Decido io: il consenso libero che serve oggi

Remix da: Anete Luisina

Il sesso senza consenso è una violenza sessuale. Si tratta di un concetto apparentemente intuitivo, logico e senza particolari intoppi. Purtroppo, non sempre è così.
Nel corso del tempo, la violenza sessuale è divenuta sempre più centrale all’interno del dibattito giuridico e sociale di diversi Paesi. 

Generalmente, gli Stati affrontano il problema della violenza come un’emergenza, un fenomeno da arginare. Considerare però la violenza sessuale, specialmente contro le donne, come una mera questione emergenziale, di ordine pubblico o di allarme sociale, contribuisce all’aumento di incomprensione sul fenomeno.

La violenza non è un’emergenza: è un problema strutturale, con radici profonde su cui è necessario lavorare tramite sinergie diverse da parte della giurisprudenza, della politica e della società civile. A dimostrarlo sono anche i dati: secondo alcune ricerche dell’Istat, una donna su tre ha subìto almeno una violenza nel corso della propria vita e la stessa cifra è riscontrabile a livello europeo. Il problema endemico della violenza sessuale ha, quindi, bisogno di soluzioni sistemiche. 

Da qualche anno, alcuni passi avanti sono stati compiuti. Alcuni Paesi hanno messo in discussione le proprie legislazioni, cercando di introdurre elementi più precisi che definissero la violenza sessuale. Centrale è stato il ruolo del consenso, la cui definizione non è ancora chiara a livello giuridico, ma è cruciale per comprendere il fenomeno della violenza sessuale.

Violenza sessuale nel diritto internazionale

Il primo strumento giuridicamente vincolante che ha definito la violenza sessuale è stata la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, stipulata sotto l’egida del Consiglio d’Europa nel 2011.

In questa, la definizione di violenza sessuale ha linee meno confuse rispetto al consenso e la definisce come

“[…] Una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

La violenza, secondo la Convenzione, non è quindi solamente una violenza fisica, ma comprende una sfera psicologica ed economica di cui le donne sono spesso vittime. Non si tratta di una mera coercizione o di un atto violento. In quest’ottica, la violenza viene invece intesa come un problema socio-culturale che non può essere compreso senza lo studio delle strutture sociali, le norme di genere e i ruoli che supporta e giustifica.

Consenso: il diritto

Il concetto di consenso non è slegato dalla definizione di violenza sessuale, ma il legame tra i due non è sempre evidente, almeno a livello giuridico. 

Nel diritto internazionale, non esiste una definizione univoca di consenso. Un riferimento più esplicito al concetto di consenso però è presente nella Convenzione di Istanbul, che all’art. 36 par. 2 lo definisce la “libera manifestazione della volontà della persona”, tenuto conto del contesto generale in cui ci si trova a darlo. Alla luce di ciò, l’articolo 36 stabilisce che la violenza sessuale è:

  1. atto sessuale non consensuale con penetrazione vaginale, anale o orale compiuta da una persona con qualsiasi parte del corpo o con un oggetto;
  2. altri atti sessuali senza consenso;
  3. il fatto di costringere un’altra persona a compiere atti sessuali non consensuali con un terzo. 

La relazione esplicativa della Convenzione di Istanbul chiarisce che i procedimenti giudiziari richiederanno una valutazione sensibile al contesto delle prove per stabilire, caso per caso, se la vittima abbia acconsentito all’atto sessuale compiuto. La valutazione deve riconoscere l’ampia gamma di risposte comportamentali alla violenza sessuale e allo stupro che le vittime manifestano e non deve basarsi su ipotesi di comportamento tipico in tali situazioni.

Questa definizione, seppur non precisissima, fornisce elementi preziosi per valutare cosa costituisca il consenso: è un permesso che si deve esprimere liberamente a qualcuno per intraprendere atti sessuali che riguardano la persona e il proprio spazio.

Consenso: nel concreto, che cos’è?

Sebbene ci sia un esplicito riferimento al consenso come elemento essenziale per avere un rapporto sessuale, la definizione non è sempre chiara. 

Il concetto di consenso è molto semplice e intuitivo da spiegare, almeno in teoria. Per spiegarlo, useremo un piatto di pasta. Supponiamo che vogliate fare un piatto di pasta a una persona. 

Al momento di mangiare la pasta, la persona potrebbe non volerla più, o potrebbe accorgersi che non era esattamente quello che pensava, decidendo di lasciarla lì. Nessuno potrebbe costringerla a finire il piatto, solo perché inizialmente aveva detto di sì. 

Oppure, la persona potrebbe essere incosciente quando avete chiesto “volete un po’ di pasta?” e, in quel caso, la sua risposta (o assenza di risposta) non costituisce una base per costringerla a mangiare tutto o parte del piatto. 

Nessuna persona costringerebbe l’altra a mangiare un piatto di pasta contro la sua volontà.

Quando si parla di pasta il concetto è chiaro, ma quando si parla di sesso?

All’interno di un rapporto sessuale, per consenso bisogna intendendere il rispetto dell’altro e il rispetto dei limiti fisici e psicologici di ognuno e ognuna. Planned Parenthood, organizzazione no-profit statunitense specializzata in salute riproduttiva, ha riassunto il consenso tramite l’acronimo FRIES:

  • Freely given (dato liberamente): il consenso è una scelta che si fa senza pressioni, manipolazioni o senza l’influenza di droghe o alcool;
  • Reversibile: chiunque può cambiare opinione, in qualsiasi momento. Chiunque può cambiare idea riguardo cosa desidera fare in ogni momento, anche se l’ha già fatto in passato o se lo sta facendo in quell’istante;
  • Informato: si può acconsentire a qualcosa solo se si ha un quadro della situazione. Per esempio, se qualcuno dice che userà il preservativo, ma durante il rapporto lo toglie (pratica conosciuta come stealthing), non c’è consenso pieno;
  • Entusiasta: al centro deve rimanere la voglia di fare qualcosa, non di rispettare alcuna aspettativa;
  • Specifico: dire sì a una cosa (scambiarsi un bacio) non vuol dire aver detto sì ad altre (avere un rapporto sessuale).

In Europa

Se la situazione appare facile, nella realtà dei fatti non è così. 

Secondo le stime di Amnesty International, sono solo 12 i Paesi europei che hanno introdotto il concetto di consenso nella lotta alla violenza sessuale e di genere. L’ultimo Stato ad aver modificato la propria legislazione in tal senso è la Danimarca. 

Infatti, Il 17 dicembre 2020 il Parlamento danese ha approvato con una larghissima maggioranza una riforma sostanziale sulla disciplina prevedendo che si potrà integrare il reato di violenza sessuale ogni volta che venga a mancare il consenso di entrambe le parti per determinati atti e atteggiamenti. Il consenso dovrà essere quindi esplicito e consapevole.

La legge precedente si basava invece sull’esistenza di “violenza e minaccia” nei confronti della vittima, rendendo insussistente il reato di violenza in tutti quei casi in cui la vittima non avesse opposto alcuna resistenza per paralisi da shock o per paura. Il progresso della legislazione danese è in linea con la richiesta fatta dalla Convenzione di Istanbul.

Il caso italiano

Nonostante diversi input e richieste, la legislazione italiana in materia di violenza sessuale è ancora lontana dall’essere soddisfacente. Per comprendere a fondo il problema è necessario fare un breve viaggio nel tempo, nel diritto e nella società.

L’attuale codice penale si basa sullo scheletro di quello fascista del 1930, che considerava la violenza sessuale, denominata violenza carnale, un reato contro la moralità pubblica e il buon costume, pur avendolo inserito nel Capo dei delitti contro la libertà sessuale. La sua collocazione rispecchiava la struttura sociale fortemente maschilista e patriarcale, che vedeva la donna come un oggetto su cui esercitare il diritto di proprietà da parte di un uomo, padre o marito, non riconoscendone l’individualità. Nei fatti, ci si trovava davanti alla “parcellizzazione” della donna, secondo cui la sua essenza fisica era l’unica rilevante e con una vera e propria “destinazione d’uso”, cioè sposarsi e procreare, che il capofamiglia poteva attivare a piacimento.

Nel caso di violenza sessuale, quindi, la donna che decideva di denunciare l’accaduto doveva scontrarsi con una realtà dolorosa. In primo luogo, il codice penale distingueva la violenza carnale dagli atti di libidine violenta – diversi dalla “congiunzione fisica”.Secondariamente la vittima doveva essere sottoposta a visite mediche e interrogatori, per lo più condotti da uomini, che stabilivano in base a criteri di dubbia razionalità, come richieste di esatte descrizioni della violenza e della reattività della vittima, se e quale reato si fosse verificato. Infine, il reato di violenza carnale era socialmente accettato e depenalizzato nel caso in cui il violentatore si fosse offerto di sposare la vittima, con quel matrimonio riparatore la cui esistenza fu abolita solo nel 1981 dopo la coraggiosa scelta di Franca Viola che denunciò il suo stupro e si rifiutò di sposare il suo stupratore.

Tutto ciò racconta l’arretratezza culturale e sociale che ancora resiste: la violenza carnale sovvertiva la pubblica morale e l’onore della famiglia, ma della dimensione personale della donna non se ne faceva menzione né ci si interessava.

La riforma del 1996

Con lentezza e difficoltà tipica delle decisioni importanti che riguardano il ruolo della donna, si approda alla legge di riforma del codice penale in materia di violenza sessuale solo nel 1996.

La legge 25 febbraio 1996 n. 66 è stato l’epilogo di un processo durato circa venti anni e concluso frettolosamente per una possibile caduta di governo. La nuova legge ha abrogato le disposizioni precedenti e avrebbe dovuto segnare una netta differenziazione con il passato. Nella realtà dei fatti non si può dire che le aspettative siano state completamente esaudite. La riforma doveva coordinarsi con i principi costituzionali dell’uguaglianza tra gli individui e la parità tra coniugi, nonché il principio stabilito dall’art. 13 Cost. sull’inviolabilità della libertà personale quale elemento base di qualsiasi relazione sociale.

La nuova disposizione sulla violenza sessuale, disciplinata dall’art. 609-bis c.p. comma 1, stabilisce quindi che:

“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.

Sempre attraverso la l. 66/1996 il reato viene classificato come delitto contro la libertà personale, cancellando il riferimento alla lesione della pubblica morale, ma eliminando allo stesso tempo il riferimento specifico alla lesione della libertà sessuale contenuta nel Codice del 1930.

Potrebbe sembrare una dimenticanza da poco, soprattutto considerato che la “libertà personale” include anche quella sessuale, ma con la dovuta attenzione si nota che la specificazione è ancora oggi rilevante. Infatti la libertà sessuale ha una sua autonomia degna di nota, perché si caratterizza come libertà attiva e positiva che non tollera alcuna interferenza esterna non voluta: la libertà sessuale è una “libertà di” autodeterminazione, di scelta e di possibilità. In sintesi, è una libertà che ogni persona deve esercitare attivamente.

La situazione attuale

L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul con la legge 27 giugno 2013 n. 77 sia per rendere la propria legislazione in linea con le disposizioni europee sia per adottare un sistema normativo pronto a confrontarsi con queste tematiche. 

In realtà, le introduzioni fatte dalla legge 77/2013 sono state solo timide modifiche alle disposizioni già presenti. Infatti, si è preferito introdurre circostanze aggravanti e nuovi calcoli di pena invece di rileggere l’intera legislazione attraverso la lente della Convenzione.  

Lo stesso meccanismo è stato utilizzato per la legge 19 luglio 2019 n. 69 “Tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, il cosiddetto Codice Rosso. Attraverso i 21 articoli di cui era composta la legge, il nuovo intervento ha continuato sulla scia degli aggravamenti di pena per i reati già esistenti, senza modificarne però il contenuto. Unica nota positiva è stato il riconoscimento del reato di revenge porn, sebbene con molti limiti e mancanze. 

A distanza di 10 anni e di ben due riforme in materia, nulla è cambiato. Anzi il maggiore problema attuale è la costante mancanza della definizione di consenso in ambito sessuale nonché la sua grande assenza nel panorama delle norme che regolano la violenza sessuale.

Infatti, il consenso è disciplinato in via generale dall’art. 50 c.p. e considerato come causa di giustificazione. Si vuole intendere la situazione in cui non si può punire qualcuno quando commette un’azione considerata reato se vi è stato il consenso dell’altra persona. Tuttavia, questa definizione non si adatta perfettamente al tema della sessualità e della violenza sessuale.

Confrontando le disposizioni della Convenzione e del Codice penale si nota una discrepanza importante e grave: nell’art. 36 della Convenzione si fa espresso riferimento al consenso come criterio di identificazione della violenza sessuale e definito come “libera manifestazione della volontà della persona”, mentre nell’art. 609-bis c.p. si fa riferimento a criteri di “violenza, minaccia, abuso o costrizione”.

Il punto critico, e l’evoluzione mancata della riforma del 2019, sta proprio nel non aver ritenuto essenziale il consenso per la trattazione dei reati di violenza sessuale. L’attuale fattispecie è stata oggetto di numerose interpretazioni da parte della Corte di Cassazione che in casi più o meno eclatanti, si pensi al caso della cosiddetta Prova dei jeans, ha modulato l’interpretazione dell’art. 609-bis c.p. fino a ricomprendere la violenza non solo come atto di congiunzione carnale, ma anche le molestie e gli abusi subiti dalla vittima, sempre nell’ambito della propria libertà sessuale.

Il consenso deve essere il nuovo protagonista della legge

C’è ancora tanto da fare, sia in termini legislativi che socio culturali. Rendere il concetto di consenso centrale nella trattazione delle fattispecie di reato che violano la libertà sessuale degli individui significherebbe portare, per davvero, l’attenzione sulla consapevolezza dei limiti e della volontà delle persone.

Dunque, parlare di consenso nella violenza sessuale servirebbe non solo a rendere la normativa italiana più vicina alle prescrizione della Convenzione di Istanbul, ma focalizzerebbe l’attenzione su un aspetto molto più importante. 

Nonostante le pronunce della Consulta e le varie declinazioni dei termini dell’art. 609-bis c.p., serve cambiare l’atteggiamento con cui ci si avvicina al tema. Una violenza simile ha conseguenze devastanti e permanenti sulla vittima. Stabilire che il consenso sia il minimo comun denominatore per qualsiasi attività relazionale e sessuale significherebbe anche eliminare uno stigma sociale antico e vergognoso che ferisce ancora una volta chi ha subito violenza.

 

Fonti e approfondimenti 

Siviero, G., La violenza sessuale e il consenso,10 settembre 2017, IlPost.

Amnesty International Italia, Il sesso senza consenso è stupro. 

Di Pinto, S., ”Amore per forza e diritto penale: dalla violenza carnale alla violenza sessuale”, OsservatorioPenale.it. 

Goisis, L., “La violenza sessuale: profili storici e criminologici”, Diritto Penale Contemporaneo. 

Servizio Studi Camera dei Deputati, “Convenzione di istanbul: l’attuazione nell’ordinamento interno”, 11 novembre 2017.

GenPol, “Legislative Approaches To Rape In The EU: Outlining Case Study Examples”, 11 giugno 2017.

De Vido, Donne, violenza e diritto internazionale. La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011, Milano, 2016.

European Institute for Gender Equality, Gender Based Violence.

Planned Parenthood, What is sexual consent? Facts about rape and sexual assault.

Editing a cura di Elena Noventa

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