Tra Europa e nazione: opposizione tra etnonazionalismo e diritti LGBTQ+

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Nei Paesi ex-jugoslavi, la lotta per i diritti che la comunità LGBTQ+ ha dovuto combattere è stata molto ardua dopo le guerre degli anni Novanta, e continua a esserlo ancora oggi. In più di un’occasione, i gruppi nazionalisti dei vari Paesi hanno tentato di dipingere la comunità LGBTQ+ come una minaccia alla “vera” identità della propria nazione e hanno preteso che queste persone venissero private dei loro diritti. Allo stesso tempo, questi Stati si sono adoperati per rispettare i requisiti di ingresso all’Unione europea nel processo di allargamento, fra i quali i diritti LGBTQ+ ricoprono un ruolo piuttosto rilevante. L’effetto positivo nei riguardi delle minoranze sessuali e di genere, che l’UE ha avuto sull’apparato normativo di questi Stati, è ormai innegabile.

L’importanza dell’etnonazionalismo

Molti fattori devono essere presi in considerazione per comprendere la complessità delle dinamiche che portarono alla dissoluzione della Jugoslavia e ai successivi conflitti nei Balcani. Tra questi figurano problemi di natura economica, una crisi del debito estero, i cambiamenti nella conformazione della federazione e il passaggio da una società socialista a una democrazia e a un’economia di mercato.

Un elemento importante per comprendere meglio le sfaccettature dell’omofobia e della transfobia che la comunità LGBTQ+ si trova ad affrontare in questa regione è l’etnonazionalismo. Anche chiamato nazionalismo etnico, l’etnonazionalismo fonda le proprie rivendicazioni sull’esistenza di un gruppo etnico e lotta per la sua tutela. Forti sentimenti etnonazionalisti contraddistinsero le guerre jugoslave e in più di un’occasione portarono a inimmaginabili atrocità. I conflitti divennero tristemente famosi per le pratiche di pulizia etnica, ovvero la rimozione forzata di determinate popolazioni dai territori attraverso omicidi, stupri, rapimenti, furti e altre forme di violenza. 

La rilevanza che la questione dell’etnia aveva acquisito non si esaurì con le guerre. Sebbene con variazioni specifiche a ciascun contesto, quasi tutti i Paesi ex-jugoslavi usarono politiche di ingegneria etnica nelle loro leggi di cittadinanza. La privazione della cittadinanza e la perdita dei diritti economici e sociali che ne conseguì si rivelarono un modo efficace per spingere gli individui appartenenti a una minoranza etnica indesiderata ad abbandonare i territori. Misure che facilitarono queste politiche di ingegneria etnica furono adottate in maniera differente in Croazia, nella Repubblica Federale di Jugoslavia (unione di Serbia e Montenegro), Bosnia-Erzegovina, Slovenia e Macedonia.

 

Il mito della discendenza comune

Uno degli elementi centrali dell’identità etnica è il mito della discendenza comune. Questa espressione si riferisce alla convinzione, propria dei membri di un certo gruppo etnico, di essere in qualche modo imparentati ancestralmente e che il gruppo etnico e tutti i suoi membri abbiano un’unica origine. Tale mito porta i membri del gruppo a conferire un’importanza particolare alla purezza della stirpe. In contesti di forte etnonazionalismo, come quello emerso dopo le guerre jugoslave, è questa focalizzazione sulla purezza del sangue che porta a dettare legge su quali siano i comportamenti sessuali leciti e quali siano invece inammissibili per i membri del gruppo etnico. Il fine ultimo di questo desiderio di controllo è quello di incoraggiare uomini e donne eterosessuali, appartenenti allo stesso gruppo etnico, a unirsi in modo da fare figli che possano continuare la stirpe. L’etnonazionalismo instaura dunque una “logica eterosessista” per la quale il sesso non-riproduttivo viene demonizzato e anche i ruoli di genere vengono irrigiditi. Questo porta a percepire l’eterosessualità e la divisione netta e binaria dell’identità di genere come la norma, come qualcosa che è dettato dalla natura stessa. Ogni alternativa diventa inaccessibile per i membri del gruppo etnico e chi osa trasgredire tali regole viene additato come un “deviato sessuale”.

L’instaurazione di questa “logica eterosessista” porta all’emergere di sentimenti negativi nei confronti delle persone LGBTQ+ e alla normalizzazione di omofobia e transfobia. Tale logica si riflette poi anche sulle leggi che garantiscono i diritti dei cittadini, che vengono prodotte in stretto legame con forme egemoniche di eterosessualità e identità di genere. Questo si traduce nell’esclusione delle persone LGBTQ+ dall’accesso a certi diritti, come ad esempio il diritto di sposarsi o di avere gli stessi livelli di protezione da discriminazione e violenza delle persone cisgender ed eterosessuali. Tali circostanze fanno delle persone LGBTQ+ dei “cittadini parziali” che, pur possedendo la cittadinanza in un dato Paese, non ne acquisiscono tutti i vantaggi.

 

Il ruolo delle religioni

Nei Paesi ex-jugoslavi, fin da dopo le guerre, l’instaurarsi di questa logica eterosessista connessa agli etnonazionalismi fece sì che forme di sessualità e identità di genere, che deviavano dalle norme prescritte, venissero percepite come distanti dall’identità nazionale dei singoli Paesi. Le nuove società che emersero negli anni Novanta furono caratterizzate da un irrigidimento di stampo patriarcale dei ruoli e dei valori riguardanti le relazioni fra i generi e la famiglia. In quel periodo, le autorità dei Paesi ex-jugoslavi tollerarono espressioni di omofobia e transfobia e giustificarono discriminazioni sponsorizzate dallo Stato stesso perché, come le minoranze etniche, le persone LGBTQ+ acquisirono lo status di estranei indesiderati e potenzialmente pericolosi.

Questa posizione venne rafforzata anche dalle principali confessioni della regione. Nel contesto post-jugoslavo, infatti, le religioni costituiscono un elemento centrale dell’identità nazionale in quanto, nell’immaginario collettivo, esse rappresentano la continuità con il passato pre-comunista e forniscono dunque legittimazione all’idea di nazione. In più occasioni, i capi religiosi delle tre principali confessioni – la Chiesa romano-cattolica croata, quella Ortodossa serba e l’Islam bosniaco – hanno usato una retorica nazionalista nelle loro dichiarazioni pubbliche per opporsi ai diritti LGBTQ+ e per ergersi a difensori della patria e dei suoi valori culturali. La posizione ufficiale di tutte e tre le confessioni religiose su queste questioni è sempre stata quella di affermare con forza che l’unica forma di rapporto accettabile debba essere orientata alla riproduzione e la sola struttura di famiglia concepibile sia quella che deriva da un matrimonio monogamo tra uomo e donna. Così, la religione e l’identità nazionale si legano a formare una solida base per l’opposizione all’avanzamento dei diritti LGBTQ+.

 

Difesa della nazione e dei valori tradizionali

Episodi di resistenza ai diritti LGBTQ+ si sono presentati in molteplici occasioni nei Paesi ex-jugoslavi dopo i conflitti, prendendo forme diverse. Un esempio lampante è quanto accaduto a più riprese durante i pride organizzati in Serbia e Croazia, dove gruppi nazionalisti e di estrema destra si sono organizzati per attaccare i partecipanti. A causa di tale violenza e delle minacce da parte di questi gruppi, ancora oggi i pride organizzati nella regione avvengono sotto la stretta sorveglianza delle forze di polizia. Episodi violenti nei confronti delle minoranze sessuali e di genere si sono verificati durante altri eventi organizzati da associazioni che promuovono i diritti LGBTQ+, come accadde nel 2008 al Queer Sarajevo Festival in Bosnia Erzegovina. Questa opposizione non si è però solo espressa in forma di violenza. Ad esempio, un referendum su richiesta popolare per modificare la definizione di matrimonio nella Costituzione, organizzato in Croazia nel 2013, ha fatto in modo che tale modifica escludesse esplicitamente le coppie di partner dello stesso sesso dal diritto a sposarsi. 

Un esempio più recente è rappresentato dal divieto a donare cellule riproduttive, imposto nel 2019 dal ministro della Salute serbo, a chiunque abbia avuto una relazione omosessuale negli ultimi cinque anni. Quest’ultimo episodio dimostra che i gruppi nazionalisti non sono gli unici responsabili dell’omofobia e la transfobia di cui è oggetto la comunità LGBTQ+, ma talvolta è lo Stato stesso il fautore delle discriminazioni. In tutti questi episodi, il tema ricorrente è uno: la difesa della nazione e dei valori tradizionali. Infatti, proprio perché le identità LGBTQ+ sono percepite come così distanti da quelle nazionali, l’opposizione ai loro diritti viene fatta passare come una difesa della propria identità e dei propri valori, specialmente di quelli religiosi, che sono percepiti come fondanti nelle identità post-jugoslave. I diritti LGBTQ+ sono così concepiti come una minaccia e omofobia e transfobia diventano mera legittima difesa agli occhi degli etnonazionalisti.

Questa narrazione è aggravata anche dal processo di allargamento dell’Unione europea, che pone la tutela dei diritti LGBTQ+ tra i requisiti di accesso. Questo permette a gruppi e politici nazionalisti di far figurare l’adozione di diritti LGBTQ+ come un’“imposizione occidentale”, ossia come qualcosa di estraneo all’identità dei cittadini dei Paesi post-jugoslavi che l’Unione europea infligge loro. Tale percezione può solo essere accentuata dalla stretta correlazione che si è venuta a creare tra la protezione dei diritti LGBTQ+ e le istituzioni dell’UE. Secondo questa retorica, omosessualità, bisessualità e identità transgender vengono dipinte come sintomi di un “Ovest deviato”, rappresentato dall’UE, che cerca di infettare l’Est attaccato ai valori tradizionali

 

 L’effetto UE

Nonostante questa sia l’immagine che gli etnonazionalisti cercano di dare dell’Unione europea, i Paesi ex-jugoslavi stanno procedendo nel processo di allargamento e pertanto sono costretti ad adottare le leggi per la protezione dei diritti LGBTQ+. L’influenza della retorica nazionalista nell’ostacolare l’avanzamento dei diritti di minoranze sessuali e di genere varia di Paese in Paese. In alcuni casi, l’effetto dell’UE sulle leggi per la protezione dei diritti LGBTQ+ sembra essere talmente efficace nel contesto dell’allargamento da portare a una protezione persino maggiore di quella offerta da alcuni Paesi membri dell’UE. Un esempio è quello della legge contro la discriminazione adottata in Bosnia-Erzegovina, che è uno dei sette Paesi membri del Consiglio d’Europa a proteggere esplicitamente anche le persone intersex tramite l’inclusione di “caratteristiche sessuali” tra le categorie protette dalla legge. 

Inoltre, l’effetto UE è percepito anche nel modo in cui i gruppi di società civile che si occupano di diritti LGBTQ+ sembrano ottenere maggior successo quando basano il loro attivismo sulle richieste delle istituzioni europee.

Ciononostante, una maggiore protezione a livello giuridico non sempre si traduca in effettivo rispetto dei diritti LGBTQ+. In tutti i Paesi, seppure le leggi che proteggono la comunità LGBTQ+ da discriminazione e crimini d’odio siano presenti, sembrano essere difficili da applicare.

 

 

 

Fonti e approfondimenti

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Editing a cura di Carolina Venco

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