Il personaggio dell’anno: Saad Hariri

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Grafica di Valerio Angiolillo

Il Libano è senza un governo e nel mezzo dell’ennesima impasse. Saad Hariri è stato chiamato, a ottobre, a ricoprire la carica di Primo ministro e a cercare di ricomporre la frammentata scena politica. Il compito è reso tanto più arduo dall’urgenza di trovare una soluzione al collasso economico che, da mesi, sta mettendo in ginocchio gran parte del popolo libanese; senza contare i danni causati dalla pandemia da Covid-19, i costi di ricostruzione dopo l’esplosione del 4 agosto e la precarietà del contesto regionale che continua a ripercuotersi sul Paese dei cedri.

Saad non è certo un novellino, ma se sarà all’altezza delle responsabilità che lo attendono è tutto da vedere. In dieci anni, infatti, è la quarta volta che il rampollo della facoltosa famiglia libanese assume la premiership e le precedenti tre non sono finite bene. Hariri è stato sistematicamente scalzato dalla posizione senza troppa gloria e senza aver mai lasciato un’impronta significativa del suo passaggio. È pur vero che per il miliardario libanese la vita politica, più che una vocazione, è stata una scelta obbligata, dettata dalla necessità di colmare il vuoto lasciato nel 2005 dall’ingombrante figura paterna: Rafik Hariri.

La dinastia Hariri da padre a figlio

Sebbene il piccolo Paese mediorientale sia per molti aspetti diverso dagli autoritari vicini arabi, la democrazia consociativa che lo contraddistingue ha dei tratti dinastici che richiamano quelli presenti in altre realtà regionali. L’interconnessione tra capitale politico ed economico ha favorito la concentrazione di una grande influenza nelle mani di poche famiglie, permettendo loro di costruire un ampio seguito su base locale e confessionale e un’estesa rete di conoscenze di alto rango nell’arena internazionale.

La famiglia Hariri fa parte di quelle emerse nel boom del dopoguerra, cavalcando l’onda della ripresa economica e, soprattutto, della speculazione immobiliare degli anni Novanta. Hariri padre, o “Mister Libano”, come era chiamato da molti, era originario di Sidone, Libano meridionale, e figlio di un contadino sunnita. Abbandonati gli studi di contabilità all’Università di Beirut, il giovane Hariri, come molti coetanei, espatriò alla volta dell’Arabia Saudita, in cerca di fortuna. Qui fondò una società di costruzioni, Saudi Oger, e riuscì presto a guadagnare la stima della famiglia regnante saudita.

Nel nuovo ruolo di ricco uomo d’affari, Hariri tornò in Libano e decise di investire dapprima nella riqualificazione urbana di Sidone e, dunque, in quella nazionale, sostenendo nel frattempo anche un’ampia gamma di progetti filantropici. A partire dal 1982, inoltre, il suo coinvolgimento nel processo di risoluzione della guerra civile divenne sempre più aperto, contribuendo a renderlo una figura pubblica carismatica e di spicco. Nel 1992, il Movimento il Futuro (al-Mustaqbal), da lui fondato nello stesso anno, vinse le elezioni e Rafik fu nominato Primo ministro. Da allora, Hariri divenne uno dei principali sponsor della ricostruzione di Beirut, inserendosi allo stesso tempo in altri settori, dai media alle banche. Per un decennio è rimasto sotto i riflettori, tanto più nel momento del suo assassinio, che ha aperto la strada alla polarizzazione del Paese tra le coalizioni dell’8 e del 14 marzo.

Fino a quel momento Saad, nato nel 1970, in Arabia Saudita, dal primo matrimonio di Hariri, era rimasto lontano dalla politica e aveva trascorso poco tempo in Libano, dedicandosi, dopo gli studi a Washington, a coltivare l’impero economico del padre nel Paese del Golfo. La sua ascesa a erede politico venne sancita nell’aprile 2005, quando la famiglia al completo annunciò che egli avrebbe assunto “la responsabilità storica di leadership politica”. La decisione fu accolta con favore da importanti esponenti della società libanese, come il leader druso Walid Jumblatt, e internazionali, in primis l’allora principe ereditario saudita Abdullah e il presidente francese Chirac.

Verso un governo Hariri 4.0 nel 2021?

Una delle caratteristiche che Saad ha mutuato dal padre è il discorso religioso moderato e un approccio conciliante con l’intento di posizionarsi al centro del caotico spettro di affiliazioni religiose su cui è fondato il sistema istituzionalizzato dagli accordi di Ta’if. Durante il suo primo mandato da premier, dal 2009 al 2011, Saad riuscì a formare un governo di coalizione che includesse la maggior parte delle forze politiche. Allo stesso modo, nel 2016, dopo quattro anni trascorsi all’estero, Hariri tornò alla ribalta della scena politica libanese e accettò di supportare il neoeletto presidente Michel Aoun, benché alleato di Hezbolla, e di mettere insieme un governo di intesa. 

Al momento sono in corso altrettanto complicate trattative per formare un governo che subentri a quello dell’ex Primo ministro Hassan Diab, accusato di negligenza nell’ambito delle indagini per l’esplosione del 4 agosto; sullo sfondo, tra l’altro, del verdetto emesso ad agosto dal Tribunale speciale per il Libano, a condanna di un membro di Hezbollah per l’assassinio di Hariri. Tuttavia, il ritorno di Saad si pone in contrapposizione alle richieste dei manifestanti che ne avevano causato le dimissioni a ottobre scorso e segna l’assenza di cambiamento in una classe politica che rimane appannaggio di un’oligarchia percepita come corrotta e causa degli attuali problemi economici del Libano.

Proprio la necessità di assicurare gli aiuti necessari a risollevare il Paese potrebbe aver giocato a favore della scelta di Hariri come premier, considerandone la vicinanza a Parigi e Riad. La permeabilità del Paese ai giochi di potere nello scacchiere regionale si è però rivelata pericolosa in più di un’occasione e Hariri ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze della volubilità degli alleati sauditi. Nel 2017, infatti, mentre si trovava a Riad, rassegnò le dimissioni in diretta televisiva su un canale saudita, in circostanze che fecero pensare a un rapimento organizzato dal principe Mohammad bin Salman, scontento della permissività di Hariri nei confronti di Hezbollah, allineato con il rivale iraniano.

Un terzo elemento che è stato osservato di recente è una più aperta competizione tra Saad e il fratello maggiore Bahaa, che dalla morte del padre aveva mostrato poco interesse verso la politica, dedicandosi completamente al business di famiglia. Durante l’ottobre scorso, nel mezzo delle proteste, Bahaa si era espresso pubblicamente a favore dei manifestanti, nonostante il fratello fosse un chiaro obiettivo del malcontento popolare. In maniera ancora più sorprendente, visto l’antagonismo nei confronti di Hezbollah, il maggiore della famiglia Hariri è apparso sull’emittente televisiva OTV, schierata con Aoun, una settimana prima della nomina di Saad a premier e ha sottolineato la necessità di un cambio di guardia e di porre tecnocrati al governo. La nuova assertività di Bahaa potrebbe anche essere il sintomo di una rivalità più ampia tra Arabia Saudita e Turchia per le simpatie della comunità sunnita libanese, soprattutto nel nord del Paese, dove Bahaa avrebbe una certa influenza.

Mentre il 2020 volge al termine, lasciando, secondo le stime dell’ONU, più della metà della popolazione libanese in povertà, Saad dovrà quindi riuscire, innanzitutto, a conciliare le parti in gioco e cercare, quindi, di rispondere ai molti e pressanti bisogni del Paese, riconquistando la fiducia popolare. Forse, a quel punto, potrebbe riuscire anche ad affrancarsi dall’ombra del padre.

 

 

Fonti e approfondimenti

Vloeberghs W., “The Hariri Political Dynasty after the Arab Spring“, Mediterranean Politics (17:2, pp. 241 – 248), 18/7/2012.

Haddad S., Saad et Baha’ Hariri, une rivalité à connotation régionale?, L’Orient Le Jour, 7/7/2020.

Moubayed S., The Hariri Brothers & the Future of Lebanese Politics, Center for Global Policy, 11/11/2020.

Collard R., Why Is Saad Hariri Back in Charge of Lebanon?, Foreign Policy, 22/10/2020.

Chehayeb K., The other Hariri: Saad’s brother Bahaa makes play for Lebanese prominence, Middle East Eye, 2/6/2020.

Vloeberghs W., “Dynamiques dynastiques au Liban : transmettre le pouvoir politique en famille“, Critique Internationale (73, pp. 71 – 93), 2016.

 

 

Editing a cura di Niki Figus.

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