Venezuela: lo stallo dentro la crisi

stallo Venezuela
@MarceloCamargo - Wikimedia Commons - CC BY 3.0 BR

Da quasi tre mesi, il Venezuela convive con una crisi istituzionale tanto grave quanto surreale.
All’inizio dell’anno, Nicolás Maduro ha prestato giuramento per il suo secondo mandato come presidente, sotto gli occhi di un Paese dilaniato dalla crisi economica e dalla mancanza dei beni di prima necessità, che ha costretto molti venezuelani a emigrare. Poi, il 23 gennaio, nell’ambito di una serie di vaste e violente manifestazioni, il leader dell’opposizione Juan Guaidó si è autoproclamato presidente ad interim. Guaidó, che è anche a capo dell’organo parlamentare di fatto esautorato Asamblea Nacional, ha incassato rapidamente l’appoggio di importanti attori internazionali, a cominciare dagli Stati Uniti.

Questa clamorosa svolta ha aperto un nuovo capitolo nel climax di confusione e sofferenza del Venezuela. In tutto questo, un solo punto fermo: la convocazione di nuove elezioni, legittime e conformi agli standard democratici, è stata più volte auspicata su scala globale. Ma a ben vedere, dato il modus operandi del chavismo, è sempre stata un’opzione molto remota. Tutti i fattori preannunciavano un rapido precipitare degli eventi. Gli sviluppi, invece, hanno preso la forma di una logorante impasse, dalla quale oggi sembra impossibile trovare una via di uscita pacifica.

Che cosa ha comportato il giuramento di piazza di Guaidó?

L’irruzione sulla scena del deputato trentacinquenne marca una sorta di “punto di rottura” in uno scenario critico che si trascinava già da molto tempo. A partire dallo scorso anno, gli oppositori di Maduro avevano ribadito con forza che le elezioni di maggio 2018 si erano svolte in maniera fraudolenta. A livello regionale, il Gruppo di Lima aveva dato eco a questa istanza, seguito da altri organismi internazionali – è emblematica la posizione del presidente dell’Organizzazione degli Stati Americani – e da numerosi singoli Stati. D’altra parte, Maduro controlla il governo effettivo e conta sull’appoggio di tutta una propria costellazione di alleati, che non hanno mai espresso dubbi sulla sua legittimità come presidente. Per non parlare del fondamentale sostegno che ricava dalle forze armate (almeno secondo il posizionamento ufficiale) e da una buona fetta di convinti sostenitori del chavismo.

L’autoproclamazione di Guaidó, per come si è verificata, ha spaccato la stessa opposizione. Nessuno aveva mai osato tanto e alcuni segmenti antichavistas non erano nemmeno al corrente del proposito. Sul piano nazionale la tensione è scalata a livelli altissimi, dai quali non è mai scesa. Un passo avanti di questo calibro – malgrado le grandi aspettative e la ventata di adesioni iniziale – non ha veramente creato coesione: piuttosto, ha reso ulteriormente complesso e frammentato il quadro politico e sociale venezuelano.

Il governo ufficiale non ha esitato un istante a qualificare come un golpe quello che si è verificato il 23 gennaio 2019. Così come non ha esitato Trump nel dichiarare il proprio sostegno a Guaidó. Le circostanze hanno preso rapidamente una piega allarmante, nella quale sono in tanti a riconoscere chiaramente l’ombra dell’ingerenza nordamericana. Una teoria molto popolare nelle file del chavismo (alimentata dei media leali al governo) vede il giovane leader che si auto-elegge come un “burattino”, un personaggio costruito appositamente per far scattare la macchina dell’interventismo USA; per di più funzionale all’allineamento compatto dei governi di destra della regione. Una lunga serie di capi di Stato, infatti, ha seguito a ruota il riconoscimento da parte del presidente USA, a cominciare proprio dai vicini latinoamericani.

Riconoscimento e legittimità

Dalla prospettiva della politica estera, la situazione aggiornata rispetto al riconoscimento della presidenza in Venezuela vede i seguenti “schieramenti”. A sostegno di Maduro si sono pronunciati, tra gli altri, Russia, Cina, Turchia, Siria, Iran, Sudafrica e Nord Corea. Le sinistre, che governano Bolivia, Nicaragua e Cuba, sono rimaste altrettanto fedeli al presidente venezuelano formalmente eletto, mentre i presidenti di Messico e Uruguay hanno scelto una posizione intermedia, che non disconosce Maduro, ma che allo stesso tempo chiama al dialogo con l’opposizione.

A livello europeo, Spagna, Francia e Germania avevano inizialmente lanciato a Maduro un ultimatum di otto giorni per chiamare nuove elezioni; al termine dei quali (il 4 febbraio) hanno dichiarato di conseguenza il proprio appoggio a Guaidó. Il resto dell’UE si è mosso coerentemente con questa decisione. La posizione preminente di Madrid si spiega anche in funzione della compagnia energetica spagnola Repsol, che in Venezuela controlla diversi blocchi di estrazione e lavorazione. Gli interessi economici in campo hanno certamente contribuito a rendere burrascoso il rapporto con il governo di Maduro.

I governi di Italia, Slovacchia, Grecia e Cipro, invece, non si sono allineati con l’Unione. Lo stesso vale per Norvegia e Bielorussia.

Brasile, Cile, Argentina e Colombia, invece, si erano conformati fin dall’inizio alla presa di posizione statunitense, così come la maggior parte del subcontinente latinoamericano. Anche Canada, Australia, Marocco, Georgia, Ucraina e Israele hanno dato seguito al riconoscimento di Guaidó come presidente.

Questo quadro di contrapposizione internazionale è necessario per avere una visione completa degli interessi in gioco e per cogliere la pericolosità di una eventuale escalation militare. Al di là della polarizzazione (da ricordare, anche mediatica), sarebbe però estremamente riduttivo parlare di “un Paese con due presidenti”. Sarebbe anche irrispettoso per un Venezuela che, in senso pienamente democratico, non può né riconoscere né sentirsi rappresentato da nessuno dei due leader.

Da parte sua, Guaidó ha reclamato la legittimità delle proprie azioni aggrappandosi all’articolo 233 della Costituzione venezuelana (1999). Il presidente della Asamblea Nacional (Guaidó, appunto) assume il titolo di presidente incaricato della Repubblica, fino a nuove elezioni – recita l’articolo – nel caso in cui venga a mancare il presidente eletto “per motivi di morte, rinuncia, destituzione del Tribunale Supremo, incapacità fisica o mentale permanente, abbandono della carica o revoca da parte del popolo del suo mandato”. Qualificando la recente ondata di proteste come “revocazione popolare”, Guaidó ha inserito forzatamente se stesso – e l’aumento del suo peso politico – nei termini di questa riserva giuridica.

Quale deriva per il Paese?

Lo stesso Maduro ha fatto molto per meritare la sfiducia internazionale di cui è oggetto la sua amministrazione. Con la sua postura autoritaria ha violato la Costituzione tante volte da far sì che, oggi, il nodo della questione vada molto al di là dell’aspetto legale. Soprattutto, la doppia radicalizzazione politica dei mesi scorsi si è mossa in parallelo con l’aggravarsi delle condizioni di vita nel Paese. La crisi istituzionale ha presentato un conto da pagare drammatico per la popolazione, sotto forma di condizioni da guerra civile nelle strade35 vittime solo nella prima settimana di proteste, in gran parte da imputare all’azione dei corpi armati e paramilitari – ampie disfunzioni dei servizi essenziali e mancato accesso agli aiuti umanitari.

Due blackout di dimensioni vastissime hanno colpito il Venezuela. Il primo è iniziato il 7 marzo e si è protratto in alcune aree per un’intera settimana, il secondo si è verificato il 25 marzo. Le conseguenze sono state ingenti, soprattutto per gli ospedali, per la rete dei trasporti e delle telecomunicazioni e in generale per l’approvvigionamento di acqua ed elettricità delle case. Decine di persone avrebbero perso la vita per la mancata assistenza clinica. Il governo ha negato queste stime dell’opposizione, ma ha sostenuto che il collasso energetico facesse parte di un piano di sabotaggio organizzato dalla destra e dalle interferenze statunitensi.

Oltre alle interruzioni dell’energia, si potrebbero citare tante altre congiunture estreme, per le quali la tensione è stata sul punto di saltare definitivamente. Perché non è ancora successo? Come ha potuto questo stallo prolungarsi per mesi?

Allo stato attuale, la violenza acuta si profila come un passaggio obbligato. Di fatto, si sta già verificando. L’unico modo per scongiurare la guerra civile o un catastrofico intervento militare dall’esterno sarebbe che tutta l’opposizione elevasse i suoi livelli di organizzazione al punto da costringere Maduro al tavolo dei negoziati. Ma, per ora, i seguaci di Guaidó stanno scontando gli effetti della crisi delle aspettative e delle divisioni interne, che determinano una sconfitta in partenza.

Lo scrittore venezuelano Alberto Barrera Tyszka è riuscito a condensare tutto questo caos in poche, chiarissime, parole: “Il governo del Venezuela ha un talento particolare per convertire la crisi in consuetudine”. Resta da vedere fino a che punto questa massima sia applicabile ora, ovvero per quanto tempo ancora il Paese riuscirà a reggersi sull’orlo del precipizio.

Fonti e approfondimenti

Nueva Sociedad, “Urgente, Venezuela” 01/2019
http://nuso.org/articulo/urgente-venezuela/

Nueva Sociedad, “Un país, dos presidentes” 02/2019
http://nuso.org/articulo/venezuela-guaido-maduro-chavismo-crisis/

Nueva Sociedad, “Espejismos de la crisis venezolana” 03/2019
http://nuso.org/articulo/venezuela-crisis-maduro-guaido-chavez/

The Guardian “Venezuela blackout: what caused it and what happens next? 13/03/2019
https://www.theguardian.com/world/2019/mar/13/venezuela-blackout-what-caused-it-and-what-happens-next

El Mostrador “Todas las opciones sobre la mesa: los números de los escenarios catastróficos” 25/03/2019
https://www.elmostrador.cl/noticias/opinion/2019/03/25/todas-las-opciones-sobre-la-mesa-los-numeros-de-los-escenarios-catastroficos/

Nodal “¿Y ahora qué? EEUU afina nuevas estocadas contra Venezuela – Por Álvaro Verzi Rangel” 18/03/2019

¿Y ahora qué? EEUU afina nuevas estocadas contra Venezuela – Por Álvaro Verzi Rangel

The New York Times “¿Es posible una negociación en Venezuela?” 28/01/2019

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