L’Afghanistan tra presente e futuro: intervista a Giuliano Battiston

Intervista
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Giuliano Battiston è giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste, tra cui “L’Espresso”, “Il Manifesto”, “Gli Asini”, “Il Venerdì”, “The New Humanitarian” e Radio3. Autore dei primi studi sul campo sulla società civile afghana post-2001, dal 2007 si dedica all’Afghanistan con viaggi, ricerche, saggi.

L’8 luglio il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha confermato il ritiro delle truppe americane entro il 31 agosto. In un suo recente articolo ha definito la scelta di Biden una «abdicazione di responsabilità». Può spiegarci perché?

Ci sono modi e modi per disimpegnarsi da un conflitto e, soprattutto, per dare seguito a un ritiro. Le modalità con cui il presidente americano Joe Biden ha accettato di applicare la decisione, che è stata resa pubblica a metà aprile, mi è sembrata una «abdicazione» perché sembra scaricare tutta la responsabilità di quello che avverrà nelle prossime settimane sulle spalle degli afghani. Le condizioni che gli afghani, la classe politica così come la popolazione, si trovano ad affrontare dipendono anche, se non in buona parte, dalla presenza ventennale delle truppe straniere che hanno fortemente condizionato la dinamica del conflitto e il quadro politico afghano. 

Quel passo indietro, suggerito dalle parole del presidente americano Joe Biden, che ha continuato a dire «ora la questione è nelle mani degli afghani», mi è sembrato inopportuno. Una delle caratteristiche che si riscontrano storicamente nei casi in cui, dopo un conflitto prolungato, i principali attori esterni presenti sul terreno si defilano è quella di una progressiva riduzione del sostegno civile e delle istituzioni. Questa è una delle preoccupazioni principali della classe politica afghana: il fatto che quello Stato, che si regge per la maggior parte sugli aiuti stranieri, possa vedere una progressiva riduzione dell’attenzione da parte dei partner internazionali

La base militare di Bagram, il principale quartier generale dei militari statunitensi, da cui per vent’anni sono state coordinate le operazioni, sarebbe stata abbandonata dal giorno alla notte, senza che il nuovo comandante, il generale afgano Mir Asadullah Kohistani, ne venisse informato. Ha potuto visitare la base durante il suo ultimo viaggio?

Due giorni dopo il ritiro piuttosto improvviso delle truppe straniere, in particolare le truppe statunitensi dalla base di Bagram, sono andato a visitare tutta la parte esterna di quell’area. 

La base è la più grande del Paese e intorno è cresciuta negli anni una sorta di economia parallela, un’economia di guerra. Ci sono tanti negozi e tanti residenti che negli anni hanno goduto di quell’economia, appunto “indiretta”, creata dalla presenza degli stranieri, che hanno avuto nel tempo bisogno di manodopera. Progressivamente quella bolla economica è venuta meno. 

Tutte le persone che sono riuscito a intervistare hanno poi confermato le notizie uscite sui media internazionali. Non c’è stato un vero e proprio passaggio di responsabilità della base. Sembra, infatti, che gli americani non abbiano avvertito neanche l’amministrazione locale e che ci sia stato quindi un vuoto di autorità che ha permesso a decine di persone di entrare  e di portare via quel poco che era rimasto. 

Il modo in cui le truppe americane sono andate via dalla base, che è stato il cuore nevralgico dell’offensiva militare di questi venti anni, per gli afghani simboleggia un po’ l’atteggiamento proprio di Washington. Ovvero il mancato coinvolgimento degli afghani nelle decisioni più importanti, come avvenuto anche per l’accordo bilaterale con i talebani, che ha portato poi al ritiro delle truppe straniere. 

I talebani hanno dichiarato di avere sotto il proprio controllo l’85% del territorio afghano. Secondo lei è una stima reale? 

Non credo sia vero, facendo anche dei calcoli approssimativi. Oggi è difficile stimare la percentuale di territorio afghano nelle mani del movimento antigovernativo dei talebani. Quel che è vero è che nell’ultimo mese e mezzo, in particolare dal 1 maggio, i talebani hanno sferrato un’offensiva militare che non è pienamente dispiegata, nel senso che non stanno utilizzando pienamente le proprie forze, ma che ha portato alla conquista progressiva di diversi distretti. Penso che siano riusciti a conquistare almeno la metà dei quattrocento distretti che compongono il territorio afghano. 

A tale riguardo, ci sono due elementi da sottolineare. Piuttosto che la forza militare dei talebani, che già conoscevamo, perché in questi venti anni hanno saputo tenere una postura strategica anche di fronte a eserciti molto meglio organizzati, a stupire è la debolezza con cui la loro offensiva è stata accolta dalle forze di sicurezza nazionali afghane. 

Sono caduti interi distretti e diversi contingenti militari governativi sono stati accerchiati: come politicamente la vera forza dei talebani è la debolezza e il deficit di legittimità di cui gode il governo di Kabul, così militarmente la loro vera forza è la debolezza delle forze di sicurezza che in questi anni la NATO ha contribuito ad addestrare.

L’altro aspetto di cui tener conto è che le percentuali di territorio controllato non ci fanno comprendere due elementi molto importanti. Il primo è che si può controllare la maggioranza del territorio, ma non la maggioranza della popolazione. Così è oggi, perché le città principali sono sotto il controllo governativo. I talebani stanno progressivamente accerchiando queste aree, i capoluoghi di provincia. Sostengono che sarebbero in grado di farlo, ma dicono di evitarlo per scongiurare un ulteriore spargimento di sangue.

L’altro elemento è che ogni distretto che passa nelle loro mani implica in molti casi lo sfollamento di decine di migliaia di civili. Proprio in questi giorni è stato lanciato un allarme dall’Ufficio delle Nazioni Unite per i rifugiati che ricorda che dall’inizio di gennaio sono già duecentocinquantamila i civili afghani costretti a lasciare le proprie abitazioni. Nelle prossime settimane, ci saranno due tendenze migratorie prevalenti: una all’interno dei confini dell’Afghanistan, ossia lo sfollamento di tanti civili a causa del conflitto; l’altra invece è una tendenza già in atto, ossia una tendenza migratoria al di fuori del Paese. 

Quale situazione stanno vivendo i giornalisti e le giornaliste afghane sul campo?

I giornalisti e le giornaliste afghane stanno vivendo una situazione di estrema vulnerabilità. I talebani, prima ancora di quest’ultima offensiva militare, hanno dispiegato un’offensiva di natura diversa, in particolare nelle città più importanti, come anche nella capitale Kabul. Hanno attuato una strategia di omicidi mirati non solo contro i giornalisti, ma anche contro gli esponenti della società civile, o comunque contro coloro che in qualche modo rappresentano l’opposto rispetto ai valori che incarnano i talebani. 

Questi omicidi sono stati efficaci nel creare un clima di paura e di intimidazione. Decine e decine di colleghe hanno già lasciato il Paese, altri invece hanno dovuto abbandonare la propria carriera. Gli altri che resistono ricevono minacce nel loro luogo di lavoro, sui telefoni e qualcuno ha dovuto rinunciare a un profilo pubblico più esplicito per evitare di finire nella “lista nera” dei talebani. 

Continua a essere minacciata anche la minoranza hazara?

C’è una fortissima preoccupazione all’interno della comunità degli hazara, minoranza sciita perseguitata al tempo dell’Emirato dei talebani e che oggi rappresenta l’obiettivo esplicito della cosiddetta Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato Islamico

Nell’ultimo anno e mezzo, in particolare, il quartiere periferico sciita di Dashte-Barchi, a Kabul, è stato oggetto di ripetuti attacchi contro i civili. Sono stati colpiti autobus di civili, le scuole stesse. Sono stati attaccati centri culturali, palestre, luoghi di svago, persino un ospedale e il suo reparto di maternità gestito da Medici Senza Frontiere, nel quartiere di Dasht-e-Barchi. 

Questi attacchi preoccupano molto la comunità degli hazara. La Commissione indipendente per i diritti umani guidata da Shaharzad Akbar, proprio nelle settimane scorse e a ridosso del triplice attentato contro la scuola Sayed-ul-Shuhada nel quartiere di Dasht-e-Barchi, ha reso pubblico un appello (il primo di questo genere) alle Nazioni Unite, affinché si rechino con una missione sul campo per accertare le responsabilità di questi ultimi attentati

Si sono dovuti appellare alle Nazioni Unite perché il governo di Kabul, nonostante le rassicurazioni, non è in grado di accertare le responsabilità e la verità, benché continui a dichiarare di essere pronto e nonostante proprio nelle settimane scorse una delegazione governativa, guidata dal ministro degli Esteri Mohammad Hanif Atmar, sia andata all’Aja per scongiurare l’apertura di un’inchiesta da parte della Corte penale internazionale contro presunti crimini di guerra commessi in Afghanistan. 

C’è stata una recente offensiva militare a Qala-e-Now, capoluogo della provincia occidentale di Badghis, una regione che è stata per anni di competenza delle Forze armate italiane. A oggi, possiamo dire che Badghis è una provincia stabilizzata? 

L’Italia ha avuto la responsabilità del quadrante occidentale, che comprende quattro province: Herat, Farah, Badghis, Ghowr. Le ho potute visitare negli anni passati, oggi sarebbe impossibile. Il dato da rilevare è che in tutte queste province oggi si registrano forti scontri e una presenza talebana significativa. La città di Farah, capoluogo dell’omonima provincia occidentale, è accerchiata. 

A Qala-e Now, pochi giorni fa, c’è stato il tentativo di una spallata militare da parte dei talebani, che non sono riusciti o non hanno voluto conquistare la cittadina. La città di Herat rimane ancora nelle mani del governo, ma tutt’intorno ci sono scontri, in particolare nel distretto di Shindand, città piuttosto cruciale negli equilibri della provincia. Perfino a Ghowr si segnala la presenza dei talebani. Quindi no, la provincia non è stata affatto stabilizzata

In merito alla progressiva offensiva talebana, il governo di Kabul continua a negare la gravità della situazione sul campo. Dove sta la verità? 

In questo periodo è particolarmente intensa una guerra di propaganda da entrambi i lati. C’è un continuo rimpallo di dichiarazioni. Da una parte, appunto, come abbiamo visto, i talebani alzano il tiro, dichiarando di avere sotto il loro controllo l’85% del territorio; dall’altra, il governo di Ashraf Ghani sostiene di essere in grado di controllare la situazione. Nessuno dei due attori dice il vero, come sempre in questi casi

Il governo manca di unità e manca dell’appoggio e del sostegno della popolazione. Come dicevo prima, il principale elemento di forza dei talebani è la mancata legittimità da parte del governo, che sconta la sfiducia dei cittadini. Inoltre, c’è un quadro molto frammentato e molto diviso all’interno dello stesso governo centrale. 

A Doha c’è stato un incontro recente tra i talebani e una delegazione piuttosto rappresentativa di quello che viene chiamato il “fronte repubblicano”, che include al proprio interno personalità legate al governo guidato da Ashraf Ghani, ma anche attori che sono fuori dal governo ma che rivestono ruoli importanti, come l’ex presidente Hamid Karzai. Karzai era atteso a Doha, ma non è partito. A guidare la delegazione era Abdullah Abdullah, storico rivale di Ghani, oggi a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale. 

L’attuale presidente Ashraf Ghani pare abbia approvato l’improvvisa chiamata alle armi di alcuni ex-mujaheddin, nella speranza di arginare l’assalto dei talebani e calmare la situazione sul campo. Questa nuova alleanza potrebbe rappresentare una strategia vincente? 

L’alleanza di cui parla è la cosiddetta «moqawamat-e-do», la “seconda resistenza”. La “prima resistenza” era quella che c’è stata dalla seconda metà degli anni Novanta ai primi anni Duemila contro i talebani. Era portata avanti da quelli che abbiamo conosciuto come i rappresentanti della cosiddetta “Alleanza del nord”, i partiti a maggioranza tajika o hazara. Anche ora, i rappresentanti sono perlopiù gli esponenti di quella alleanza, vecchi warlord che negli anni hanno accumulato ricchezza e patrimoni e sono diventati poi delle personalità politiche.

Bisogna capire quanta capacità di mobilitazione abbiano oggi questi vecchi combattenti: un conto è mobilitare le masse sui social, come molti di loro stanno facendo. Mi riferisco all’ex governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor, che si è fatto riprendere al fronte di battaglia insieme al figlio Khalid Noor, prima di recarsi a Doha a negoziare con i talebani, parte della delegazione “repubblicana” di cui parlavamo. Oppure all’ex governatore di Herat, Ismail Khan, che nelle settimane scorse ha voluto fare un’esibizione di forza, poi rivendicata sui social. Però c’è da vedere di quante armi e di quanti uomini effettivamente dispongano. E di quanto le milizie possano operare in modo integrato, tra di loro e con l’esercito. Rimane un fatto: nella storia afghana, le milizie hanno sempre e comunque commesso abusi e crimini contro i civili.

I talebani, in questi anni, hanno affinato la loro strategia militare e possiedono una struttura di comando piuttosto integrata, sebbene sia decentralizzata sul territorio. Sanno molto bene cosa devono fare. 

Dal punto di vista governativo c’è una debolezza di fondo, perché in questi anni l’esercito è stato perlopiù dipendente dagli aiuti degli stranieri, in particolare dai bombardamenti degli americani, che oggi sono venuti meno e stanno venendo meno. L’aviazione afghana, invece, non è in grado di fare altrettanto e non è un caso che i talebani abbiano messo, anche qui, in campo una strategia di omicidi mirati contro i piloti. Già sette piloti sono stati uccisi. Sul fronte militare, la partita è tutta aperta, sebbene sembri che le aree dell’ovest, del nord-ovest e in parte del nord siano saldamente nelle mani dei talebani.

Il 7 luglio una delegazione talebana guidata da Abbas Stanekzai, figura chiave del movimento, ha incontrato a Teheran una delegazione del governo di Kabul. Che ruolo avrà la Repubblica Islamica d’Iran dopo il ritiro completo di Washington dal Paese?

 L’Iran condivide con l’Afghanistan un lunghissimo confine ed è sempre stato molto presente. Il problema è che un attore ingombrante come gli Stati Uniti è finito nel “cortile di casa” dell’Iran. Una cosa che, ovviamente, gli iraniani non hanno mai gradito.

Sappiamo bene i rapporti molto tesi che esistono tra la Repubblica Islamica d’Iran e il governo degli Stati Uniti, la cui presenza ventennale in Afghanistan non è mai piaciuta a Teheran. Che ha addirittura rinunciato a una fortissima ostilità verso i talebani, che hanno rappresentato, e costituiscono ancora oggi, un pericolo per la teocrazia sciita. Nel corso degli anni, l’Iran ha ospitato alcuni talebani e ha fatto in modo che gli ex nemici diventassero propri interlocutori. 

All’inizio l’obiettivo era quello di contrastare gli Stati Uniti, oggi si tratta invece di immaginare un rapporto diplomatico alla luce di una nuova consapevolezza: i talebani torneranno al potere, anche se sarà presumibilmente una forma di potere condivisa. Non è un caso che, pochi giorni fa, una delegazione di talebani e una delegazione del governo di Kabul siano state accolte a Teheran dal ministro degli Esteri Javad Zarif, che ha tentato di mediare fra le due parti e si è detto pronto a farlo anche in futuro

L’8 luglio il ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il suo omologo americano Lloyd Austin hanno discusso telefonicamente l’accordo preliminare Usa-Turchia in base al quale la Turchia si impegna a garantire la sicurezza dall’aeroporto internazionale di Kabul dopo il ritiro degli Stati Uniti. Che ruolo ritiene potrà assumere Ankara in Afghanistan? 

Il ruolo di Ankara è un ruolo diverso. La Turchia ha uno statuto ibrido: fa parte dell’Alleanza Atlantica, ma allo stesso tempo è un Paese a maggioranza musulmana. In questi anni ha contribuito alla sicurezza dell’aeroporto di Kabul, che mantiene una centralità strategica per tutta la comunità internazionale. Senza la viabilità dell’aeroporto di Kabul non ci sarebbe la comunità internazionale, perché è il luogo attraverso il quale le delegazioni delle ambasciate possono lasciare e arrivare nel Paese.

Proprio oggi i talebani hanno reso pubblico un documento in cui avvertono i turchi che anche loro vengono considerati dei soldati stranieri. I talebani si aspettano che anche la Turchia ritiri i propri soldati dall’Afghanistan nelle prossime settimane. Ma il presidente turco Erdoğan è convinto che si tratti di una mossa per la propaganda interna e di poter trovare un accordo anche con i talebani.

Chi sono oggi gli interlocutori dei talebani? 

I talebani stanno riallacciando i rapporti con tutti. Oggi, anche grazie all’accordo bilaterale firmato con gli Stati Uniti nel febbraio del 2020, hanno ottenuto una patente di legittimità istituzionale che hanno sfruttato ampiamente. I talebani interloquiscono con Mosca, con Teheran, con Pechino e anche con alcuni Paesi dell’Asia centrale. Stanno costruendo e rivedendo la loro “cintura diplomatica”, e lo stesso fanno i Paesi della regione. 

Quest’ultimi, da una parte, sono consapevoli di dover trattare con quelli che saranno gli interlocutori politici del prossimo governo afghano e, dall’altra, sanno anche che questi interlocutori politici non sono neanche troppo affidabili, vanno imbrigliati affinché non pensino di ottenere il potere esclusivamente per via militare. 

Questa è la preoccupazione di molti governi dell’area, che sanno che i talebani sono forti, ma che non vogliono che siano così forti da essere in grado di tornare al potere in via egemonica

 

 

Editing a cura di Niki Figus 

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