Venti di Putin: le politiche di genere

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La questione di genere in Russia ha attraversato uno sviluppo complesso dall’Unione Sovietica a oggi, finendo spesso oggetto di discorsi e politiche molto contraddittori da parte delle istituzioni. Infatti, nonostante i diritti all’avanguardia per l’epoca, l’atteggiamento dell’URSS verso l’emancipazione femminile è stato tutt’altro che lineare. Il periodo stalinista, in particolare, ha marcato un ritorno alla repressione e a valori di genere più tradizionali.

Dal 2000, la presidenza machista di Vladimir Putin ha ulteriormente esacerbato queste contraddizioni, irrigidendo stereotipi e diseguaglianze di genere già presenti all’interno della società russa. La retorica e i provvedimenti adottati negli ultimi vent’anni nei confronti delle donne non si sono dimostrati favorevoli al progresso dei loro diritti. Anzi, sembra che la Russia di Putin stia facendo dei passi indietro sia sul piano culturale che giuridico.

Famiglia e carriera

L’URSS aveva lasciato in eredità alla Russia contemporanea un welfare estremamente attento alle donne, per aiutarle a conciliare la vita familiare con quella lavorativa. Un sistema che tuttavia si è dimostrato molto difficile da sostenere per la nuova economia di mercato russa, e che quindi è stato ridotto a partire dagli anni Novanta.

Come sottolineato da numerosi studi, la transizione dal comunismo è stata particolarmente dura per le donne. Da allora, non hanno solo sperimentato tagli ai servizi sociali, ma anche una riduzione del proprio potere politico ed economico e un aumento della violenza di genere. Subito dopo la caduta dell’URSS, inoltre, si verificò un nuovo picco di mortalità maschile precoce, con un’altissima percentuale di suicidi a causa del crollo dell’ordine sociale e della perdita del proprio prestigio.

Così, fin dalla sua prima presidenza nel 2000, Putin si è ritrovato ad affrontare un “nemico” di vecchia data della Russia: il declino demografico. Già nel discorso all’Assemblea Federale dell’aprile 2005, Putin parlava del basso tasso di natalità come di un «problema nazionale», sottolineando gli incentivi ritenuti necessari per risollevarlo: «Bisogna creare delle condizioni che incoraggino le persone a partorire e a crescere bambini». La famiglia e il ruolo portante rivestito dalle donne come madri e mogli – elementi presenti anche nell’ideologia sovietica da Stalin in poi – sono diventati il fulcro della sua retorica e delle sue politiche tradizionaliste.

Proprio nell’idea di genitorialità risiede una delle grandi incoerenze della politica di genere russa. Costituzionalmente, infatti, uomini e donne hanno pari diritti nella Federazione, ma la politica per lungo tempo ha continuato a offrire varie forme di protezione sociale e bonus che riconoscevano il ruolo istituzionalizzato delle madri ma non quello dei padri, attribuendo alle prime maggiore responsabilità in ambito familiare.

Oggi, il congedo di maternità in Russia è uno dei più garantisti d’Europa. Al contrario, i padri in congedo parentale sono ancora una rarità (circa il 2%), sebbene oggi l’art. 256 del Codice del lavoro garantisca (non contemporaneamente) a entrambi i genitori un congedo per prendersi cura dei figli fino al compimento di 3 anni d’età.

L’invisibilità della paternità in Russia è un altro lascito dell’ideologia statale sovietica, che concepiva l’uomo come un potenziale soldato – “carne da cannone”, lo definisce la sociologa Anna Shadrina – pronto in qualsiasi momento a lasciare la sua famiglia e rinunciare alla vita per la madrepatria. Non è un caso se, nel 2002, Putin ha istituito come festa nazionale la cosiddetta “Festa dell’uomo” durante la Giornata del difensore della patria, il 23 febbraio: una ricorrenza di origine militare per commemorare la creazione dell’Armata Rossa nel 1918.

Nemmeno l’ambiente lavorativo risparmia discriminazioni nei confronti delle donne. Alcune sono state istituzionalizzate fin dall’era sovietica per “proteggere le loro funzioni riproduttive”. L’art. 253 del Codice del lavoro sostiene che «è vietato alle donne svolgere attività lavorative pesanti, pericolose e/o non salutari, nonché il lavoro sotterraneo, a esclusione del lavoro non fisico o dei servizi sanitari e domestici». A oggi, esiste una lista stilata dal governo di 456 professioni interdette alle donne per questo motivo.

Dopo il caso di Svetlana Medvedeva, nel 2016 la Corte Suprema russa ha riconosciuto questa norma come discriminatoria. La lista dei lavori vietati alle donne pertanto sarà ridotta a circa un centinaio a partire dal 2021.

Altre discriminazioni di genere nel mondo del lavoro, invece, sono una conseguenza implicita di un sistema che “valorizza” maggiormente il lavoro di cura svolto dalle donne rispetto a quello professionale, come del resto in altri Paesi europei. In Russia il divario salariale attualmente si attesta intorno al 30%.

La legge sull’aborto

Nel 1920, la Russia è stato il primo Paese al mondo a legalizzare l’aborto. Durante il regime stalinista venne di nuovo vietato, ma dalla sua reintroduzione nel 1955 si è affermato come una pratica estremamente diffusa e come un diritto fondamentale delle donne. Il picco massimo è stato raggiunto a metà degli anni Sessanta, con un tasso di 169 aborti per 1000 donne fra i 15 e i 49 anni. Negli anni Settanta, si stima vi fosse una media di circa 4-5 aborti per ogni donna in età riproduttiva.

La Legge sulla tutela della salute dei cittadini del 1993 comprende l’art. 36, che dichiara che «ogni donna ha il diritto di prendere una decisione indipendente sulla maternità». Lo stesso Putin, nel 2017, ha ribadito che si tratta di una «decisione che spetta alle donne» e che «qualsiasi tentativo di sopprimerlo spingerebbe la pratica “sottoterra”, causando immensi danni alla salute delle donne». Tuttavia, durante la sua presidenza, ha progressivamente applicato diverse restrizioni all’accesso all’aborto per ridurne l’incidenza, senza promuovere l’utilizzo della contraccezione.

Così, fra 1992 e 2017, il tasso di aborto è sceso più di 8 volte rispetto all’epoca sovietica. In parte per conseguenza delle politiche pronataliste dello Stato, in parte perché l’influenza della Chiesa ortodossa russa si è fatta sempre più forte all’interno delle frange conservatrici. Inoltre, dal crollo dell’URSS la Russia ha fatto significativi passi avanti per quanto riguarda la pianificazione familiare (anche se la sessualità rimane un grande tabù sociale).

Dal 2006 in particolare è iniziato quello che la demografa Victoria Sakevich definisce come il periodo “di regressione” per i diritti riproduttivi delle donne russe. Nel 2007, è stato ridotto l’elenco dei motivi medici per poterlo richiedere. Nel 2011 è stata introdotta la cosiddetta “settimana del silenzio”, un periodo di attesa variabile in cui la donna desiderosa di abortire deve sottoporsi a una consulenza psicologica e sociale che ha l’obiettivo di convincerla a portare a termine la gravidanza.

Nella stessa direzione, il governo nel 2012 ha reso lo stupro l’unico motivo sociale per l’aborto al secondo trimestre. Tra le 12 e le 22 settimane di gestazione, quindi, le donne non possono più abortire se non per questo, o per comprovati motivi di salute. Sempre nello stesso anno è stata introdotta l’obiezione di coscienza per il personale sanitario. Dal 2014 poi è vietato pubblicizzare l’aborto come servizio medico, mentre nel 2016 il ministero della Salute ha raccomandato agli operatori medici di mostrare alle donne che vogliono abortire l’ecografia e il battito cardiaco del feto.

La Chiesa ortodossa ha più volte chiesto l’esclusione della pratica abortiva dal piano di base dell’assicurazione medica obbligatoria – proposta che a oggi è stata discussa ma non si è concretizzata. Dal 2018, infatti, il tono dei dibattiti politici sull’aborto si è molto smorzato e numerosi progetti di legge di stampo conservatore sono stati respinti dalla Duma. La componente politica pro-scelta per quanto riguarda i diritti riproduttivi delle donne non è del tutto scomparsa in Russia.

La legge sulla violenza domestica

La Russia di Putin non ha una legislazione specifica per definire, prevenire o perseguire la violenza domestica. È un problema che nel Paese sta assumendo dimensioni catastrofiche, contro il quale molte attiviste per i diritti delle donne si battono da anni. Secondo una recente analisi di Mediazona su diverse migliaia di verdetti giudiziari, il 79% delle donne russe incarcerate per omicidio fra 2016 e 2018 aveva agito per difendersi da un partner violento.

A luglio 2019, la Corte europea dei diritti umani (CEDU) ha espresso una severa valutazione nei confronti dell’inclinazione del governo russo a tollerare «un clima favorevole alla violenza domestica». Nel febbraio 2017, infatti, Putin ha firmato la cosiddetta “legge dello schiaffo”: la violenza domestica che non causa gravi lesioni è punibile con una multa di 30.000 rubli (circa 328 euro) o 15 giorni di carcere; se è trascorso almeno un anno fra un’infrazione e l’altra, viene imposta solo l’ammenda pecuniaria, invece di una reclusione più prolungata. Inoltre, alla vittima viene generalmente offerta la possibilità di riconciliarsi con il proprio aggressore per «preservare le relazioni personali nella famiglia».

Alla fine del 2016, la discussione della legge in Parlamento era stata accompagnata da una campagna di propaganda sulla televisione di Stato che suggeriva che «gli uomini non devono essere ritenuti responsabili penalmente se picchiano accidentalmente le loro mogli, “per forte amore” o “nell’interesse dell’educazione dei figli”», spacciando l’idea che i bambini europei venissero regolarmente allontanati dalle famiglie dopo finte accuse di violenza domestica da parte di estranei.

Come riportato dal quotidiano russo Kommersant nel novembre 2019, il ministero della Giustizia ha affermato che «l’entità della violenza domestica in Russia è “esagerata”» e ha respinto la necessità di una legislazione separata. La preoccupazione principale del governo di Putin, anche dopo l’intervento della CEDU, rimane quella di salvaguardare l’unità e i valori della famiglia russa contro la “minaccia dell’Occidente”.

Eppure, in Russia disgregare le famiglie è una pratica relativamente facile a livello giuridico. Nel 2016, il tasso dei divorzi era più alto di quello dei matrimoni, e si stima che negli ultimi decenni più del 60% delle unioni si è conclusa con una separazione ufficiale. Secondo la sociologa Anna Shadrina, il problema della violenza domestica inizia qui, con il 70% dei padri divorziati che non paga gli alimenti per i propri figli. È la dipendenza economica che mantiene molte donne legate a mariti brutali, assieme alla scarsa tutela legale.

Nel 2019 la deputata Oksana Pushkina ha presentato alla Duma un nuovo disegno di legge per salvaguardare concretamente la sicurezza e i diritti delle donne, e aiutarle a uscire dalla violenza. Tuttavia, l’opposizione (soprattutto quella della Chiesa ortodossa) rimane forte e la proposta si trova in una situazione di stallo, da cui sembra improbabile riuscirà a sbloccarsi.

Conclusioni

Il ventennio di Putin finora è stato caratterizzato da un graduale declassamento dei diritti delle donne fra le priorità statali e da una relativa inerzia in materia di uguaglianza di genere – se non da una vera e propria regressione.

Tuttavia, parte dell’eredità sovietica è rimasta, insieme alle sue contraddizioni: le donne sono considerate un gruppo emancipato e, allo stesso tempo, bisognoso di una speciale protezione da parte dello Stato in virtù del loro ruolo di madri.

Per realizzare il proprio obiettivo di riportare la Russia allo stato di superpotenza mondiale, Putin si appella alla maggioranza nazionalista e conservatrice della sua base elettorale con una retorica costruita su stereotipi di genere e “valori tradizionali”.

Il risultato del rapporto causale tra questo discorso politico sul genere e il contenuto della politica che riguarda le donne, si estrinseca oggi in una società patriarcale, asimmetrica ed eteronormativa. Dove gli uomini devono aderire al modello di uomo “forte e capofamiglia”, le donne sono madri e la comunità LGBT+ non trova nessun riconoscimento.

 

Fonti e approfondimenti

Andrea Chandler, “Gender, Political Discourse and Social Welfare in Russia: Three Case Studies”, Canadian Slavonic Papers/Revue canadienne des slavistes, Vol. LI, No. 1, Mar 2009.

Nikolay Shevchenko, “Why do Russian couples divorce so often?“, Russia Beyond, 03/05/18.

Victoria Sakevich & Maria Lipman, “Abortion in Russia: How Has the Situation Changed Sinced the Soviet Era?“, PONARS Eurasia, 12/02/19.

Alexei Levinson, “Who’s to Blame for Gender Stereotypes in Russia?“, The Moscow Times, 07/03/19.

Francesca Ebel, “In Russia, gender equality still a long way off“, AP, 08/03/19.

Anna Sorokina, “In Russia, only 2 men out of 100 take ‘maternity’ leave. And we found them“, Russia Beyond, 16/07/19.

Matthew Luxmoore, “How the killing of an abusive father by his daughters fuelled Russia’s culture wars“, The Guardian, 10/03/20.

Samantha Berkhead, “Russian Women Are Ready to Reclaim Once-Forbibbed Jobs“, The Moscow Times, 06/03/20.

Elena Vasilyeva, “Anna Shadrina: “The Gender Policy Broadcast by the Power of Vladimir Putin Glorifies Aggression“, ReForum, 01/04/20.

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