Dallo Zimbabwe al Sudan: l’Africa dei colpi di stato militari

Un soldato imbraccia un fucile durante un colpo di stato in Africa. Sullo sfondo i bagliori delle luci che illuminano la notte
@Mike Maguire - Flickr - CC BY 2.0

A seguito dei fatti dello Zimbabwe, nel novembre del 2017, abbiamo pubblicato un articolo per descrivere il trend dei colpi di stato in Africa. Secondo quanto riportato, il numero di tentati coup d’état in Africa si è mantenuto alto, una media di quattro all’anno, per tutto il periodo della Guerra Fredda e nel decennio successivo (come illustra anche Patrick J. McGowan in African Military coups d’état, 1956-2001: Frequency, Trends and Distribution), per poi diminuire successivamente. Infatti, come si deduce dalle informazioni raccolte nel dataset costruito da Powell e Thyne, la media annuale tra il 2001 e il 2019 è scesa a due.  

Negli ultimi anni, però, si è registrata una nuova crescita. Dopo lo Zimbabwe, tenendo conto dell’assenza di tentativi di sovvertire il potere da parte dei militari nel 2018, l’Africa è stata teatro di nove tentati colpi di stato militari, la metà dei quali ha avuto successo. 

A confermare la tendenza, i fatti dei giorni scorsi in Sudan, dove i militari hanno interrotto l’esperienza di collaborazione con i civili e hanno ripreso il potere, interrompendo di fatto il processo di transizione iniziato dopo la caduta di al-Bashir nel 2019. 

I più recenti colpi di stato in Africa 

Nel dicembre del 2017, poco più di un mese dopo i fatti dello Zimbabwe, secondo quanto riportato dal Ministero della Sicurezza della Guinea Equatoriale, dei mercenari ingaggiati da alcune frange dell’esercito hanno provato, fallendo, a spodestare il presidente Teodoro Obiang Nguema. I mercenari sono stati fermati al confine grazie a un intervento delle forze di sicurezza. Nguema, al tempo, era al potere da trentotto anni, oggi quarantadue. Nonostante il regime autoritario e l’assenza, per la popolazione, di benefici derivanti dai giacimenti petroliferi presenti nel Paese, non si sono mai registrati particolari episodi di dimostrazione di dissenso. Soltanto i tentativi di colpo di stato, tutti senza successo, del 2002, 2003, 2004 e 2017 hanno dimostrato una relativa instabilità politica. 

Dopo un 2018 tranquillo per i capi di Stato africani, nel 2019 sono stati registrati due colpi di stato falliti, in Gabon e in Etiopia, e uno di successo, in Sudan. 

Secondo quanto raccontato dalla BBC, in Gabon cinque giovani ufficiali, dopo aver preso il controllo dei media nazionali, hanno chiesto il supporto della popolazione per sostituire Ali Bongo. Il presidente in carica era da tempo assente dal Paese a causa delle sue precarie condizioni di salute e, secondo i giovani ufficiali, non era più in grado di governare. Ali Bongo, ancora oggi al potere, è il figlio di Omar Bongo, che ha governato il Paese per quarantadue anni, fino alla sua morte nel 2009. Il passaggio da padre a figlio fa sembrare ereditario il ruolo di presidente del Gabon. 

I golpisti etiopi non avevano come obiettivo il governo centrale di Addis Abeba, ma quello dello Stato di Amhara, nel nord del Paese. Il Generale Asamnew Tsige venne accusato di aver orchestrato il tentato colpo di stato che aveva portato all’uccisione, tra gli altri, del presidente dello Stato di Amhara e del capo delle forze armate. È facile credere che le ragioni alla base fossero le stesse delle proteste che avevano già portato alle dimissioni di Hailemariam Desalegn e che denunciavano la marginalizzazione politica ed economica degli amhara. 

Dopo la deposizione di Mugabe, quello sudanese è il primo colpo di stato di successo, almeno nel destituire il presidente in carica, Omar al-Bashir. Il Sudan era un Paese impoverito dalle sanzioni e dalla perdita delle rendite derivanti dal petrolio (molti giacimenti erano passati al Sud Sudan indipendente) e governato da quasi trent’anni da Omar al-Bashir. Le proteste organizzate dalla Sudanese Professional Association (SPA) contro il caro prezzi, e poi contro il governo di al-Bashir, riempirono le strade di Khartoum di giovani e donne per mesi, fino all’intervento dei militari. La presa di potere da parte del gruppo guidato dal vicepresidente e ministro della Difesa, il Tenente Generale Ahmed Awad Ibn Auf, non era però ciò che i manifestati auspicavano: il rischio era che i golpisti fossero troppo vicini ad al-Bashir e che la sua destituzione non portasse nessun cambiamento. Dopo i fatti del 2019, militari e civili hanno tentato di convivere e portare avanti il processo di transizione alla democrazia. Lo scorso 21 settembre, però, un tentato golpe ha riacceso lo scontro. Nei giorni successivi, alcuni manifestanti sono scesi in piazza chiedendo il ritorno al governo dei militari che, lunedì 25 ottobre, hanno “arrestato” il Primo Ministro Abdalla Hamdok, sciolto il governo e dichiarato lo stato di emergenza. 

Gli ultimi due anni sono stati particolarmente accesi: i militari sono infatti intervenuti due volte in Mali e poi in Repubblica Centrafricana, Niger, Ciad e Guinea, oltre ai fatti del Sudan precedentemente citati. 

Il Mali è stato protagonista di un colpo di stato nel 2020 e uno nel 2021. Il primo, che ha portato alle dimissioni del presidente Ibrahim Boubacar Keïta, è arrivato, anche in questo caso, dopo mesi di proteste contro la corruzione del governo, la gestione della pandemia da Covid-19, le condizioni economiche del Paese e le presunte irregolarità delle elezioni parlamentari di qualche mese prima. Il governo di transizione formatosi a seguito della destituzione di Keïta sarebbe dovuto durare diciotto mesi, a seguito dei quali sarebbero state indette le elezioni. Ma nel maggio 2021, presidente e primo ministro del governo di transizione, Bah Ndaw e Moctar Ouane, sono stati arrestati e hanno dovuto rassegnare le dimissioni. La causa dell’arresto è stata il rimpasto di governo da loro attuato per evitare nuovi malcontenti tra la popolazione, di cui però i militari, in particolare il Colonnello Assimi Goita, tra i golpisti dell’anno precedente e oggi vicepresidente, non sarebbero rimasti soddisfatti.

Nel 2020, in Repubblica Centrafricana, le forze fedeli all’ex presidente François Bozizé sono state accusate di aver tentato di entrare nella capitale, Bangui, dopo che la candidatura di Bozizé alle elezioni che si sarebbero tenute qualche settimana dopo era stata rigettata. 

Nel 2021 anche in Niger c’è stato un tentato golpe, a pochi giorni dal giuramento del nuovo presidente Mohamed Bazoum, che ha sostituito con una transizione pacifica (la prima della storia del Niger indipendente) Mahamadou Issoufou, alla fine del suo secondo mandato. Il suo sfidante, Mahamane Ousmane, sconfitto al ballottaggio, non ha però accettato i risultati e i suoi sostenitori hanno organizzato manifestazioni per le strade della capitale, Niamey. Le tensioni che hanno seguito le elezioni hanno probabilmente creato terreno fertile per l’intervento di alcuni ufficiali dell’aeronautica. Aver sventato il golpe e permesso al nuovo presidente di giurare pochi giorni dopo è comunque un risultato positivo, in termini di transizione democratica, per un Paese in cui i colpi di stato hanno segnato il 1974, 1996, 1999 e 2010. 

Nell’aprile dello stesso anno, in Ciad l’opposizione ha denunciato un «colpo di stato dinastico», poiché una giunta militare, alla morte del neo-rieletto Idriss Déby, ha nominato presidente suo figlio, il Generale Mahamat Idriss Déby, che guiderà il Consiglio Militare di Transizione per diciotto mesi, fino alle elezioni. 

L’ultimo golpe, in questo caso di successo, è stato quello della Guinea. Lo scorso 5 settembre, le forze speciali hanno messo fine alla presidenza di Alpha Condé, eletto nell’ottobre 2020. Le ultime elezioni presidenziali erano state controverse e avevano alimentato il dissenso nei confronti del presidente, ormai al suo terzo mandato. Positiva la reazione di molti cittadini, convinti che non ci fossero altri modi per destituire Condé. Il 1 ottobre, il capo della giunta militare, Mamadi Doumbouya, ha giurato come nuovo presidente alla guida del governo di transizione, promettendo che redigerà una nuova costituzione, combatterà la corruzione e organizzerà libere elezioni. 

Le ragioni dei colpi di stato

Powell e Chacha affermano che la destituzione di Mugabe è «l’ultimo capitolo» dell’era dei colpi di stato utili a mettere fine ai governi lunghi decenni. Gli esempi sopracitati, però, ci dicono il contrario: i casi della Guinea Equatoriale e del Sudan, e in un certo senso anche il tentativo fallito in Gabon, lo dimostrano. Seguendo quindi il pensiero di Ndubuisi Christian Ani, le rivolte popolari contro i governi di vecchia data sono una delle ragioni del ritorno dei colpi di stato in Africa.  

Così come nei decenni successivi alle indipendenze, anche oggi, corruzione, povertà, disoccupazione e inefficacia delle politiche pubbliche sono al centro delle proteste che precedono i colpi di stato, alimentate anche dagli effetti della pandemia. Il peso di questi fattori nelle proteste era diminuito a partire dagli anni Settanta, quando si percepiva che fosse in atto un progressivo miglioramento. Oggi, al contrario, la percezione è che la corruzione aumenti, le condizioni economiche peggiorino e i governi rispettino sempre meno le costituzioni sulle quali hanno giurato. Cresce la convinzione che le elezioni siano manovrate e che non porteranno quindi a cambiamenti. In questo clima di sfiducia verso le istituzioni democratiche, azioni militari, terrorismo ed estremismi sono sempre più frequenti. 

I militari che salgono al potere si presentano dunque come portavoce delle richieste delle popolazioni e promettono cambiamenti e un rapido ritorno alla gestione democratica dello Stato. Comune è la pratica della dissimulazione: i militari affermano spesso che non stanno eseguendo un colpo di stato, ma stanno disegnando una strada pacifica verso la democrazia. Per esempio, ottenendo il supporto del Parlamento o, quando tutte le istituzioni vengono sciolte, l’appoggio di alcuni partiti, oppure indicendo elezioni in tempi relativamente brevi, riescono a guadagnarsi non solo il consenso della popolazione, ma anche l’inazione della comunità internazionale.

Anche se e quando i militari si fanno portavoce delle richieste delle popolazioni, la loro effettiva soddisfazione non è mai garantita. Inoltre, l’utilizzo di mezzi non costituzionali per il passaggio di potere e l’instaurazione, anche se temporanea, di un governo di militari, va ad alterare, se non interrompere, almeno momentaneamente, i processi di democratizzazione.

La probabilità che continueremo ad assistere a colpi di stato frequenti nei prossimi anni è alta. Le ragioni che spingono le popolazioni a manifestare e i militari a cogliere l’occasione per intervenire si stanno acuendo e le conseguenze della pandemia (per esempio cattiva gestione dei fondi ricevuti, settori sanitari inefficienti e assenza di misure di supporto per i settori economici colpiti) saranno un ulteriore peso per i governi dei Paesi più fragili.

 

Fonti e approfondimenti 

Adekoya, Remi, “Why are coups making a comeback in Africa?, CNN, 13/09/2021.

Al Jazeera, “Sudan security forces detain PM Abdalla Hamdok, ministers“, 25/10/2021.

Al Jazeera, “Niger: Attack on presidential palace an ‘attempted coup’”, 03/03/2021.

The Guardian, “Suspected mastermind of Ethiopia coup attempt shot dead, says official, 24/06/2019.

Jibrin, Ibrahim, “Coups and the spectre of military rule in West Africa, Premium Times, 10/09/2021.

Keulder, Christiaan, “Africans see growing corruption, poor government response, but fear retaliation if they speak out, Afrobarometer dispatch No. 421, 26/01/2021.

Mwai, Peter, “Guinea coup: Are military takeovers on the rise in Africa?, BBC, 7/09/2021.

Mumbere Daniel, “Equatorial Guinea confirms ‘failed’ coup against the president, Africanews, 03/01/2018.

The New York Times, “Attempted Coup Leaves Ethiopia’s Army Chief and 3 Senior Officials Dead”, 23/06/2019.

Powell, Jonathan, & Mwita Chacha. 2019. “Closing the Book on Africa’s first generation coups”. African Studies Quarterly. 18(2): 87-94.

Sá, Ana Lúcia, & Edalina Rodrigues Sanches. 2021. “The politics of autocratic survival in Equatorial Guinea: Co-optation, restrictive institutional rules, repression, and international projection”. African Affairs. 120(478): 78-102. 

Walsh, Declan, “The Fall of Omar Hassan al-Bashir, the ‘Spider’ at the Heart of Sudan’s Web, The New York Times, 11/04/2019.

 

 

Editing a cura di Niki Figus 

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