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Ricorda 1870: la presa di Roma

Ricorda 1870

@MartaBellavia

Con la presa di Roma, il 20 settembre 1870, si concludeva l’epopea del Risorgimento italiano. Questa data è un momento chiave della storia europea perché segna, oltre all’ultima tappa dell’unificazione italiana, anche la fine del potere temporale dello Stato pontificio e dell’influenza papale sul destino dell’Europa.

Premesse

Dopo la morte di Camillo Benso conte di Cavour, il 6 giugno del 1861, il Regno d’Italia perdeva la guida che l’aveva condotto verso l’Unità. L’assenza della sua visione unitaria e della sua competenza politica lasciarono il governo italiano in una situazione di incertezza e instabilità. L’Italia non era ancora del tutto unita: Veneto, Trentino e, soprattutto, Roma mancavano all’appello. Il Meridione era un focolaio di rivolte, a causa dell’aumento delle tasse per risanare le spese delle guerre d’indipendenza e dell’introduzione della leva obbligatoria. Inoltre, lo spirito repubblicano dei volontari garibaldini e dei mazziniani preoccupava i politici piemontesi, consapevoli del carisma di Garibaldi e terrorizzati dalla possibilità di moti rivoluzionari anti-monarchici. In questo contesto, quindi, la presa di Roma dipendeva da numerosi fattori e contingenze, che convinsero i governi italiani a temporeggiare fino al 1870. I fattori che analizzeremo sono i legami diplomatici con il Secondo impero francese, il timore della figura di Garibaldi, i primordi della questione meridionale e l’intrinseco cattolicesimo del governo e dei reali italiani.

I legami diplomatici

Il primo fattore riguardava i legami diplomatici con la Francia. Napoleone III era stato l’alleato fondamentale di Cavour nel corso della Seconda guerra d’indipendenza. Solo grazie al suo non interventismo l’esercito sabaudo era riuscito a conquistare le legazioni pontificie di Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Marche e Abruzzo e solo grazie alla sua forza militare la guerra contro l’Austria era stata vinta e la Lombardia ceduta ai Savoia, a seguito dei trattati di Villafranca. Inoltre, per garantirsi il sostegno dei cattolici francesi, Napoleone III assunse il ruolo di protettore del papa: in questo modo, il Regno d’Italia non avrebbe potuto attaccare Roma senza inimicarsi la Francia e rischiare una guerra contro il potente alleato.

Garibaldi

Il secondo problema riguardava la presenza di Giuseppe Garibaldi e del suo esercito di volontari nel Meridione. Nonostante la sua dimostrata fedeltà alla causa unitaria, i regnanti piemontesi ne temevano il carisma e l’influenza che esercitava sugli italiani. Per questo, ben due volte, i Savoia fermarono lo fermarono nella sua marcia verso la conquista di Roma. La prima nel 1862, quando la riluttanza del governo nel dichiarare guerra al papato convinse Garibaldi a tentare una prima avanzata verso il Lazio. L’esercito regio attaccò lui e i suoi volontari in Aspromonte e solo il suo ordine di non rispondere al fuoco impedì l’inizio di una guerra civile. A seguito di questa vicenda, nel 1864, il Regno d’Italia e il Secondo impero francese strinsero la convenzione franco-italiana, nella quale i Savoia si impegnarono a rispettare il “patrimonio di San Pietro”, cioè di non attaccare Roma e il Lazio, e i francesi a ritirare le proprie truppe dallo Stato Pontificio.

La vicenda si ripeté quasi allo stesso modo nel 1867. A seguito della guerra austro-prussiana, con la sconfitta degli Asburgo a Sadowa nel 1866, l’Italia riuscì ad annettere il Veneto e parte del Friuli, nonostante il suo irrisorio contributo al conflitto. Così, la chiusura del fronte nord-orientale convinse il governo italiano a fornire segretamente fondi e armamenti a Garibaldi per attaccare Roma. La notizia della nuova spedizione garibaldina, però, arrivò presto alla corte francese e Napoleone III, per evitare una crisi politica interna con le fazioni cattoliche, ordinò lo sbarco di un corpo di spedizione francese a Civitavecchia, per difendere il papato dai volontari. A questo punto, saputo della mobilitazione francese, il re Vittorio Emanuele II condannò la spedizione garibaldina, declinando ogni tipo di coinvolgimento del Regno d’Italia nell’organizzazione della spedizione. Così, lasciato nuovamente solo, Garibaldi venne sconfitto dalle truppe franco-pontificie a Mentana, alle porte di Roma. Questo avvenimento contribuì a inasprire i rapporti tra i più forti sostenitori dell’unificazione nazionale e Napoleone III e a gettare le basi per la campagna del 1870.

Questione meridionale

Terzo fattore fu la necessità di impiegare diversi corpi d’armata nel Meridione, per sedare i moti insurrezionalisti e di brigantaggio che attraversarono quelle terre negli anni post unitari. Prima l’imposizione della leva obbligatoria, mai istituita dai Borboni nel Regno delle Due Sicilie, e poi la svalutazione della moneta e l’introduzione della tassa sul macinato, causarono violente rivolte e costrinsero i Savoia a dirottare una consistente parte delle loro forze militari al Sud per mantenere il controllo dei territori appena annessi.

Il cattolicesimo

In ultimo, il governo italiano e gli stessi reali erano innegabilmente di fede cattolica e fino all’ultimo tentarono una risoluzione diplomatica della questione romana. Fino alla vigilia del 20 settembre 1870, gli ambasciatori del Regno tentarono di convincere Pio IX a cedere Roma e il Lazio senza combattimenti e solo il totale rifiuto del papa a qualunque resa pacifica portò finalmente alla battaglia.

Preparativi

I preparativi della presa di Roma cominciarono all’alba dello scoppio della guerra franco-prussiana del 19 luglio 1870. I dispacci dell’archivio militare del IV corpo d’esercito italiano riportano l’inizio della fase di sorveglianza delle frontiere pontificie il 26 luglio 1870. Questa mossa era volta a controllare i movimenti delle truppe francesi, rimaste di stanza nel Lazio dal 1867, al fine di evitare contrasti con Napoleone III e verificare la superiorità numerica delle truppe italiane. Il 15 agosto, consapevole delle numerose sconfitte inflitte dai prussiani ai francesi, il Primo ministro Giovanni Lanza nominava Raffaele Cadorna comandante del neonato “corpo di osservazione nell’Italia centrale”, poi IV corpo d’esercito, di stanza a Spoleto. Nelle settimane successive, il governo italiano restò in attesa per verificare l’esito della guerra franco-prussiana, pronti ad agire in caso di sconfitta francese. Nel frattempo, tra il 29 agosto e il 10 settembre, il ministro degli Esteri Visconti Venosta inviava una missiva a tutti i rappresentanti dei governi europei, spiegando le garanzie di autonomia che l’Italia avrebbe assicurato al pontefice in caso di annessione pacifica, in risposta alla quale tutti i governi convennero sulla ragionevolezza delle richieste italiane. Fu quindi il tenace rifiuto di ogni compromesso da parte di Pio IX che convinse i governanti europei a non intervenire in sua difesa, lasciando campo libero all’azione militare italiana.

La presa di Roma

Così, otto giorni dopo la sconfitta di Sedan e l’arresto di Napoleone III, il 10 settembre 1870 Lanza ordinava di attraversare il confine laziale. Dopo aver incontrato poca o nessuna resistenza fino a Roma, all’alba del 20 settembre 1870 incominciarono i cannoneggiamenti delle mura pontificie. La battaglia per la presa di Roma veniva combattuta solo simbolicamente: non si contarono più di settanta morti tra entrambi gli schieramenti. Fu solo a causa della caparbietà del Papa di voler asserire la sua contrarietà all’annessione che si persero quelle settanta vite. Alle ventitré dello stesso giorno, i reggimenti italiani entravano vittoriosi nella città capitolina, dopo lo sfondamento di Porta Pia e la resa ordinata dal comandante pontificio Kanzler.

Si concludeva così il Risorgimento italiano. Roma era presa, dopo anni di tentennamenti, indecisioni e dietro front. Il Regno d’Italia si era formato, grazie alla capacità dei suoi uomini politici di sfruttare i dissidi dell’epoca tra le grandi potenze europee. Come disse il cancelliere tedesco Otto Von Bismarck: “Voi italiani siete il popolo delle tre S: Solferino, Sadowa e Sedan. Nessuna delle tre S l’avete fatta voi”. Questa frase sintetizza il sentire europeo nei confronti del nuovo regno, visto come uno Stato opportunista, incapace militarmente e guidato da élite deboli e incerte. Però, gli equilibri europei si erano ormai rivoluzionati: l’impero Asburgico era fortemente ridimensionato, mentre la nuova Germania assumeva il suo ruolo di potenza egemone sotto la guida del cancelliere Bismarck. Il Secondo impero francese era tramontato, trasformandosi definitivamente in Repubblica e riducendo consistentemente la sua influenza sull’Europa. L’Italia diventava la “più piccola delle grandi potenze e la più grande delle piccole”.

La fine del ruolo del pontefice in Europa

Come già detto, però, l’evento fondamentale sancito dalla presa di Roma fu la fine dell’epoca in cui l’autorità papale era stata decisiva per la storia internazionale dell’Europa. La Chiesa non era stata in grado di adattarsi al mondo moderno risultato dalle rivoluzioni sette-ottocentesche, diventando sempre più marginale sia nel campo sociale che nel contesto internazionale. Lo “ius publicum europaeum” si era liberato dalle pastoie religiose e l’affermazione degli Stati liberali aveva portato alla fine della cristianità tradizionale. Dopo più di mille anni di egemonia spirituale e diplomatica, il pontefice perdeva la sua autorevolezza di guida spirituale del mondo cristiano e la sua autorità come capo di Stato.

 

Fonti e approfondimenti

Formigoni G. (2006), Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, Bologna, il Mulino

Cammarano F. (2009), Storia Contemporanea dal XIX al XXI secolo, Milano, Mondadori

Tuer Bury J. P. a cura di (1970), Storia del mondo moderno, Milano, Garzanti

Gueze R. a cura di (1970), Gli archivi del IV corpo d’esercito e di Roma capitale, Roma, Ministro dell’Interno

 

Grafica: Marta Bellavia – Instagram: illustrazioninutili_

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