Hong Kong: le contraddizioni di una mobilitazione di massa

hong kong protests
@Studio Incendo - Wikimedia Commons - CC-BY 2.0

“No alla legge sull’estradizione!” con questo slogan il popolo di Hong Kong si è risvegliato dalle ceneri del Movimento degli Ombrelli del 2014 e negli ultimi mesi è tornato a manifestare per le strade della città. La complessità della società, della storia e dell’architettura politica della Regione Autonoma Speciale (RASHK) hanno creato un grande contrasto tra il Capo Esecutivo, Carrie Lam, e il resto dei sette milioni di cittadini.

Nonostante ciò, non è così facile definire cosa sia successo fino a oggi, per questo cercheremo di analizzare le crescenti proteste del 2019 attraverso una semplice domanda: è nato un nuovo movimento politico a Hong Kong?

L’opposizione in crescita

Giugno 2019 non è il punto d’inizio della grande ondata di protesta, che affonda le radici qualche mese prima, attraverso delle manifestazioni sottotraccia contro la legge sull’estradizione appena proposta. Questa legge regolerebbe le relazioni in materia di estradizione con la Repubblica Popolare Cinese e permetterebbe al governo di Pechino di chiedere a Hong Kong di processare nel proprio territorio individui passibili di pene da sette anni in su. “Ovviamente”, come riferito più volte dallo stesso governo di Hong Kong, i reati devono essere punibili da entrambe le parti; questo garantirebbe, sempre secondo il governo, di mantenere al di fuori i reati politici, di espressione e le libertà intellettuali.

Il 31 marzo, il Fronte Civile per i Diritti Umani (CHRF), una ONG che raggruppa varie associazioni definitesi “pro-democratiche”, ha iniziato il ciclo di proteste. Qualche giorno prima la proposta di legge era stata presentata al Consiglio Legislativo (LegCo), l’organo che ufficialmente legifera per la RASHK. Già prima della presentazione, però, era emersa più di una critica contro questa proposta perché garantiva alle autorità di Pechino di chiedere l’estradizione per reati punibili almeno a un anno.

Si capisce bene, quindi, come nella sua versione iniziale – poco conosciuta – questa legge avrebbe garantito l’estradizione per praticamente qualsiasi tipo di reato. A seguito delle numerose proteste all’interno del LegCo, la soglia è passata da “almeno un anno” a tre anni. In questo contesto, l’ultimo giorno di marzo un gruppo di manifestanti ha iniziato a chiedere l’annullamento della proposta.

Ma come si è passati da circa dodicimila partecipanti a due milioni in due mesi? La risposta più facile è: perseveranza. Ma sicuramente non è stato solo quello. Quindi c’è bisogno di sottolineare almeno altri due elementi: le alleanze tra diversi gruppi della popolazione e l’obiettivo ben chiaro.

Le alleanze tra diversi gruppi della popolazione

Ritornando al contenuto della proposta di legge, tutti i soggetti punibili con sentenze di almeno sette anni possono essere estradati a Pechino per il processo. Senza analizzare le differenze tra la detenzione e le garanzie di giusto processo tra Hong Kong e la Repubblica Popolare, un dato risalta più di tutti: la paura del mondo della finanza e degli imprenditori.

Se una sentenza di sette anni non è facile da guadagnare, non è neanche impossibile in questi due settori, pilastri centrali dell’economia di Hong Kong. Una postilla da aggiungere alla spiegazione sulla riforma è che tutti, nessuno escluso, sono passibili di estradizione. In questo senso la legge sarebbe quindi applicabile a residenti permanenti, cinesi, stranieri con permesso di soggiorno e semplici turisti.

Alla paura di questi due settori, si deve aggiungere quella di vedere la sovranità di Hong Kong sempre meno nelle mani dei residenti e sempre più vicina alla leadership di Pechino. La legge è stata quindi percepita come un modo per il Partito Comunista Cinese di entrare ancora di più negli affari domestici della SARHK, con venti anni di anticipo rispetto agli accordi del 1984 tra Gran Bretagna e Repubblica Popolare Cinese che garantivano il rispetto del sistema “Un Paese, Due Sistemi” almeno fino al 2047.

In questo contesto, la popolazione, gli studenti, il mondo finanziario e gli imprenditori hanno formato un’alleanza per contrastare la proposta di legge.

Obiettivo comune: ritiro della proposta di legge

Come sappiamo, creare un fronte unito in opposizione è molto più facile che creare un movimento propositivo. Questo per la difficoltà della lotta, ma perché l’obiettivo è ben definito, il nemico è chiaro e viene saltato quel lungo processo, comune a tutti i movimenti, di sviluppo delle proprie idee da raggiungere. Questa è la prima grande differenza con il Movimento degli Ombrelli del 2014, dove esistevano diverse – contrastanti – opinioni su come Hong Kong doveva essere governata e sulle diverse lotte da combattere.

La seconda manifestazione, il 29 aprile, ha attratto circa 130 mila persone per protestare. I numeri già a fine aprile erano alti, perché nessuna manifestazione dal 2014 era riuscita a coinvolgere così tanti cittadini. A caratterizzare maggiormente questo passaggio è stato il silenzio che governava la folla. Nessuno slogan, nessun discorso:; una semplice marcia silenziosa.

A questo punto un altro elemento della popolazione, l’opposizione del LegCo dei pro-democratici, si è fatto fortemente avanti verso la popolazione e ha iniziato a fare la sua parte all’interno delle istituzioni. Nel mese di maggio a più riprese ci sono stati scontri fisici e verbali tra i pro-democratici e i sostenitori di Pechino. A questo punto, però, il collante dell’obiettivo comune ha messo insieme delle forze sociali che fino ad allora raramente erano riuscite a dialogare.

Le maree umane

Nel mese di giugno il ciclo della protesta si è allargato sempre di più, fino ad arrivare all’apice il 1° luglio. Il 4 giugno il memoriale delle vittime del Massacro di Tienanmen ha visto una partecipazione storica, strumentalizzata dalla lotta contro la legge sull’estradizione. La confusione tra le persone ha oscillato tra un ricordo per le vittime del 1989 e la voglia di libertà del popolo di Hong Kong. Questo denota un forte senso di responsabilità verso una data così importante ma, dall’altra parte, sottolinea anche come dopo trent’anni il 4 giugno stia vivendo un’appropriazione da parte dei cittadini di Hong Kong per contrastare frontalmente il governo di Pechino.

Il 6 giugno, per la prima volta dal 1997, un terzo degli avvocati ha manifestato silenziosamente contro la proposta di legge. Questo è simbolico di come un altro settore dei professionisti si sia unito contro la proposta di legge di Carrie Lam, creando una massa d’opposizione ancora più elevata.

Qualche giorno dopo, il 9 giugno, le strade di Hong Kong venivano investite da un milione di persone, questa volta cantando, urlando, e chiedendo a gran voce le dimissioni di Lam e il ritiro della proposta di legge. Il corteo è stato guidato dal CHRF, senza che però si sia messo a capo simbolicamente della protesta. In questo modo, la marea umana è stata libera di non essere rappresentata da nessuno, definendo un passaggio molto importante.

La violenza delle forze dell’ordine e la risposta del popolo

Dopo gli scontri della notte del 9 giugno, il mercoledì successivo, 12 giugno, la città ha vissuto uno scontro violento tra la polizia e i manifestanti. Nonostante sia stato sottolineato positivamente come la forza degli studenti fosse nella loro mancanza di leadership, sta proprio qua la chiave per una migliore comprensione. La spontaneità conflittuale ha portato allo scontro (innescato da una carica ingenua da parte di alcuni manifestanti armati di ombrelli che si sono distrutti al primo impatto); la repressione dura della polizia ha raccontato il resto. L’utilizzo dei lacrimogeni ad altezza uomo, l’uso spropositato di spray al peperoncino, aver sparato pallottole di gomma ad altezza uomo (lasciando ciechi due giovani manifestanti) si deve sommare alla violenza fisica dello scontro e alla copertura dei numeri di riconoscimento sulle loro divise.

Molti giornalisti hanno apprezzato la mancanza di leader definiti, giustificandolo con la loro volontà di rimanere anonimi per paura di ripercussioni (come successo nel 2014 a Joshua Wong e altri). Altri hanno apprezzato la capacità di “organizzazione veloce e sul campo” e non predeterminata. Più che organizzazione sul campo, può essere affermato che la voglia di non arrendersi e la paura hanno creato un sistema di solidarietà che ha permesso ai manifestanti di sopravvivere sul campo, senza essere arrestati dopo essere stati assaltati dalle forze dell’ordine.

La domenica successiva, il 16 giugno, si è avverato quello che viene spesso teorizzato riguardo l’uso di strumenti repressivi durante la crescita di un movimento. Da un milione di persone presenti il 9 giugno, si è passati a due milioni. La violenza è stata nuovamente l’elemento che ha infuocato il popolo. Parlando con diversi manifestanti, emerge molto chiaramente come chi non ha partecipato alla manifestazione del 9 giugno sia sceso in piazza la domenica dopo soprattutto per la violenza della polizia del mercoledì precedente. Se la storia fosse veramente insegnante, il governo saprebbe questo dagli eventi del 2014, quando gli Ombrelli fecero il loro exploit proprio dopo la tentata repressione da parte della polizia.

Il primo luglio 2019, vittoria o distruzione?

Possiamo probabilmente dire che il 16 giugno sia stato il giorno in cui il ciclo della protesta si è aperto totalmente, costringendo Lam a sospendere la proposta di legge e a chiedere scusa pubblicamente per non aver capito il popolo. Tralasciando il fatto che i manifestanti non hanno chiesto una sospensione, ma il ritiro totale della legge (c’è sempre la possibilità di farlo tornare sui tavoli del LegCo leggermente modificato e con altro nome tra qualche mese), le proteste non sono finite al 16 giugno.

Il 21 giugno migliaia hanno accerchiato il quartier generale della polizia, chiedendo giustizia per i fatti del 12 giugno; il 27 giugno sul New York Times i manifestanti hanno pubblicato un invito alle delegazioni al summit del G20 a Osaka per difendere Hong Kong, senza successo.

In un’intensità sempre crescente, con una voglia di continuare a perpetrare l’opposizione alla legge, il 1° luglio ci sono state altre tre manifestazioni. Nella data simbolica del passaggio della città da colonia britannica a SARHK, una manifestazione violenta la mattina, una pacifica il pomeriggio e l’assalto al LegCo la sera sono state il segno riassuntivo di questa continua spirale di contrasti tra il popolo e il governo.

Focalizzandoci sull’assalto al LegCo, ci sono alcuni elementi da mettere in risalto per capire meglio. Primo, la polizia non è intervenuta quando i manifestanti si sono armati per entrare nel Palazzo; secondo, una volta entrati le foto ci mostrano un buon numero di manifestanti e un alto numero di giornalisti; terzo, il simbolismo è stato molto importante perché se da una parte è stato oscurato il simbolo attuale di Hong Kong, dall’altra è stata innalzata la bandiera coloniale britannica.

Perché la polizia non è intervenuta?

Andando con ordine, il mancato intervento della polizia è stato spiegato dalle autorità come una impossibilità operativa da parte loro di poter intervenire (alludendo a incapacità dovute a scontri precedenti con i manifestanti e inabilità a operare dentro ambienti chiusi). Dall’altra parte, invece, l’ipotesi più ragionevole di affermare che le forze dell’ordine non siano capaci di fare il loro lavoro, è quello di una strategia calcolata. Facendo entrare una parte di manifestanti nel LegCo, quest’ultimi possono essere arrestati con facilità e senza dover ricorrere a violenza. In questo modo, la polizia raggiungerebbe lo stesso risultato (forse migliore) del 12 giugno, senza però attirare su di sé l’ira internazionale.

Chi c’era dentro al LegCo?

Il secondo punto denota come i manifestanti nella loro generalità non sono rappresentati totalmente da chi è entrato nel LegCo. Quello che ora si rischia è una criminalizzazione del popolo di Hong Kong, sbagliando. Come giustamente affermato da uno dei manifestanti dentro il LegCo “se ce ne andiamo ora Hong Kong non recupererà mai da questa situazione”, ovvero: se ci facciamo condannare senza aver fatto un vero conflitto l’intero popolo ne risentirà.

Cosa significa il simbolismo della bandiera coloniale inglese?

L’ultimo punto è il più delicato. Nel giorno del passaggio, issare la bandiera coloniale ha contraddetto tutti gli spiriti presenti nei milioni che sono scesi per le strade durante questi mesi. La convivenza tra pro-democratici, nostalgici, oppositori al governo Lam e apolitici è stata distrutta con quella bandiera. La provocazione è evidente, indispettire Pechino; il risultato è ancora più evidente, l’immediato distanziamento tra chi era dentro il LegCo e tutto il resto.

Inoltre, se fino al 1° luglio la contrapposizione tra cittadini e governo era ben definita, ovvero attaccare Carrie Lam per allontanare lo spettro di uno scontro tra il popolo e il governo centrale di Pechino, oggi questi ruoli sono sempre meno netti. Il rifiuto delle cinque stelle dentro il fiore simbolo di SARHK e l’innalzamento della bandiera coloniale hanno tagliato fuori dai giochi Carrie Lam e bussato alla porta di Zhongnanhai.

Quindi, movimento o no?

Se è vero che un movimento non è necessariamente definito dal livello di organizzazione che viene messo in campo, è anche vero che l’elemento fondamentale e imprescindibile di ogni movimento è l’identità tra i partecipanti. Come visto, però, non esiste un’identità collettiva proattiva, ma ne esiste una passiva di opposizione. Non tutti i movimenti sono destinati a promuovere un nuovo modello politco, sociale o economico, anzi.

In questo caso, l’azione del governo nel sospendere la proposta di legge e quella di irrompere con la bandiera coloniale nel LegCo hanno definito una spaccatura identitaria forte, da cui probabilmente un grande movimento rappresentativo dei due milioni di manifestanti non potrà veramente emergere.

Fonti e Approfondimenti

Tarrow, S., Power in Movement. Social Movements and Contentious Politics, Cambridge University Press, 2011

Della Porta, D., Diani, M., Social Movements. An introduction, Blackwell Publications, 2010

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