La piramide del potere comunista cinese: il mondo e il Partito tra sinofobia e sinofilia

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Siamo giunti all’appuntamento conclusivo del progetto dedicato al Partito comunista cinese, cuore pulsante della politica interna della Repubblica Popolare. Dopo averne analizzato i meccanismi interni, gli strumenti di cui si serve e la percezione che il popolo cinese ha del PCC, ci soffermiamo ora sulla sua percezione a livello internazionale.

L’immagine della Cina nel mondo è modellata sulla politica interna adottata dal PCC. In tal senso, il Partito si pone in modo ambivalente: autoritario nei confini interni, aperto e favorevole alla coesistenza pacifica a livello internazionale. Nel corso degli anni, la percezione estera del Grande Dragone ha oscillato tra periodi di sinofobia e sinofilia. Di recente, il diffondersi della pandemia ha contribuito a una nuova ondata di sinofobia nel mondo occidentale.

Il secolo dell’umiliazione nazionale

Fino alla prima metà dell’Ottocento, la Cina godeva di fama internazionale per la sua cultura, l’economia e l’apparato politico-amministrativo. Il sentimento anti-cinese moderno risale alla fine del secolo, un periodo caratterizzato dalle Guerre dell’Oppio tra Impero britannico e Cina e dalle ambizioni coloniali delle potenze occidentali. La Cina dell’Ottocento cominciò allora a essere identificata come vittima delle potenze straniere, che cercavano di spartirsi al meglio il suo vasto territorio. La brama imperialista è ben raffigurata da una caricatura che apparve su Le Petit Journal nel 1898.

Dal canto suo, la Cina non ha mai voluto imporsi come esportatrice di un modello universale. Forse per l’influenza del concetto di “Paese di Mezzo” (中国 zhongguo centro + paese), la Cina ha sempre considerato i Paesi vicini della regione asiatica come suoi tributari, mentre la periferia del mondo come curiosi fruitori del “modello cinese”. In Lo Scontro delle Civiltà, Huntington sostiene che in materia di politica estera la Cina agisca guidata da un senso di rivalsa, con l’obiettivo di non essere più soggiogata dalle potenze straniere.

 

Il regime di Mao e la Teoria dei tre mondi

Dopo le continue umiliazioni e guerre civili, il PCC usa il senso di riscatto e l’idea di ripristinare la grandezza perduta come mezzi per legittimare il suo potere. Nonostante il trionfo del 1949, infatti, l’immagine della Cina in Occidente continuava a essere quella di un Paese ostile, povero e sottosviluppato. Nel mondo del secondo dopoguerra, conteso tra due blocchi contrapposti, la Cina si rivolge inizialmente all’alleato più affine politicamente: l’URSS. Tuttavia, l’alleanza sino-sovietica non è priva di contrasti. I rapporti si sarebbero raffreddati negli anni Sessanta, proseguendo con ritmo altalenante fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1989.

La mancanza di un alleato internazionale porta Mao Zedong all’elaborazione della Teoria dei tre mondi”. La teoria identifica tre tipologie di mondo, classificando le nazioni in base alla loro pretese egemoniche. Al primo mondo appartengono USA e URSS, al secondo i Paesi occidentali più sviluppati. La Cina e i Paesi colonizzati invece, data la condizione totalmente opposta alle superpotenze, appartengono al terzo mondo. In questo modo, la Cina trovava sostegno nei Paesi che condividevano lo stesso sentimento anti-coloniale e la presenza di una superpotenza egemone.

 

Politica di basso profilo

Con Deng Xiaoping al potere, la Cina si apre all’Occidente e sembra pronta a lasciarsi alle spalle la considerazione di Paese in condizioni di arretratezza. L’avvio delle riforme economiche, infatti, contribuisce all’integrazione della Cina nel mercato internazionale. La linea adottata da Deng è quella di una politica di basso profilo e del mantenimento della pace secondo “i cinque principi della coesistenza pacifica”: il rispetto dell’identità territoriale e della sovranità statale degli altri Paesi, il principio di non aggressione militare, la reciproca non interferenza negli affari interni, l’uguaglianza e il mutuo vantaggio e per l’appunto, la coesistenza pacifica. Secondo la cosiddetta “strategia dei 24 caratteri”, teorizzata sempre da Deng Xiaoping, bisogna agire senza contrastare direttamente l’egemonia statunitense e nascondere le proprie capacità fino al momento opportuno.

I segnali di modernizzazione, l’istituzione delle Zone Economiche Speciali per accogliere capitale estero e conoscenza tecnico-scientifica, la normalizzazione dei rapporti con gli USA sono tutte testimonianze della volontà di uscire dall’isolamento internazionale. In tal senso, un successo storico è la sostituzione di Taiwan con la Cina all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazioni Unite nel 1971.

 

Ascesa Pacifica e Soft power

Nel 1989, le proteste di Piazza Tiananmen determinano un ritorno della visione negativa nei confronti del PCC. La negazione dei diritti umani e la violenta repressione delle rivolte deteriorano l’immagine della Cina come attore affidabile e trasparente.

La costruzione del consenso a livello internazionale arriva attraverso un forte impegno diplomatico e la partecipazione attiva nelle istituzioni internazionali. Nel corso degli anni Novanta la politica estera cinese diventa più pro-attiva, mantenendo sempre un atteggiamento pacifico e favorevole alla cooperazione. Sotto la leadership di Hu Jintao, il concetto di soft power cinese diventa ufficialmente parte del programma per la costruzione di una “società moderatamente prospera”. Il proliferare di Istituti Confucio in giro per il mondo ne rappresenta solo un esempio.

 

Xi Jinping: il nuovo imperatore

L’ascesa di Xi Jinping non passa certo inosservata nel mondo occidentale, soprattutto per il ruolo che ormai la Cina occupa sulla scena internazionale. Il pragmatismo adottato da Deng sembra svanire con Xi Jinping. Nel 2014, in occasione della “Conferenza di lavoro sulle relazioni internazionali”, Xi sottolinea l’idea di una comunità di interessi comuni per l’Asia e rivendica un ruolo più attivo della Cina nel mondo globalizzato. Dopo un lungo periodo in cui la Cina non veniva considerata una minaccia, l’Occidente ora comincia a temerla. La Cina ha smesso di essere vista come la fabbrica del mondo, per diventare una potenza economica a tutti gli effetti: è di nuovo il nemico, è antidemocratica, guidata da un partito autoritario e poco trasparente.

 

La nuova via della seta, nuovo imperialismo?

L’ambizioso piano infrastrutturale della leadership cinese, la Belt and Road Initiative (BRI), è stato interpretato come una nuova forma di imperialismo cinese. Lo stesso utilizzo del nome “Nuova Via della Seta” richiama il sentimento di restaurazione della gloria passata. Per altri, tuttavia, rappresenta qualcosa di differente: una globalizzazione con caratteristiche cinesi.

Il progetto viene presentato come una cooperazione pacifica, senza scopi egemonici e vantaggiosa sia per la Cina che per i Paesi coinvolti. Il progetto si traduce in aiuti economici e progetti infrastrutturali, oltre a investimenti in un altro settore strategico: le telecomunicazioni. A tal proposito, le reti di telecomunicazioni cinesi che vengono installate in Africa o America Latina sono un altro strumento per rafforzare la presenza del PCC in quei territori.

La BRI è in questo senso un’arma a doppio taglio. Gli investimenti sono sicuramente un aiuto per i Paesi in difficoltà economica, ma la vera ambizione del PCC è utilizzare questi incentivi come proxy per assicurarsi l’accesso a territori d’importanza strategica e rafforzare la sua presenza politico-militare.

 

Cina come nuova superpotenza?

Nel mondo accademico si è ampiamente discusso della Cina come di una potenza revisionista, che punta a rimodulare gli equilibri internazionali plasmandoli a suo piacere. Allo stesso tempo, l’attivismo in politica estera non costituisce necessariamente una sfida per il cambiamento dello status quo. Il presidente Xi Jinping, sin dalla sua elezione, ha voluto dare una nuova immagine della propria nazione. Ne sono testimonianza la ricostruzione di istituzioni nazionali di politica estera e di sicurezza, il rafforzamento dell’Esercito Popolare di Liberazione e il carisma del presidente stesso.

Tuttavia, per essere una grande potenza mondiale, la Cina ha ancora da affrontare molte problematiche interne. La questione di Taiwan resta ancora irrisolta, mentre non sono ancora certi gli effetti sulla comunità internazionale della recente approvazione della legge per la sicurezza nazionale a Hong Kong. Inoltre, la povertà e le disuguaglianze sociali sono ancora all’ordine del giorno nel Paese.

È necessario precisare, però, che ci sono dei punti sui quali il PCC non è disposto a cedere nella sua apertura al mondo. Tra questi aspetti non negoziabili ci sono il rispetto della sicurezza nazionale, la stabilità interna e l’intangibilità del sistema Partito-Stato, la sovranità statale, l’integrità territoriale e la riunificazione nazionale e infine, una crescita economica sostenibile sul piano ambientale.

La pandemia ha portato al ritorno generalizzato di una certa sinofobia, in contrapposizione alle ambizioni del nuovo leader cinese. Ciononostante, la Cina è stata una potenza economica, culturale e politica sin dall’antichità. Il ritorno di quel passato glorioso fa parte delle linee guida del PCC e lentamente, l’obiettivo resta quello di restaurarlo anche sullo scenario internazionale. 

 

 

Fonti e approfondimenti

Anastas Vangeli, “China’s Engagement with the Sixteen Countries of Central, East and Southeast Europe under the Belt and Road Initiative”, China & World Economy, 101–124, Vol. 25, No. 5, 2017

Barbara Onnis, “La Cina nelle Relazioni Internazionali: dalle guerre dell’oppio a oggi”, Carocci Editore, 2011

Giada Messetti, “Nella testa del dragone. Identità e ambizioni della nuova Cina”, Mondadori, 2020

Giovanni B. Andornino, La politica estera di Pechino alla prova della complessità”, OrizzonteCina, Ottobre 2012

Kerry Brown, “The Insider”, Foreign Policy, 12 febbraio 2012 

Samuel P. Huntington, “The Clash of Civilizations?: The Debate”, Foreign Affairs, New York, 1996

Simone Pieranni, “Cina Globale”, Manifestolibri, 2017

 

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