La storia della United Fruit Company

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La storia della United Fruit Company (UFC) è quella della prima multinazionale moderna, ovvero un nuovo schema per riproporre un vecchio meccanismo: quello secondo cui pochi si arricchiscono alle spalle di tanti. Il suo sviluppo si è intrecciato con le strategie geopolitiche di Washington, alla luce della dottrina Monroe e in seguito a quella Truman – con cui gli Stati Uniti hanno definito la loro politica estera nel contesto della Guerra Fredda. L’operato della compagnia ha alimentato l’eterno autoritarismo e sottosviluppo centroamericani.

Per raccontare la storia della UFC bisogna risalire al 1870. In quell’anno, l’avventuriero statunitense Lorenzo Dow Baker venne incuriosito da insoliti frutti gialli che vide nel porto giamaicano in cui approdò. Dow Baker decise di portarne 160 caschi a casa per provare a venderli: fu un successo.

Gli inizi

La UFC nacque nel 1899 dalla visione di affari di tre uomini, in linea con gli sviluppi che porterà il nuovo secolo. All’istinto di Baker si unì la logistica di Andrew Preston e di Minor Keith. Il primo aveva messo a punto un sistema di distribuzione refrigerata che permetteva di trasportare il frutto anche lontano dalle coste, così da espanderne le vendite. Il secondo aveva ottenuto dal governo della Costa Rica la concessione per costruire la ferrovia locale. Durante i lavori, piantò banane nei terreni limitrofi per venderle agli operai. Quando altri Paesi della zona lo invitarono per costruire le loro ferrovie, importò lo stesso modello.

Nel giro di pochi decenni, da misteriosi frutti esotici di lusso, le banane arrivarono sulle tavole di tutti, sia negli Stati Uniti che in Europa. Erano disponibili tutto l’anno a prezzi modici, oltre a essere consigliate dai medici per le loro proprietà benefiche.

Per sostenere una domanda che crebbe molto e in poco tempo, il frutto fu coltivato sempre più in maniera intensiva in grandi piantagioni. Queste furono installate a danno delle foreste pluviali, nelle zone calde e umide a pochi giorni di navigazione dagli Stati Uniti, ossia a ridosso delle coste atlantiche del Centro e Sud America. Fu scelta una sola delle tante varietà esistenti, che si adeguasse al meglio alle esigenze del mercato e dei lunghi tragitti: la Big Mike. Questa non ha semi e si riproduce per clonazione. Tale caratteristica, insieme alla coltivazione intensiva, facilitò la propagazione di malattie del banano. Le periodiche epidemie hanno danneggiato a più riprese i profitti della compagnia, a tal punto da farle cambiare negli anni Settanta del Novecento la varietà commercializzata.

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La penetrazione in America centrale

L’altra faccia della medaglia di questo colossale successo commerciale sono stati i danni ambientali e socioeconomici subiti dai territori produttori del frutto. I giovani governi della regione, usciti da poco dai regimi coloniali, all’inizio del XX secolo erano instabili, autoritari, poveri e facili da corrompere. La crescita economica, allora relegata a un settore agricolo arretrato, era ostacolata dall’assenza di servizi, infrastrutture e capitale. Già in partenza, tali Paesi presentavano le caratteristiche ideali per la penetrazione della UFC. Non a caso, verranno poi definite Repubbliche delle banane: finto regime repubblicano (spesso latino-americano), in cui il potere è detenuto da un’oligarchia corrotta o da un leader che usa metodi dittatoriali”.

Con la promessa di contribuire alle economie locali e di provvedere a servizi di vario tipo, la giovane compagnia guadagnò facilmente la simpatia dei governi autoritari tropicali. La Costa Rica e il Guatemala la invitarono a coltivare grandi porzioni delle proprie terre. In altri dovette forzare la propria entrata. Alla fine, la compagnia si installò quasi ininterrottamente dal Belize all’Ecuador, passando per i Caraibi.

I tentacoli della UFC

In quest’area, la UFC si appropriò rapidamente non solo di terreni, ma anche di sistemi logistici di trasporto e di comunicazione. Alla fine degli anni Quaranta era proprietaria di un quarto delle terre coltivabili in America centrale. Sviluppò a tal punto il suo commercio marittimo e la sua rete di ospedali, per i funzionari in loco, da creare la flotta e il sistema sanitario privati più grandi al mondo. Nelle piantagioni, gli impiegati statunitensi vivevano in una sorta di paradiso tropicale, dove gli unici disagi erano le zanzare e la lontananza da casa. Provenivano per lo più dagli Stati del sud e la loro mentalità schiavista si fece sentire nei confronti dei lavoratori per lo più indigeni o afro-discendenti. Questi non erano pagati in denaro, bensì tramite dei tagliandi di credito presso i negozi della compagnia situati nelle piantagioni stesse.

Era un sistema chiuso, in cui la legge dell’impresa sovrastava ogni disposizione nazionale. Inoltre, la UFC disponeva delle proprie forze di sicurezza, nonché di company men che si assicuravano il favore delle autorità nelle capitali. In poco tempo, el Pulponome con cui divenne famosa la compagnia in America latina – aveva tentacoli in ogni ramo dei governi locali. Funzionava come un vero e proprio Stato nello Stato, un sistema pseudo-feudale spesso più potente delle repubbliche che la ospitavano, alle volte costrette a chiederle prestiti, come nel caso di El Salvador nel 1922.

Questa penetrazione è stata accompagnata nei medesimi territori da numerosi interventi e occupazioni, raggruppati sotto l’espressione postuma e non casuale di Banana Wars (guerre delle banane). Questi furono attuati dall’esercito statunitense per difendere gli interessi delle sue compagnie, tra cui spiccava la UFC. Queste azioni furono consacrate dalla politica del Big Stick di Theodore Roosevelt e cessarono con la politica di buon vicinato del suo lontano cugino Franklin Delano, oltre che con i successivi impegni nella Seconda guerra mondiale.

William Allen

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L’indispensabile autoritarismo

Finché regnò l’autoritarismo di destra, la bananera non conobbe altro che strepitosi guadagni. I primi problemi arrivarono con gli scioperi. Nel 1928, i lavoratori colombiani si fermarono e la risposta della compagnia fu quella di chiamare l’esercito nazionale e di far sparare sulla folla: il saldo fu di oltre mille morti.

Tuttavia, furono gli albori della democrazia centroamericana a determinare il tramonto del regno delle banane. A partire dal 1948, la Costa Rica avviò il proprio sistema di welfare, i cui fondi furono in parte richiesti proprio alla UFC. In tal modo, riuscì a eliminare la propria dipendenza da essa. In seguito, fu il turno del Guatemala, dove la compagnia conobbe l’apice del proprio potere, per poi entrare subito dopo nella sua fase declinante.

Il caso emblematico del Guatemala

Dopo un susseguirsi di terribili dittature durante le quali si era cristallizzato il monopolio della UFC e in cui gli indigeni si trovavano ancora in condizioni di servitù, il Guatemala conobbe nel 1944 la propria Rivoluzione di ottobre. Seguirono le prime elezioni democratiche in 133 anni di indipendenza. Venne eletto Juan José Arévalo, un politico di ispirazione socialista. In aperta contraddizione con i suoi predecessori, sostenne per la prima volta diritti civili e sociali, e prese di mira la UFC. Questa era ritenuta la prima responsabile delle condizioni di sottosviluppo del Paese, in quanto proprietaria di gran parte delle terre coltivabili oltre che della ferrovia, del telegrafo, dell’unico porto atlantico. Inoltre, impiegava circa 40 mila lavoratori, quasi il doppio di quelli del settore industriale. La preoccupazione della UFC crebbe soprattutto con la promulgazione del Codice del Lavoro e con l’inizio della stesura di un progetto di riforma agraria. Tali politiche rappresentavano enormi minacce per i profitti e la libertà d’azione dell’impresa: andavano in qualche modo fermate.

Dal piccolo Guatemala, con 3 milioni di abitanti e 100.000 km², rispettivamente neanche 1/50 e a malapena 1/100 di quelli degli Stati Uniti nel 1950, dopo la scossa di Arévalo arrivò il terremoto del suo successore Jacobo Árbenz. Eletto nel 1951, focalizzò ancor più il suo intervento politico contro il monopolio della UFC e verso una nazionalizzazione dell’economia. Purtroppo, il contesto storico-ideologico in cui agì rese impossibile portare avanti le sue riforme.

La congiuntura storica

L’avvio della riforma agraria e l’entità del compenso sulle terre espropriate fecero suonare l’allarme negli uffici di Boston della UFC, il cui eco avrebbe raggiunto, da lì a poco, anche Washington. Infatti, la compagnia vantava legami molto stretti nei circoli del potere domestico. El Pulpo si era diramato anche negli USA e la congiuntura storica aveva creato una situazione estremamente favorevole per mantenere le sue prerogative. Innanzitutto, il contesto della Guerra Fredda insieme all’ascesa alla presidenza del repubblicano Dwight Eisenhower nel 1951 e al fervore del maccartismo, resero sospetta ogni manovra politica progressista. Dopo di che, la compagnia poteva contare con la collaborazione di diverse personalità di rilievo, azionarie o impiegate stesse della compagnia: l’ambasciatore presso le Nazioni Unite; la segretaria personale di Eisenhower; il Segretario di Stato e responsabile degli affari esteri; il capo della CIA e l’incaricato dei Latin American Affairs presso il Dipartimento di Stato. Inoltre, il Guatemala si trovava geograficamente asserragliato da dittature di destra filostatunitensi.

In soli due anni, la combutta segreta tra la compagnia bananiera, i vertici del governo statunitense, i mezzi di comunicazione e la nascente CIA creò un macchinario propagandistico e logistico tale da deporre un presidente democraticamente eletto, senza creare grandi scalpori. Questi eventi avvennero nel quadro di quella che fu chiamata l’Operazione Successo: e così fu – anche se solo per pochi. Il costo totale della missione fu di oltre 20 milioni di dollari. Solo un anno prima, la CIA aveva avuto il suo campo di prova e di trionfo in Iran con l’instaurazione del regime dello Shah.

All’epoca, il presidente della compagnia bananiera era Sam Zemurray. Egli aveva fatto esperienza nella rimozione di presidenti “scomodi” ancor prima di entrare a far parte della UFC. La sua relazione con le banane iniziò in piccola scala in Alabama, con la vendita dei caschi che i commercianti ritenevano marci. A poco a poco fece fortuna e si avventurò in Honduras per ottenere terre. Per riuscire a non pagare le tasse sulle sue nuove proprietà, egli fece in modo di re-instaurare il regime dittatoriale precedente che gli concesse un’esenzione fiscale completa. In seguito, avrebbe affermato che in Honduras è più economico comprare un deputato che un mulo”.

Le strategie di marketing

Per difendere i propri interessi e la propria immagine, la compagnia si affidò a Edward Bernays, il nipote di Sigmund Freud. Anch’egli psicologo, è conosciuto come il padre delle relazioni pubbliche e del marketing moderno. In un primo momento, lavorò per rendere la compagnia più attraente: nacque l’icona catchy della Señorita Chiquita Banana che ballava a ritmi esotici. Dopo di che, incoraggiò le opere filantropiche dell’impresa. Queste erano iniziate già nel 1912 con il riscatto delle rovine maya di Quiriguá dalla giungla guatemalteca e proseguite con la creazione della prima università d’agronomia centroamericana in Honduras – tutt’oggi alla mercé delle grandi multinazionali. Venne anche creato un Dipartimento di Educazione per fornire materiali alle scuole e diffondere ricette a base del frutto. Infine, Bernays sfruttò i suoi stretti rapporti personali con direttori ed editori di giornali e riviste rinomati per creare una campagna mediatica che potesse legittimare lo stop alle manovre di Árbenz.

La campagna mediatica

L’obiettivo era quello di far credere all’opinione pubblica statunitense, e mondiale, che il governo di Árbenz era alleato con Mosca e rappresentava una seria minaccia rossa nel backyard di casa. Tale propaganda si basò su notizie false o sull’esagerazione dei fatti: in tutto il Guatemala vi erano a malapena 4 mila tesserati e 4 deputati del partito comunista.  

L’impresa della UFC era facilitata dal fatto che all’epoca negli Stati Uniti si sapesse ben poco di quel che avveniva e di come era il sud del continente: solo pochi avventurieri ci avevano messo piede e l’esoticità del tropico ne offuscava la realtà quotidiana. L’azienda bananiera approfittò delle circostanze per creare una divisione di informazioni e dati sull’America centrale, da fornire ai giornalisti. A questi vennero anche pagati dei viaggi in loco, orchestrati sin dall’arrivo in aeroporto dalla logistica della compagnia: avrebbero visto e sentito solo quello che conveniva a quest’ultima. In tale ottica, la CIA arrivò persino a introdurre armi con marchi sovietici sul territorio guatemalteco, così da fornire prove inconfutabili delle sue asserzioni.

La legittimazione al di fuori dagli Stati Uniti

Washington e i suoi cittadini erano ormai convinti. A quel punto, mancava una legittimazione internazionale, nonché un’adesione da parte del popolo da “liberare”. Per il primo obiettivo, l’occasione si presentò durante la X Conferenza dell’Organizzazione degli Stati Americani a Caracas a marzo del 1954. Il Segretario di Stato statunitense John Foster Dulles preparò a tale proposito una risoluzione contro il comunismo internazionale nel continente. Le proteste del ministro guatemalteco pesarono meno delle minacce del ritiro degli aiuti economici statunitensi e la risoluzione venne approvata. Tuttavia, i suoi termini non furono rispettati.

In Guatemala, gran parte dell’opinione pubblica era ancora quella che aveva votato per Árbenz. Il primo gruppo preso di mira furono i militari, a cui la CIA dedicò dei fondi speciali destinati alla corruzione. Inoltre, l’agenzia fondò una radio, La Voz de la Liberación, paladina dell’opposizione arbenzista e divulgatrice del presunto terrore perpetrato dal regime.

La “Liberación”

Il libertador scelto fu Carlos Castillo Armas, un ufficiale oppositore del governo. La logistica e le armi furono fornite dalla CIA in collaborazione col dittatore nicaraguense Anastasio Somoza. La base di allenamento del suo Ejército de Liberación fu una piantagione della UFC in Honduras. Gli stessi terreni verranno usati anche negli anni Ottanta per l’addestramento dei contras al fine di contenere le ulteriori minacce comuniste rappresentate questa volta dal regime sandinista.

Il governo del Guatemala aveva capito quel che l’attendeva. Disperato dal rifiuto di ogni suo alleato di vendergli armi a causa delle pressioni statunitensi, si rivolse allora alla Cecoslovacchia, nell’emisfero sovietico. Il carico che arrivò era composto per lo più da materiale obsoleto e poco funzionante, tuttavia fu abbastanza per rappresentare il pretesto immediato che giustificasse la “liberazione”.

Il 18 giugno 1954 Castillo Armas entrava in Guatemala. Gli scontri armati furono molto ridotti, ma fu messa in atto una profonda guerra psicologica per rafforzare le asserzioni sul Paese. Vennero diffuse foto fasulle di torture e morti attribuite al governo di Árbenz. Dopo di che, furono installati dei megafoni piazzati sul tetto dell’ambasciata statunitense a Città del Guatemala per difondere il suono di bombardamenti. La Voz de la Liberación parlava di numerosissimi aderenti alle forze di Castillo Armas – nonostante questi non furono mai più di 400. Tutte queste manovre riuscirono a demoralizzare i sostenitori del presidente. Gli appelli alle Nazioni Unite e la convocazione del Consiglio di Sicurezza risultarono inutili: l’influenza statunitense vinse nuovamente. Allo stesso tempo, i mezzi di comunicazione omettevano le numerose manifestazioni che scoppiarono in tutta l’America latina contro l’Operazione Successo.

 Il Guatemala post-golpe

Castillos Armas prese il potere e distrusse ogni traccia dell’incredibile progresso sociale e civile che aveva vissuto il Paese nei 10 anni precedenti. Ancora oggi, la gran parte dei guatemaltechi ha un livello di vita inferiore a quello di cui aveva goduto durante quel periodo. Come stabilito, la UFC recuperò tutte le sue terre e i suoi privilegi . Solo sei anni dopo, l’assetto nato dal golpe fece precipitare il Paese in una terribile guerra civile, in cui l’esercito nazionale fu armato e addestrato dagli Stati Uniti. Il conflitto costò la vita di oltre 200 mila persone e lasciò un Paese allo sbaraglio.  

Il declino della UFC

Tuttavia, nell’aver sostenuto gli interessi della UFC, Washington si rese conto del potere della compagnia e non gradì le critiche ricevute per le azioni a suo favore. Solo cinque giorni dopo la caduta di Árbenz, la UFC fu dunque convocata dinanzi a una corte federale per la violazione delle leggi antimonopolio. Quattro anni più tardi, dovette cedere gran parte delle sue terre in Guatemala e la totalità nel 1972, che passarono a un’altra grande compagnia statunitense: la Del Monte. Lo stesso avvenne anche altrove. Tuttavia, parte della logistica per il commercio rimase sotto il suo controllo, come lo è ancora parte dell’unico porto atlantico guatemalteco.

Antilla Fürst | Lo Spiegone

La sezione di Puerto Barrios in Guatemala, ancora di proprietà della compagnia

La radicalizzazione delle sinistre

Il golpe del 1954 è stato il primo in America latina avvenuto con l’appoggio del governo statunitense. È stato il banco di prova di una strategia che poi verrà replicata dalla CIA in altre nazioni del continente, come in Cile nel 1973.

La UFC, in quanto una delle massime espressioni dell’imperialismo statunitense nel subcontinente, ha alimentato quel sentimento anti-yankee che continua a segnare le sinistre latinoamericane. Dalle vicende guatemalteche in poi, ogni movimento della regione che ha voluto rompere la propria sottomissione ai poteri stranieri, ha capito che il riformismo democratico e moderato di Árbenz non era il modo per farlo. Tale via ha da allora assunto connotati decisamente più radicali, come pochi anni dopo avrebbe dimostrato Fidel Castro a Cuba. Lo stesso líder dell’unico regime comunista americano conosceva molto bene la UFC, a cui il padre doveva la propria fortuna. L’avrebbe notata di nuovo nel 1961, quando sette navi, di cui due fornite della UFC, si avventurarono verso la Baia dei Porci in una missione per provare a destituirlo. L’operazione fallì e l’escalation fu tale da portare alla famosa crisi dei missili l’anno successivo. Inoltre, la rivoluzione cubana nasce in qualche modo anche dal golpe guatemalteco: Ernesto Guevara si trovava lì e ne trasse la conclusione della necessità della lotta armata come unica via d’uscita dalla sottomissione all’imperialismo.

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Gli anni Settanta

Gli anni Settanta portarono un susseguirsi di enormi cambiamenti. Innanzitutto, la compagnia dovette fondersi con la American Seal-Kap Company, e nacque la United Brands. Nel natale del 1972, il suo direttore Eli Black riprese le azioni filantropiche e si riferì per la prima volta alla “responsabilità sociale” delle imprese quando donò una cospicua cifra alle vittime del terremoto di Managua. Nel 1973, la crisi petrolifera alzò i prezzi del commercio e l’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, ispirò la nascita dell’UPEB in America latina, ossia dell’Unione dei Paesi Esportatori di Banane. Questa voleva contrastare il monopolio statunitense e ottenere migliori profitti in loco, anche se ebbe poca fortuna. L’anno successivo, l’uragano Fifi devastò le piantagioni honduregne. Nel 1975 arrivò il colpo di grazia con il suicidio di Black in seguito alla scoperta del Bananagate, ossia del suo intento di corrompere il presidente honduregno per ottenere una diminuzione sulle tasse di esportazioni delle banane. Questi fatti portarono a un ennesimo golpe nella nazione centroamericana.

I tempi e i modi erano decisamente cambiati, e la compagnia aveva difficoltà ad adattarsi. Caddero anche i diversi regimi latino-americani che avevano sostenuto entusiasticamente la compagnia, come nel 1979 quello dei Somoza. Inoltre, la stampa non era più sua alleata e la sua tradizionale libertà d’azione venne limitata dall’implementazione di una serie di misure contro le grandi compagnie transnazionali, nate precisamente per contrastare le manovre della UFC.

La Chiquita

Nel 1990, la compagnia provò a riemergere con un’ennesima manovra di rebranding: assunse il nome di Chiquita, in riferimento all’icona che tanto l’aveva resa famosa. Tuttavia, la nuova maschera non aveva cambiato le sue vecchie abitudini. Nel 2007, la compagnia ammise di aver fornito fondi all’organizzazione paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) per la tutela dei suoi interessi nel Paese.

Oggi, il commercio delle banane è dominato da quattro compagnie: Chiquita, Del Monte, Dole e Noboa. Solo quest’ultima proviene da un Paese produttore, l’Ecuador, mentre le altre sono statunitensi. Negli ultimi trent’anni, questo gruppo si è ritrovato coinvolto in numerosi scandali legati ai fertilizzanti e ha dovuto affrontare diversi processi contro il modello del fair-trade.

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Le ex-Repubbliche delle banane continuano tutt’oggi a patire d’instabilità politica, di dipendenza estera, di fortissime disuguaglianze e di devastazioni ambientali attuate da grandi compagnie. Le infrastrutture un tempo controllate dalle UFC sono state in gran parte abbandonate e oggi il Guatemala non ha più un sistema ferroviario.

Il perseguimento degli interessi della compagnia bananiera ha avuto enormi ripercussioni in America latina. La UFC fu la precursora di strategie che oggi hanno un nome specifico: produzione di massa e intensiva, delocalizzazione, marketing, branding, manipolazione dei media, responsabilità sociale d’impresa. Addirittura, la banana della UFC è stata considerata come il primo prodotto di fast food: naturalmente imballata, consumabile senza posate e sprovvista di semi. Anche se oggi si è enormemente ridimensionata e non ha più lo stesso potere, ha rappresentato un antecedente che ha aperto la strada a certe pratiche predatorie da parte delle multinazionali.

Questa è, a grandi linee, la “storia complicata” – come la definisce la compagnia stessa – della United Fruit Company, ovvero del prezzo al quale le banane sono arrivate nelle case di tutto il mondo.

 

Fonti e approfondimenti

Maurice P. Brungardt, “La United Fruit Company en Colombia”, Innovar, 1995

Chapman “Bananas. How the United Fruit Company shaped the world”, Canongate, 2007

Carlos Hernández-Echevarría, “Así nacieron las repúblicas bananeras”, La Vanguardia, 14/01/21

Schlesinger, S. Kinzer “Fruta Amarga. La C.I.A. en Guatemala”, Siglo Veintiuno Editores, 1987

 

Editing a cura di Elena Noventa

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