Il crisantemo nelle terre aride: politiche del Giappone sulla sicurezza nel continente africano

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nei precedenti articoli, dopo aver analizzato i rapporti tra Giappone e Paesi del continente africano dal punto di vista storico, ci siamo concentrati sulla “Conferenza internazionale di Tokyo per lo sviluppo africano” (TICAD) e gli aiuti allo sviluppo giapponesi. Ora concluderemo questo ciclo di articoli focalizzandoci sulle politiche giapponesi in materia di sicurezza nel continente africano.

Un approccio in evoluzione

Fino ai primi anni 2000, il Giappone ha interpretato la “sicurezza” nel continente africano seguendo il concetto di “sicurezza umana”, introdotto dal Rapporto sullo Sviluppo Umano dell’UNDP nel 1994. L’idea è che la vera sicurezza non si realizzi esaurendo le minacce a uno Stato, ma si ottenga liberando gli individui dalla “paura” – situazioni di conflitto – e dalle “necessità” – raggiungendo lo sviluppo economico. Poiché la costituzione del Giappone limita le possibilità di cooperazione del Paese ai settori non-militari, esso si è focalizzato sulla dimensione della “necessità”. Ha impiegato mezzi economici – gli aiuti allo sviluppo – e dispiegato forze civili per finanziare attività connesse allo sviluppo del continente africano.

Tuttavia, a partire dal TICAD III (2003), vi è stato un cambio di direzione. Il consolidamento della pace e della sicurezza, obiettivo cardine della cooperazione multilaterale e regionale africana, è diventato un elemento centrale anche nei rapporti tra Giappone e i Paesi del continente. Così, Tokyo ha cominciato a destinare i propri aiuti pubblici allo sviluppo (ODA) anche a progetti di addestramento delle truppe africane e a iniziative di capacity-building, volte a migliorare le capacità di risposta alle catastrofi e di soccorso umanitario. Grazie alla Carta per la cooperazione allo sviluppo del 2015, il Giappone può per la prima volta destinare ODA a forze militari straniere, ma esclusivamente per obiettivi non militari. Oltre a ciò, vi è stato un coinvolgimento sempre più importante delle “Forze di autodifesa” giapponesi (JSDF) nelle iniziative di sicurezza internazionali nel continente africano, stravolgendo il tradizionale approccio giapponese alle questioni di sicurezza.

Operazioni antipirateria

Dal 2009, le JSDF partecipano alle operazioni internazionali antipirateria nel Golfo dell’Aden. Queste furono avviate su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per proteggere uno dei punti più cruciali del commercio internazionale dagli attacchi della pirateria somala. Porta dell’Oceano Indiano, il Golfo dell’Aden è infatti collegato allo Stretto di Bab-el Mandeb, da cui transita il 9% del petrolio mondiale trasportato via mare, con un flusso di circa 6.2 milioni di barili giornalieri (2018). Il Giappone ha contribuito alle missioni impiegando due cacciatorpediniere e due aerei da perlustrazione che, a rotazione, scortano le navi che transitano nel Golfo. Nel 2018, la Marina giapponese ha scortato più di 3.800 navi cargo.

Nel 2011, Tokyo ha inaugurato un “complesso operativo semi-permanente” per le JSDF in Gibuti, con un mandato preciso e limitato: fornire un punto di appoggio logistico per le operazioni antipirateria. La base sarebbe stata utilizzata come punto di rifornimento e manutenzione per i mezzi militari giapponesi. Nonostante il nome, questa struttura, che ospita circa 170 JSDF, è de facto la prima e unica base giapponese militare costruita all’estero. Sebbene gli attacchi di pirateria siano in deciso calo dal 2012 – con soli tre episodi nel 2018 – il Giappone non ha interrotto l’utilizzo della base. Anzi, le nuove Linee Guida Programmatiche per la Difesa (2018) prevedono un utilizzo a lungo termine della struttura ai fini della cooperazione di sicurezza regionale.

Operazioni di peacekeeping

Il Giappone è il terzo contributore finanziario al peacekeeping dell’ONU (dietro Stati Uniti e Cina, davanti all’Italia che si posiziona settima) ma si colloca al 109esimo posto per quanto riguarda le truppe. Tale divario si spiega ricordando che la costituzione giapponese dispone, all’articolo 9, la rinuncia alla guerra, il divieto di mantenere forze con potenziale bellico e di dispiegarle all’estero. Tuttavia, le JSDF sono un esercito de facto, che partecipa alle missioni di peacekeeping dell’ONU dal 1992. Il contributo più significativo del Giappone a un’operazione di peacekeeping è stato proprio nel continente africano. Dal 2012 al 2017, Tokyo ha partecipato con un contingente di 350 ingegneri delle JSDF alla Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (UNMISS). Inoltre, al 2018, il Giappone finanzia centri di addestramento alle operazioni di peacekeeping in 16 Stati africani, per circa $100 milioni.

I fattori determinanti

Come abbiamo visto precedentemente, il continente africano è parte della strategia “Indo-Pacifico libero e aperto”, messa a segno da Tokyo per contrastare la crescente assertività cinese nell’oceano circostante il Giappone. Inoltre, non va dimenticato che la Cina ha una presenza ben più robusta e radicata del Giappone nel continente africano e che nel 2017 ha inaugurato una propria base militare in Gibuti. Quindi, la regione rientra direttamente tra gli interessi chiave di politica estera giapponese e a ciò consegue il crescente impegno sotto il profilo militare e finanziario nelle dinamiche di sicurezza del continente.

Ma come si spiega il passaggio dal solo utilizzo degli ODA al dispiegamento sul campo delle JSDF, fermo restando la natura “pacifista” della costituzione giapponese?

Fattori politici

Sotto la guida del Primo Ministro Abe, il Giappone sta cercando di affermarsi come “contributore proattivo ai processi di pace” agli occhi della comunità internazionale. Tale obiettivo è inserito nella prima Strategia di Sicurezza Nazionale (2013) e si lega alla volontà di Tokyo di ottenere un ruolo di maggior rilievo all’interno dell’ONU. Poiché tale ruolo non può prescindere da un impegno più robusto sotto il profilo militare, il Giappone ha affiancato i mezzi militari costituzionalmente consentiti – almeno secondo l’interpretazione del Partito Liberal Democratico – al contributo economico-diplomatico degli ODA. Partecipare alle operazioni di pace nel continente africano rafforza la reputazione del Giappone sul piano internazionale.

Dietro a questo obiettivo, che possiamo definire “di facciata”, si cela la volontà del Primo Ministro Abe di superare l’impostazione pacifista della costituzione giapponese. La presenza giapponese nel continente africano assume quindi rilevanza sul piano politico interno. La partecipazione alle missioni di peacekeeping nel continente africano consente infatti di introdurre leggi che semplificano le regole di ingaggio e allargano il mandato delle JSDF. Nel corso dell’operazione UNMISS, il mandato delle JSDF è stato ampliato da lavori di ingegneria civile a missioni di salvataggio di personale ONU e di membri di organizzazioni non governative. Dal 2015, la nuova legge per la pace e sicurezza consente alle JSDF di partecipare a “operazioni coordinate a livello internazionale per la pace e la sicurezza” e a utilizzare armi “in difesa del mandato, in determinate circostanze”. La terminologia utilizzata dalla legge è volutamente vaga per includere quante più operazioni possibile, anche non necessariamente autorizzate dal Consiglio di Sicurezza ONU.

Fattori economici

Una presenza militare più marcata nel continente africano è fondamentale per proteggere l’economia giapponese, che dipende per il 99.6% dal commercio internazionale. Quasi due milioni di navi cargo giapponesi attraversano il Golfo dell’Aden ogni anno e scortarle significa proteggere alcuni business cruciali per il Giappone nel continente africano. Ad esempio, il Giappone è il primo esportatore di automobili usate nei mercati dell’Africa orientale e meridionale e il 20% delle auto usate esportate nella regione è trasportato sulle navi cargo.

Il coinvolgimento del Giappone nelle dinamiche di sicurezza è cresciuto in risposta all’aumento degli interessi economico-commerciali nel continente africano. Il governo giapponese sta incoraggiando la propria classe imprenditoriale a investire nella regione. Poiché gli imprenditori giapponesi sono tradizionalmente ostili al rischio, è necessario rassicurarla attraverso la presenza sul territorio. Inoltre, se il Giappone mira a conquistare i mercati africani, deve necessariamente inviare un maggior numero di persone per sostenere il proprio business sul suolo africano, e deve quindi garantire protezione a un maggior numero di connazionali all’estero. La base in Gibuti è quindi strategicamente collocata dal punto di vista commerciale, ma anche nell’eventuale necessità di evacuare cittadini giapponesi dal territorio africano in caso di emergenza.

I limiti del Giappone

Abbiamo visto che il nuovo approccio giapponese alle dinamiche di sicurezza nel continente africano è parte di una strategia più ampia. Esso si inserisce nei discorsi di revisione costituzionale ed è funzionale al rafforzamento dell’immagine del Giappone agli occhi della comunità internazionale. Allo stesso tempo, il coinvolgimento giapponese nella regione testimonia il divario tra le aspirazioni del Giappone a trazione Abe e ciò che il Paese è effettivamente in grado di ottenere. Dal ritiro delle JSDF dall’operazione UNMISS nel 2017 il Giappone non ha più partecipato a un’operazione di peacekeeping. Tale decisione è stata determinata prevalentemente dalla volontà di Abe di mantenere salda la propria immagine agli occhi dell’opinione pubblica giapponese, che è e rimane largamente contraria al dispiegamento delle JSDF all’estero. Ciò va però contro la volontà di essere un “contributore proattivo ai processi di pace”.

Fonti e approfondimenti

Fujishige, Atsuhiko, New Japan Self-Defense Force Missions under the “Proactive Contri­bution to Peace” Policy: Significance of the 2015 Legislation for Peace and Security, 16 luglio 2016

ICC International Maritime Bureau, Piracy and Armed Robbery Against Ships, luglio 2018

Ministry of Defense of Japan, National Defense Program Guidelines for FY2019 and Beyond, 18 dicembre 2018

Ministry of Foreign Affairs of Japan, Development Cooperation Charter – For Peace, Prosperity and a Better Future for Everyone, 2015

Pajon, Céline, Japan’s Security Policy in Africa: The Dawn of a Strategic Approach?, AsieVisions (93), Ifri, maggio 2017

Tariku, Yonas, Africa-Japan Relations in the Context of Global Peace and Security: The Need for a Well-Tailored Policy, Vol. 13 (9), Institute for Peace and Security Studies, agosto 2019

Taylor, Jeremy & Michael Edward Walsh, UN Operations in Africa Provide a Mechanism for Japan’s Military Normalization Agenda, 7 gennaio 2014

US Energy Information Administration, The Bab el-Mandeb Strait Is a Strategic Route for Oil and Natural Gas Shipments, 27 agosto 2019

 

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