Criminalizzazione attraverso la comunicazione

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In tempi di ascesa di partiti e leader populisti, si sente spesso ripetere che uno dei primi presupposti della salute degli ordinamenti democratici consiste nel livello di informazione dei cittadini. 

Se prima dell’avvento dei social network erano soprattutto i mass media a plasmare il dibattito pubblico, oggi il circuito informativo appare estremamente complesso e diversificato. Anche se i professionisti dell’informazione non hanno affatto perso la propria funzione – anzi -, grazie alla disintermediazione la politica oggi può rivolgersi direttamente all’opinione pubblica, saltando così il proprio “filtro” classico. 

In questo processo, chi ricopre le cariche istituzionali detiene pertanto un potere decisivo nell’individuare le priorità del dibattito e, in particolare, nel condizionare la comprensione dei cittadini in merito ai temi. A partire dalle “semplici” scelte linguistiche, gli stereotipi culturali possono essere rafforzati o trasformati, in funzione delle esigenze di chi si trova al potere. La narrazione, di fatto, ridefinisce il senso comune e gli stessi confini della comunità. 

Nel contesto statunitense, il dibattito pubblico è stato ed è una sostanziale creazione della maggioranza WASP (White Anglo-Saxon Protestant, i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante), la quale, oltre a disegnare le cornici normative dell’attuale società a stelle e strisce, ha storicamente imposto la percezione degli eventi e dipinto barriere concrete e metaforiche tra sé e le minoranze. Uno degli strumenti utilizzati dai white men in power per conservare i propri privilegi è la “criminalizzazione”, un meccanismo attraverso cui le minoranze vengono marginalizzate ed escluse da quel percorso di progresso di cui gli Stati Uniti, in ogni epoca storica, si sono auto-descritti come gli alfieri.

Importanza delle metafore nel dibattito pubblico

L’utilizzo di metafore nel dibattito pubblico è ormai una costante fra le autorità pubbliche e gli esponenti delle istituzioni. Di tutte le figure retoriche la metafora è la più facile da riconoscere e la più difficile da definire. Una metafora implica, infatti, un trasferimento di significato e tutte le tradizionali e insoddisfacenti definizioni possono essere compendiate nella seguente: sostituzione di una parola con un’altra il cui senso letterale ha una qualche somiglianza col senso letterale della parola sostituita.

Alle classiche definizioni linguistiche e grammaticali vanno poi associati gli studi e l’apporto dato all’argomento dalla linguistica cognitiva. George Lakoff, professore di linguistica all’Università di Berkeley, è stato tra i primi ad approfondire la tematica legando alle parole i concetti, a partire dall’analisi delle cornici (frame) dove queste vengono espresse. 

Analizzando il discorso politico statunitense, Lakoff porta la sua analisi a un altro livello, focalizzandosi su più casi empirici. Guardando alla politica estera del post 11 settembre, ad esempio, Lakoff parla di “metafore del terrore” analizzando il frame governativo adottato dall’amministrazione Bush. Il primo frame utilizzato è stato quello del crimine, con tanto di vittime e colpevoli che saranno “trascinati davanti alla giustizia e puniti”. 

Tuttavia ben presto, passando attraverso l’immagine della guerra, David Frum, autore dei discorsi di Bush, creò l’espressione ben più calzante di “asse del male”, utilizzata dal presidente nel discorso sullo stato dell’Unione del 2002 per riferirsi a Iran, Corea del Nord e Iraq. La metafora concettuale allargava quindi il campo, richiamando col termine “asse” gli avversari della Seconda guerra mondiale e connotando di una certa morale la parola “male”. Senza dare giudizi nel merito, l’espressione ebbe un certo innegabile successo nell’opinione pubblica statunitense.

Questo tipo di operazione linguistico-cognitive vengono realizzate continuamente nella contemporaneità del dibattito pubblico di ogni contesto politico. Negli Stati Uniti molte di queste operazioni sono state utilizzate per criminalizzare attraverso la comunicazione minoranze e determinate categorie sociali. Hate speech alimentati  da politiche restrittive e bias dovuti a questioni razziali attraversano il presente del dibattito pubblico statunitense, costantemente alimentati dalla diffusione di odio e false notizie sui social network. Gli esempi sono ben noti e possono essere verificati tranquillamente facendo un giro sul web, ma a volte anche leggendo le dichiarazioni di politici e professionisti della comunicazione.

Proprio sulla questione della diffusione di odio on-line nei confronti delle minoranze, in un recente rapporto pubblicato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, si auspica che gli Stati e le società tecnologiche e dei social media possano adottare una politica di tolleranza zero verso l’incitamento all’odio, i crimini d’odio e il razzismo contro le minoranze.

Neoliberismo e criminalizzazione

Come tutti i sistemi di pensiero, anche quello neoliberista ha sviluppato nel corso del tempo un proprio linguaggio e, associate a questo, particolari rappresentazioni mentali dell’esperienza quotidiana. Per comprendere il legame tra tale ideologia e la criminalizzazione, intesa come l’insieme delle politiche e delle pratiche che puntano a circoscrivere il perimetro dei diritti di un gruppo sociale in funzione del suo controllo, si deve guardare nello specifico alla concezione neoliberista dell’individuo e dello Stato

Il primo è rappresentato nei termini di un’unità-economica: per i teorici neoliberisti, le persone sono sostanzialmente imprese che, quando operano delle scelte in una qualsivoglia dimensione sociale, in realtà stanno investendo il proprio “capitale umano”. La responsabilità individuale, quindi, ricopre un ruolo fondamentale nel determinare la posizione ricoperta dal singolo nella società, in cui le persone sono costrette a competere e concorrere tra di loro. 

Lo Stato, date queste premesse, viene visto come un attore economico inutile quando non dannoso, il cui intervento deve essere limitato al fine di garantire che la concorrenza tra soggetti economici sia libera di fare il suo corso, selezionando continuamente tra vincenti e perdenti. Ma se “lo Stato non può eliminare la povertà”, come ebbe a dire il presidente Carter, c’è una dimensione nella quale lo Stato neoliberista possiede al contrario una forza unica: la difesa dello status quo generato dai meccanismi economici. 

Le istituzioni statuali devono pertanto rimodulare la propria funzione principale: dalla distribuzione del benessere, questa diventa l’azione punitiva nei confronti della devianza. In questo modo, il modello di Stato sociale lascia il posto a quello di Stato penale. Si tratta di una trasformazione radicale, affrontata non soltanto dagli Stati Uniti ma anche da altri Paesi, che ovunque è stata accompagnata da una vera e propria battaglia retorica condotta dalle élite politiche e dai centri di interesse economico.

L’esempio della Welfare Queens

A partire dagli anni Ottanta, l’avanzata neoliberista ha messo in discussione la percezione dell’opinione pubblica sul ruolo dei cittadini, dello Stato e non solo. Ma in molti casi, essa ha esasperato gli stereotipi radicati nella popolazione statunitense, rafforzando pregiudizi e discriminazioni di genere, razza e classe. A subire la narrazione dominante, insieme alla sua traduzione normativa, sono state le comunità più svantaggiate, le quali sono state nei fatti duramente combattute dalle istituzioni sul piano politico, sociale ed economico. Mentre la riduzione dei fenomeni sociali alla dimensione personale, potendo contare su un importante sostrato culturale individualistico, favoriva l’abbandono di una corretta lettura sistemica della realtà, in ognuno di questi ambiti le disparità aumentavano enormemente

Uno degli stereotipi più potenti utilizzati già durante la campagna elettorale di Reagan è quello della “welfare queen”, in italiano “regina del welfare”. Senza fare esplicito riferimento alla dimensione razziale, in realtà questa rappresentazione provoca un potente stimolo nella popolazione bianca, in quanto costruita su due idee principali che storicamente sono state associate, entrambe, alla comunità afroamericana. La prima: le persone nere beneficerebbero dei sussidi dello Stato non a causa delle condizioni di vulnerabilità strutturale cui sono spesso relegate, ma perché troppo pigre per lavorare. La seconda: le madri afroamericane sarebbero irresponsabili, incapaci di badare autonomamente a sé stesse e ai propri figli. Di conseguenza, le regine del welfare sarebbero disposte a tutto, dall’utilizzo di diverse identità alla pura invenzione di difficoltà personali, per aggirare lo Stato federale e riuscire a vivere alle spalle degli onesti cittadini statunitensi. In questa cornice rientrano e si intrecciano pertanto odio razziale, misoginia e aporofobia.

L’espressione risale agli anni Sessanta del Novecento, quando, di fronte a un numero crescente di madri single afroamericane nelle liste dei beneficiari dei programmi di welfare, politici e giornalisti conservatori cominciarono a diffondere e amplificare stereotipi sessisti e razzisti per diminuire la spesa sociale. Tuttavia, fu nell’era di Reagan che la metafora raggiunse una nuova potenza di fuoco, contribuendo in maniera determinante a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle cause sistemiche alla presunta “colpa” delle singole famiglie nere, il cui comportamento era da delegittimare a tutti i costi per preservare l’identità statunitense. Da qui la retromarcia neoliberista sulle questioni sociali, sui diritti delle comunità, sul ruolo dello Stato in quanto necessario attore pubblico, per il pubblico. 

Come ha fatto giustamente notare Francesca Coin, la “più spietata demonizzazione dei soggetti più vulnerabili della società” è tutt’altro che finita; non solo negli Stati Uniti, l’ideologia della disuguaglianza è ancora oggi ampiamente diffusa. Quando i mezzi di comunicazione ci riportano storie di devianza, dovremmo sempre fare attenzione e porci due domande, semplici ma non scontate: “chi sta etichettando i soggetti devianti in questo modo” e “a che fine”. Nessuna narrazione è neutrale: nel trovare le risposte, non dovremmo esserlo neanche noi.

 

Fonti e approfondimenti

Cammett, A. (2014). “Deadbeat dads & welfare queens: How metaphor shapes poverty law”. Boston College Journal of Law & Social Justice

Cammett, A. (2016). “Welfare queens redux: Criminalizing Black mothers in the age of neoliberalism”. Southern California Interdisciplinary Law Journal. 

Cavaliere, A. (2018). “Neoliberismo e politica criminale repressiva”. Costituzionalismo.it ~ Fascicolo n. 1.

Coin, F., “Economia da caccia alle streghe”, Jacobin, 05/03/2020.

Covert, B., “The Myth of the Welfare Queen”, The New Republic, 02/07/2019. 

D’Eramo, M. (2020). “Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”. Feltrinelli.

Davis, A. Y. (2011). “Are prisons obsolete?”. Seven Stories Press.

Lakoff, G. (2019). “Non pensare all’elefante!”. Cles (TN). Chiarelettere.

Mortara, Garavelli, B. (2010). “Il parlar figurato”. Bari. Editori Laterza.

Report: Online hate increasing against minorities, says expert, Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights.

 

Editing a cura di Cecilia Coletti

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