione dell’esercizio del diritto di voto alla luce della realtà attuale e domandarsi se ciò possa essere considerata una violazione dei diritto del cittadino italiano e, dunque, europeo, che si trova a vivere per un periodo più o meno lungo fuori dall’Unione Europea.

 

Fonti e approfondimenti

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