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Tensione Usa – Iran, cosa succede adesso? Intervista ad Andrea Dessì

di Emanuele Bobbio e Stefania Sgarra

La morte del generale iraniano Qasem Soleimani in un raid aereo ordinato dalla Casa Bianca lo scorso venerdì ha esacerbato la tensione tra Washington e Teheran. Abbiamo parlato delle possibili ricadute dell’attacco statunitense con Andrea Dessì, responsabile di ricerca nell’ambito del programma Mediterraneo e Medio Oriente dello IAI e direttore editoriale della collana in inglese IAI Commentaries e Non-Resident Scholar presso lo Strategic Studies Implementation and Research Centre dell’Università di Başkent, Ankara.

Partirei dalla domanda che sta tenendo tutti con il fiato sospeso: e adesso che succede? Dopo l’intervento Usa e la ritorsione iraniana quali sono concretamente le opzioni per l’amministrazione statunitense e l’Iran? Cosa ci possiamo aspettare?

Difficile fare previsioni, le tensioni rimangono altissime, cosi come i rischi di un’ulteriore escalation. Bisogna comunque dire che la reazione iraniana è stata limitata e calibrata, in perfetto ‘stile’ iraniano. Non ci sono stati morti, e questo la dice lunga. Sembra che vi sia stato anche un coordinamento, o un pre-allarme dato al governo iracheno, per evitare vittime, sia tra gli iracheni che tra gli americani e gli europei. Senza morti, il rischio di una ritorsione Usa diminuisce. Per questo la reazione iraniana all’omicidio di Soleimani è stata sì più veloce del previsto ma anche ben calibrata per evitare morti, dare a entrambi le parti una ‘exit strategy’ e diminuire il rischio di ulteriori scontri.

Tutto sommato, credo che gli iraniani hanno di nuovo scommesso sul fatto che gli Usa non vogliono un conflitto e che quindi non ci sarà una ritorsione Usa, così come non c’è stata dopo l’abbattimento del drone Usa nel Golfo Persico e dopo gli attacchi alle centrali petrolifere nella Penisola Arabica. È una strategia molto rischiosa, viste le incongruenze di Trump, ma come abbiamo visto nel suo discorso di oggi, sembra per ora essere confermata. Qualora Trump avesse deciso di rispondere militarmente, allora sarebbe stato davvero difficile evitare lo scontro, spianando la strada a quella che molto probabilmente diventerebbe una guerra regionale con conseguenze catastrofiche per la regione, per l’Europa e il sistema internazionale.

Le reali ricadute dell’intervento Usa, credo, riguarderanno il futuro dei rapporti con l’Iraq. Già nei giorni scorsi abbiamo visto come l’Iraq si appresti a chiedere il ritiro delle truppe straniere dal Paese, da anni il principale obiettivo dell’Iran e del Generale Soleimani. Sono state anche sospese le operazioni della coalizione internazionale anti-ISIS in Iraq, per ragioni di sicurezza, mentre a livello popolare credo sia chiaro come l’intervento statunitense abbia favorito un consolidamento del nazionalismo iracheno e iraniano in chiave anti Usa. Un ritiro completo di truppe straniere dall’Iraq potrebbe essere il risultato ultimo di questa nuova escalation, ma ci vorrà tempo. È comunque chiaro come tale scenario rappresenterebbe un’importante vittoria per l’Iran.

L’Iran, quindi, potrebbe aspettare, giovando delle nuove ondate di sdegno internazionale e regionale contro gli Stati Uniti, nonché dell’acuirsi della crisi transatlantica tra l’Ue e gli Usa e un consolidamento dei rapporti con Cina e Russia. Detto questo però, il problema delle sanzioni Usa rimane. Per l’Iran queste sanzioni, e specialmente l’embargo sulle esportazioni di petrolio, sono a tutti gli effetti una guerra economica, e le autorità non possono non reagire. Quindi, è oggi più importante che mai dare all’Iran una ‘exit strategy’ economico-commerciale per evitare ulteriori scontri o ritorsioni.

Il 5 gennaio, l’Iran ha annunciato un’ulteriore passo indietro dall’accordo nucleare – già pianificato prima dell’omicidio di Soleimani. Non è stato, come molti temevano, un ritiro completo dall’accordo o peggio ancora, un ritiro dall’Accordo di Non-Proliferazione. Invece, come nelle precedenti occasioni, l’annuncio è stato calcolato e misurato, mantenendo aperta la porta di dialogo con l’Europa. Sebbene siamo agli sgoccioli, l’accordo nucleare non è morto, ma sta all’Europa salvarlo. Visto l’immobilismo dei passati mesi, non vi è certo grande ottimismo sulle capacità europee, ma la posta in gioco è davvero altissima e se l’Europa non si muove ora, non so se ci saranno altre occasioni.

Tutto sommato, i reali vincitori sono i russi, che rimangono i soli attori esterni a mantenere buoni rapporti con diversi attori regionali sia pro che anti-Iran. In vista di tutto ciò, la decisione di colpire Soleimani dimostra ancora una volta la mancanza di visione strategica e di pianificazione da parte dell’amministrazione Trump e il continuo erodere della presenza e rispettabilità Usa sia nella regione che a livello internazionale.

Il Generale Soleimani rappresentava e sottintendeva una strategia precisa per l’Iran. Considerando anche le proteste popolari che hanno agitato Paesi fortemente legati a Teheran come il Libano e l’Iraq, che impatto avrà la sua morte sulla proiezione d’influenza della Repubblica Islamica a livello regionale? A livello domestico invece, a poche settimane dalla violenta repressione di manifestazioni – seppur contenute – di dissenso popolare, quali potrebbero essere le conseguenze di un attacco così sfrontato al regime?

Anche qua è ancora presto per fare previsioni. Credo comunque che sia chiaro come nel breve termine, l’omicidio abbia distolto le attenzioni dalle proteste popolari irachene contro il governo, ricompattando la popolazione attorno al nazionalismo iracheno e l’opposizione alle interferenze straniere. Anche i partiti politici iracheni, molti dei quali duramente criticati dalla popolazione, si trovano ora a gestire quest’ondata di anti-americanismo. Già vediamo come in molti cercano di cavalcare quest’onda per consolidare il proprio consenso interno, distogliendo le attenzioni popolari dai seri fallimenti governativi della classe politica irachena. Detto questo, le profonde sfide socio-economiche e politiche irachene ritorneranno presto a complicare il quadro iracheno, e non va dimenticato come ci siano anche partiti politici e movimenti iracheni – come per esempio i curdi iracheni – che difficilmente sosterranno un ritiro completo Usa dall’Iraq.

In Libano la questione è diversa e più complessa. Sebbene ci siano state proteste anche contro Hezbollah e l’Iran, in Libano non è possibile ignorare il ruolo delle ingerenze esterne, in particolare degli alleati regionali Usa – l’Arabia Saudita, Israele e gli Emirati Arabi Uniti – intenti a promuovere le proteste e/o a provocare Hezbollah nel tentativo di indebolire l’Iran. È comunque sbagliato dipingere Hezbollah come una semplice estensione dell’Iran. Certo sono alleati, ma Hezbollah è profondamente integrato nel tessuto sociale libanese ed è lecito pensare che lo rimarrà ancora per molto tempo.

Per quanto riguarda il ruolo regionale iraniano, non vi è dubbio che l’uccisione di Soleimani sia un duro colpo per l’Iran, ma è altrettanto chiaro che i successi regionali iraniani non derivano da un singolo uomo. Nel breve termine, possiamo dire che l’azione spregiudicata, illegale e unilaterale Usa abbia consolidato il sostegno e la legittimità sia dell’Iran sia della cosiddetta “asse della resistenza” in Medioriente. In questo senso, l’intervento Usa rischia di trasformarsi in un assist per l’Iran, proprio quando in diverse località della regione si erano visti i primi sussurri di movimentazioni anti-iraniane. A livello interno, l’intervento Usa ha sicuramente ricompattato il Paese, dando nuova linfa al regime degli Ayatollah. Le sponde più conservatrici e radicali in Iran ne usciranno ulteriormente rafforzate e questo in vista delle elezioni parlamentari in Iran del febbraio 2020. Per questo, è lecito aspettarsi un ulteriore indurimento delle posizioni iraniane su tutta una serie di questioni, aumentando quindi le perplessità per il futuro dei rapporti anche con l’Europa se falliscono i tentativi di salvare l’accordo nucleare.

La facilità e l’audacia, nonché il completo unilateralismo, dell’assassinio di una personalità così influente come Soleimani è l’ultimo e forse il più plateale di una lunga serie di esempi dell’inconsistenza della politica estera statunitense sotto Trump. Quali potrebbero essere le conseguenze sul medio e lungo termine per il ruolo degli Stati Uniti nello scacchiere mediorientale e, più in generale, a livello globale? L’apparato di difesa americano ha subito negli ultimi anni scossoni notevoli con frequenti licenziamenti, secondo te possiamo dire che l’apparato di foreign policy americano si è indebolito o è semplicemente finito nelle mani dei falchi dell’amministrazione?

L’azione Usa verrà molto probabilmente ricordata come un evento spartiacque per il Medioriente e la politica Usa nella regione. Non ricordo altre azioni di simile portata nel recente passato. Insieme alla fatidica decisione di invadere l’Iraq nel 2003, e quella presa da Trump di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano nel maggio 2018, queste azioni hanno compromesso – forse irreparabilmente – la posizione Usa in Medioriente. Certo, alcuni regimi nella regione hanno dato sostegno all’azione di Trump – specie dopo le mancate reazioni Usa in seguito agli attacchi recenti nel Golfo Persico – vedendolo come un modo per gli Usa di ristabilire la propria deterrenza militare nella regione, ma la cruda realtà è che la posizione statunitense in Medioriente è ai minimi storici e c’è ben poco che Washington può fare ora per ristabilirla. Non è possibile oggi, e lo sarà ancora meno nel futuro, pensare di stabilizzare la regione escludendo l’Iran. I concetti di contenimento ed esclusione – che da decenni hanno caratterizzato la politica Usa verso l’Iran – non possono portare ad altro se non a nuovi conflitti e violenze.

A livello internazionale, l’azione di Trump ha ulteriormente incrinato la reputazione degli Usa. L’indebolimento del diritto internazionale, del concetto del multilateralismo e la spregiudicata violazione di innumerevoli norme diplomatiche e dei conflitti non fanno altro che mettere a nudo i limiti dell’influenza Usa e il proprio isolamento diplomatico. In questo senso, l’uso (e l’abuso) degli strumenti militari e delle sanzioni economiche da parte dell’amministrazione Trump dimostra la mancanza di altre opzioni, a partire da quelle diplomatiche. L’aspetto più preoccupante di tutto ciò è forse il fatto che all’interno dell’amministrazione Trump, non vi siano personaggi capaci di promuovere politiche alternative. Oggi abbiamo un’amministrazione Usa con pochissima esperienza in materia di politica estera e dove i personaggi di spicco sono o imparentati con Trump o devono a lui il loro successo politico-diplomatico. In tal senso, è oramai chiaro come l’obbiettivo primario rimane semplicemente quello di vincere le elezioni Presidenziali del novembre 2020, costi quel che costi.

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