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Elezioni in Bolivia (parte 1): “Gracias Evo, pero que descanse”

Il prossimo 20 ottobre la Bolivia sarà chiamata alle urne. Per lo Stato plurinazionale a grande composizione indigena, queste elezioni generali determineranno il presidente e il vicepresidente del mandato 2020-2025. Saranno inoltre rinnovati la Camera dei deputati (130 rappresentanti) e il Senato (36).

Evo Morales Ayma, che detiene saldamente la presidenza da quattordici anni, figura nuovamente tra i candidati. Al di là delle frasi fatte, si tratta di una tornata elettorale veramente storica per questa nazione sudamericana e non solo, dato che il peso politico e simbolico de “El Indio” è in costante ascesa. Eppure, per la prima volta dopo anni di traguardi positivi, la riconferma di Evo al potere scricchiola: non perché manchi il favore dei sondaggi, ma perché la sua stessa candidatura fa lampeggiare “spie” di antidemocrazia impossibili da ignorare.

A fronte dell’esito del referendum contro la sua rielezione, ci sono le conquiste economiche e sociali che, a partire dal 2006, hanno proiettato la Bolivia in avanti, insieme a tutto ciò che Evo rappresenta a livello di politiche e di consenso popolare. A favorirlo, oltretutto, ci sono l’inconsistenza delle alternative e la mancanza di una direzione univoca nell’opposizione.

I precedenti e lo svolgimento del voto

Il 27 gennaio 2019 si sono tenute, per la prima volta in Bolivia, elezioni primarie per determinare i candidati a presidente e vicepresidente. Su base volontaria e non obbligatoria, circa 1 700 000 iscritti si sono recati alle urne per esprimersi su nove binomi (presidente e vice), successivamente ufficializzati dal Tribunale Supremo Elettorale.
In realtà, si è trattato di un processo costoso e superfluo, data l’assenza di competizione all’interno dei partiti: ognuno di questi aveva iscritto un solo binomio alle primarie. Le polemiche sono state forti e in parte sollevate dagli stessi candidati. “Non si tratta di rafforzare la democrazia interna ai partiti – ha dichiarato Víctor Hugo Cárdenas, candidato di Unidad Cívica Solidaridad (UCS)l’unico vero obiettivo di questo voto è abilitare alle presidenziali di ottobre il binomio oficialista Evo Morales-Álvaro García Linera, di per sé incostituzionale”.

Il 20 ottobre, per il Senato e la Camera dei deputati, si voterà in base a 9 circoscrizioni dipartimentali e, a seconda dei seggi, con sistema proporzionale o a maggioranza semplice. Per quanto riguarda presidenza e vicepresidenza, la circoscrizione è unica e nazionale. La data fissata per l’eventuale ballottaggio è il 15 dicembre 2019. Si procederebbe a questa seconda tornata nel caso in cui nessun candidato ottenga il 50% dei voti validi per l’elezione, o il 40% con uno scarto di almeno 10 punti percentuali sul secondo.

Il percorso a ostacoli della democrazia boliviana

Se si esclude l’eventualità del ballottaggio, il 20 ottobre già si prospetta come l’ennesima consacrazione di Evo. Ma a che prezzo?
Lo stesso “pueblo boliviano”, che è sempre stato il fulcro della politica e della retorica di Morales, ha già votato contro la sua rielezione. Il 21 febbraio 2016, infatti, si è tenuto in Bolivia un referendum sulla modifica del numero di mandati previsti dalla nuova Costituzione indigenista (2009). Alla richiesta di esprimersi sulla riforma dell’articolo 168 – vale a dire permettere che presidente e vicepresidente possano essere rieletti per più di due volte consecutive – il NO (51.3%) ha prevalso sul SÌ (48.7%).

Morales aveva ottenuto una vittoria notevole (più del 60% dei voti) solo un anno e mezzo prima, nelle presidenziali del 2014. Il risultato del referendum, invece, ha messo in luce un sorprendente aumento della polarizzazione politica del Paese e una certa inquietudine da parte dei suoi stessi sostenitori.
Le accuse di corruzione e la riluttanza di Evo a rassegnarsi alla fine del suo ciclo di governo hanno gettato sempre più ombre sulla sua integrità politica e rinsaldato il fronte del NO. In particolare, due grandi scandali sono scoppiati nei mesi appena precedenti al referendum.
Dal 2015 si indaga sulla sorte di 6,8 milioni di dollari che avrebbero dovuto essere investiti nei 49 progetti per lo sviluppo rurale del Fondo Indígena. Più di 200 persone sono state processate, tra le quali alcuni stretti collaboratori di Morales e appartenenti al partito di governo MAS (Movimiento al Socialismo). Ulteriore scalpore è stato sollevato dalla relazione (ci sono anche voci sull’esistenza di un figlio) tra Evo Morales e Gabriela Zapata, impresaria a capo dell’outsourcing boliviano della compagnia cinese CAMC. Zapata è stata condannata a 10 anni di carcere per diversi reati tra cui associazione a delinquere, falsificazione e appropriazione di proventi illeciti.

A un anno e mezzo dal referendum, la volontà popolare incarnata dal NO è stata di fatto invalidata dal Tribunal Constitucional Plurinacional con la sentenza del 28 novembre 2017: sulla base della Convenzione Americana dei Diritti Umani e su dei cavilli di formulazione della Ley de Régimen Electoral boliviana, il Tribunale ha avallato la ricandidatura indefinita alla guida del Paese. La giustificazione apportata è che tali limiti violerebbero la libertà politica del cittadino e sarebbero contrari agli interessi dello Stato.
Con queste premesse, Evo punta ora alla quarta elezione.

Una nuova Bolivia, combattuta tra continuità e incertezza

Secondo diversi punti di vista, è innegabile che la Bolivia abbia tanti motivi per essere grata a Evo.
Il primo a essere citato è spesso la stabilità economica: nel giro di poco più di dieci anni, uno tra i Paesi più poveri del Sudamerica è diventato un’economia attrattiva e resiliente. Secondo le stime della World Bank, dal 2006 il PIL è cresciuto in media del 5% ogni anno. Oltre alla gestione accorta dei beni di prima necessità, il flusso di denaro è usato per ripagare il debito pubblico e migliorare l’immagine a livello internazionale. L’amministrazione boliviana ha beneficiato anche del paragone con le altre economie socialiste della regione, tutte più o meno allo sbando.
L’abbattimento del tasso di povertà estrema e l’espansione della classe media hanno avuto logicamente grandi risvolti sociali, visibili anche nella diffusione di un certo welfare. Questi sono stati sostenuti da iniziative di governo a favore delle infrastrutture comuni, della sanità pubblica e dell’educazione. Il balzo in positivo del tasso di alfabetizzazione è uno dei fattori più significativi.

Il primo presidente indigeno ha fatto dell’inclusione sociale la sua bandiera, soprattutto per quanto riguarda le “minoranze” che in Bolivia minoranze non sono: Quechua, Aymara e altri ceppi indigeni. Dal 2009, le lingue originarie hanno lo stesso status dello spagnolo e le rappresentanze indigene sono state integrate a pieno titolo nell’agenda politica dello Stato Plurinazionale. Perfino le espressioni artistiche e architettoniche hanno rispecchiato questo generale cambio di mentalità e il rinnovato rispetto per le radici culturali.
Ma davvero Morales è il rappresentante del riscatto indigenista della Bolivia? Molti indigeni, soprattutto quelli che ancora abitano l’Amazzonia, storcerebbero il naso a questa affermazione. In generale, sempre più boliviani cominciano a pensare che il ricorrente parallelo con le radici ancestrali non sia altro che una “facciata” per Evo, un’operazione di immagine, vincente in termini di propaganda.

La sfiducia in questo senso si va sommare alla deriva autoritaria e alle altre falle democratiche del governo MASista: la corruzione ormai istituzionalizzata, la subordinazione del potere giudiziario agli interessi di governo, la mancanza di politiche per l’uguaglianza di genere.
Queste saranno le sfide aperte per il presidente in carica a partire dal 2020, alle quali si aggiunge l’urgenza di un vero piano per l’industrializzazione, dato che l’attuale benessere della Bolivia rimane, purtroppo, dipendente dalle sue materie prime.

I problemi irrisolti sono anche le ragioni per cui in tanti, anche tra i sostenitori del MAS, vedrebbero di buon occhio un passaggio di testimone. Per rimarcare il peso politico del referendum del 2016 è anche sorto un movimento, che prende nome dalla data in cui si è svolto – 21F – e che nelle manifestazioni porta avanti slogan come “NO es NO” (NO è NO) e “respeta mi voto” (rispetta il mio voto). “Que descanse” (che si dia pace) è un’altra delle frasi frequentemente rivolte a Morales. Ma considerando la mancanza di coesione nell’opposizione: se non Evo, chi?

Da parte sua, Morales ha messo in atto un cambiamento di retorica che ora sposta in primo piano la continuità e la stabilità, mentre nelle candidature passate era stato il portavoce del cambiamento e della rivoluzione (indigena): una sorta di “correre ai ripari”, rappresentati dai successi che ha già archiviato.

 

Nella seconda parte, metteremo a fuoco più nel dettaglio i programmi elettorali dei principali candidati alla presidenza della Bolivia e le prospettive dell’esito del 20 ottobre.

 

Fonti e approfondimenti:

Oliver Balch, “How a populist president helped Bolivia’s poor – but built himself a palace”, The Guardian, 07/03/2019

Juliana Barbassa, “Muchas personas que se beneficiaron con Evo Morales quieren que se vaya. ¿Por qué?”, Americas Quarterly, 09/2019

Emanuele Bobbio, “Evo Morales e le due Bolivie”, Lo Spiegone, 01/03/2016

Kevin Carboni, “El Indio: una prospettiva su Evo Morales”, Lo Spiegone, 22/10/2017

Jacquelyn Kovarik, “Fighting for Democracy: A Lesson From Bolivia”, New Republic, 08/08/2018

Serena Pandolfi, “Ricorda 2009: la nuova Costituzione indigenista della Bolivia”, Lo Spiegone, 31/08/2019

Francesca Rongaroli, “L’Altra America: Bolivia”, Lo Spiegone, 10/06/2019

Pablo Stefanoni, “El #13YearsChallenge de Evo Morales”, Nueva Sociedad, 01/2019

Pablo Stefanoni, “Un referéndum por penales”, Le Monde diplomatique, 2017

 

 

 

 

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