Il caos è l’unica eredità di Trump in politica estera

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Copertina di Riccardo Barelli.

Dean Acheson, segretario di Stato di Harry Truman, intitolò “Present at the Creation” le sue memorie sulla politica estera del successore di Roosvelt, sottolineando come Truman avesse di fatto plasmato il presente e il futuro nei suoi anni da presidente. Richard Haas mise in evidenza come, nonostante si potesse non essere d’accordo con le modalità, fosse innegabile quanto la presidenza Truman avesse influenzato la politica estera in senso costruttivo come poche altre al mondo. Durante il mandato erano state create e attivate le più grandi organizzazioni internazionali, dalle Nazioni Unite alla World Bank, ed erano state poste le basi per la ricostruzione delle alleanze con la Germania scevra dal nazismo e con il Giappone post-bellico, senza dimenticare il Piano Marshall e i vari percorsi di ricostruzione in varie aree del mondo.

C’è da chiedersi, però, perché parlare di Truman alla fine dei primi quattro anni della presidenza Trump. La risposta è abbastanza facile dato che, forse, le due presidenze sono esattamente l’una l’opposto dell’altra. Se, infatti, le memorie di Acheson furono chiamate “Present at the Creation”, quelle del segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo, potrebbero essere denominate “Present at the Disruption”, come suggerisce sempre Richard Haas su Foreign Affairs, per non dire “Present at the Destruction”.

Una nuova errata visione

Trump, negli ultimi quattro anni, ha passato larga parte del tempo a distruggere quello che la politica estera statunitense è stata negli ultimi due decenni, a partire dalla fine della guerra fredda. Il presidente all’indomani dell’inaugurazione si era, infatti, trovato davanti una politica estera magari imperfetta e lacunosa sotto molti punti di vista, ma sicuramente stabile e razionale, che riusciva ancora a garantire il ruolo di egemone, o quasi, agli USA in ogni quadrante del mondo. Tuttavia, la visione di Trump al riguardo era molto diversa.

Il presidente ha sempre visto la politica estera come un costoso passatempo che andava ridotto nella spesa e reso più efficiente per garantire il raggiungimento degli immediati interessi statunitensi. L’immaginario non è quello dello statista ma quello del venture capitalist, che azzecca gli investimenti giusti e li sfrutta più che può per poi abbandonarli. Questo può rendere se si parla di start up, ma non può valere per gli Stati Uniti, i quali, essendo la potenza egemone mondiale, non possono tirarsi indietro una volta raggiunto un piccolo margine di guadagno.

La visione di lungo termine, invece, nell’immaginario trumpiano è più un impedimento che una visione strategica. Il risultato deve essere immediato e massiccio, oppure, nella logica dei costi e benefici, non è valido. Una politica estera che prevede guadagni a più di cinque anni o, anche, a più di dieci anni non è utile a portare acqua al mulino personale del presidente ed è, anzi, fallimentare.

Le relazioni con le Coree e quelle con i Paesi del Golfo sono forse il più lampante degli esempi di questa impazienza strategica inevitabilmente indirizzata verso la disfatta. Appena arrivato alla Casa Bianca, Trump ha annullato delle esercitazioni tra l’esercito americano e le forze sud coreane per l’eccessivo peso che potevano avere sul bilancio del Pentagono. Il mancato svolgimento di quelle esercitazioni ha creato a Seul uno stato di apprensione per un possibile segno di abbandono di Washington. Questo terrore si è concretizzato in una breve ma intensa corsa agli armamenti che ha messo in stato di allerta la Corea del Nord, la quale ha poi reagito mostrando i muscoli. Una vicenda che termina con il famoso tweet di Trump su Kim Jong Un come “ragazzino bomba”. La situazione ha toccato livelli di tensione, risolta grazie all’opera diplomatica di Moon Jae Inn, il quale è riuscito a trasformare la disfatta in una vittoria organizzando il famoso incontro tra Kim e il presidente Trump. L’impazienza strategica però è tornata subito con il presidente voglioso di avere risultati immediati, atteggiamento che ha minato duramente i negoziati tra USA e Nord Corea, che adesso sembrano di nuovo essere al punto di partenza.

Se la vicenda coreana è un emblema dell’impazienza e viene salvata da un primo ministro coreano assolutamente lungimirante, la situazione mediorientale, in particolare quella del Golfo, ci mostra cosa può fare una presidenza dedita alla distruzione e al guadagno immediato in un quadrante privo di leadership lungimiranti. Quando i paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati, guidati da Mohammed Bin Salman, decisero di aprire un fronte interno contro il Qatar per le inaccettabili amicizie quatariote con Turchi e Iraniani, Trump appoggiò subito l’idea davanti alle promesse di Ryad e Abu Dhabi. Il presidente, nonostante fosse stato mal consigliato dai suoi consulenti, non sentì ragioni e diede l’ok ai regnanti di casa Saud senza però pensare alle conseguenze. A partire da quell’evento tutto il Medio Oriente ha visto un peggioramento generale dei suoi equilibri.

La Turchia, che sembrava un Paese in grandissima crisi, è riuscita a rialzarsi garantendo i suoi pretoriani agli emiri del Qatar e ricevendo in cambio i finanziamenti così fondamentali all’espansionismo di Erdogan. Gli Stati Uniti hanno perso il canale di dialogo verso le colombe iraniane che passava proprio dal Qatar, le quali trovandosi isolate, hanno lasciato ancora di più il passo ai falchi. Sauditi e emirati non hanno garantito quei benefici che avevano promesso, anzi, hanno peggiorato la situazione in Yemen, Iraq e Palestina e Trump non è riuscito a ottenere niente se non vacue promesse.

Una politica estera di promesse e annunci

Proprio le promesse sono forse la cifra storica più importante dell’amministrazione Trump; a partire dall’accordo del Secolo che il genero di Trump, Jerad Kushner, ha sventolato per tre anni senza poi riuscire a ottenere niente, se non un unilaterale spostamento della capitale israeliana a Gerusalemme e un’accelerazione sull’annessione della Cisgiordania. Lo stesso sta succedendo adesso con l’accordo di pace tra Emirati Arabi e Israele: l’annuncio c’è stato ma l’accordo è tutto fuorché vicino, con le parti che si riuniscono senza però arrivare a passi avanti. Lo spot del volo aereo tra Gerusalemme e Abu Dhabi è rimasto più un gesto nel vuoto seguito da contratti firmati, i quali erano già presenti di nascosto prima.

Spot elettorali e annunci sono utili alla comunicazione, ma non aiutano le prospettive di lungo periodo. Un esempio chiaro di questo meccanismo è legato alle relazioni con i partner europei o con la NATO. Cercare di ottenere qualcosa nell’immediato da storici alleati o partner stabili rispetta la teoria di Trump di essere aggressivo e prendere per lo scalpo tutti, ma sembra non essere così produttiva sul lungo termine. Nadia Schadlow, che ha servito sotto Trump come vice consigliere alla Sicurezza Nazionale con John Bolton, afferma che il presidente ha solo chiuso il periodo delle illusioni e riportato gli Stati Uniti nella dinamica realista che vede il mondo come una costante lotta di tutti contro tutti. Questa retorica del mondo aggressivo però non sembra darle ragione, dato che gli Stati Uniti riportati alla luce da Trump sembrano essere solamente più isolati, più deboli e più in arretramento rispetto alla fine dell’amministrazione Obama.

Trump aveva annunciato di riportare gli Stati Uniti alla grandezza del passato, ma è evidente come il soft e l’hard power di Washington siano in ritirata su tutti gli scenari. La Cina non è mai stata così aggressiva, la Russia mai così indomita e anche potenze minori come Turchia e Iran si permettono di compiere azioni impensabili nell’era di Obama. Allo stesso tempo, la credibilità statunitense è ai minimi storici, dopo che il presidente ha varie volte accoltellato i propri partner alla spalle. Questa strategia non sembra aver pagato, indebolendo ancora di più gli Stati Uniti.

La politica estera di Trump verrà ricordata per il caos che ha creato più che per i risultati che ha raggiunto. La domanda che ora emerge riguarda proprio la natura di questa fase: sarà un’aberrazione temporanea che si dissolverà al finire del mandato o questa assenza di visione continuerà in un secondo mandato di Trump?

Se i quattro anni di Trump dovessero chiudersi con la sconfitta del presidente si aprirà la prospettiva di un’eventuale primo mandato di Joe Biden. Riporterà la barca sulla vecchia rotta, incurante delle difficoltà della politica estera pre-Trump, oppure si aprirà una nuova fase di multilateralismo e allargamento dell’universo occidentale? Risposte queste a cui solo a partire dal post election day potremo cercare di rispondere.

 

Fonti e approfondimenti

Timeline, Trump’s Foreign Policy Moments,2017 – 2020

MacMillan M., Which Past Is Prologue?, Foreign Affairs, September/October 2020

Haas R., Present at the Disruption, Foreign Affairs, September/October 2020

Schadlow N., The End of American Illusion, Foreign Affairs, September/October 2020

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