Il dopo elezioni iracheno: il Paese sull’orlo del baratro

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Nelle prime ore della notte di domenica 7 ottobre, un drone pilotato da remoto e carico di esplosivo ha colpito la residenza dell’attuale Primo ministro ad interim dell’Iraq, Mustafa al-Kadhimi (mentre due Unmanned Aerial Vehicle con lo stesso equipaggiamento sono stati intercettati e abbattuti). Nonostante il premier sia sopravvissuto al tentato omicidio, l’evento rappresenta il culmine delle tensioni nello scenario post-elettorale iracheno. 

Dal 10 ottobre, data delle ultime elezioni, l’Iraq si è trovato a fare i conti con un’impasse politica che, ad oggi, mette a rischio la già fragile stabilità del Paese. Gli attori nazionali e internazionali affacciati alla finestra sono molti, e mentre le tensioni confessionali aumentano, l’Iraq si trova nuovamente a due passi dal baratro.

L’Iraq a poco più di un mese dalle elezioni: la crisi politica e il rischio di violenze inter-comunitarie

I risultati delle elezioni parlamentari del 10 ottobre – in realtà previste per il 2022, ma anticipate a causa delle proteste ininterrotte dal 2019 – hanno sancito, come primo risultato, la dura sconfitta dei proxies iraniani. L’Alleanza al-Fatah, coalizione di stampo sciita rappresentante le milizie filo-iraniane delle Forze di mobilitazione popolare (PMF) (nate come resistenza all’invasione statunitense del 2003, ma affermate nel 2014 come reazione della comunità sciita irachena alle minacce dello Stato islamico), è uscita dalle urne totalmente ridimensionata guadagnando solo 17 seggi, 31 in meno rispetto alle elezioni del 2018.

L’altra coalizione sciita appoggiata da Teheran, Stato di diritto (in arabo I’tilāf Dawlat al-Qānūn), ha vinto 34 seggi, affermandosi come la terza forza politica del Paese. Entrambe le fazioni filo-iraniane hanno perso consensi proprio a causa dei legami con Teheran, da anni uno degli attori più influenti e “invasivi” negli affari interni iracheni. Di fatto, i voti degli sciiti, la maggioranza confessionale del Paese, sono confluiti nel Blocco Sairoon, guidato dal Movimento Sadrista del religioso e politico sciita Muqtada al-Sadr, di stampo nazionalista e populista e avverso alle ingerenze iraniane tanto quanto a quelle statunitensi. Con soli 73 seggi, però, il Movimento Sadrista non è in grado di formare un esecutivo con le proprie forze e stipulare alleanze in uno scenario politico come quello iracheno attuale potrebbe risultare estremamente complicato. 

Infatti, sia il Movimento Taqaddum (“Progresso”), seconda forza politica del Paese con 37 seggi e rappresentante la minoranza sunnita, sia il Partito democratico del Kurdistan, 33 seggi e quarto partito più votato, hanno deciso di mantenere una posizione di equidistanza da tutte le parti in gioco – gli sciiti filo-iraniani riunitisi nel Quadro di Coordinamento sciita e gli sciiti populisti –  con l’intento di evitare ritorsioni o modifiche ai già fragili rapporti di forza etnici e confessionali. I diciotto anni del dopo Saddam, tra occupazione statunitense, guerra civile, crisi sociale ed economica atavica e l’esperienza della lotta allo Stato islamico (2014-2018) hanno reso l’equilibrio tra comunità ancora più instabile.

Pochi giorni dopo lo scrutinio dei voti, a risultati annunciati, le fazioni del Quadro di Coordinamento sciita (Alleanza al-Fatah e la Coalizione Stato di diritto le più importanti) hanno chiesto il riconteggio manuale delle preferenze espresse in alcuni seggi, in cui i risultati delle formazioni legate alle PMF e alle altre milizie filo-iraniane erano stati ben al di sotto delle aspettative. L’Alta Commissione elettorale irachena, accogliendo una minima parte dei ricorsi presentati, ha provveduto poi alla ridistribuzione dei seggi, con cambiamenti irrisori. 

Con il passare delle settimane e l’impasse politico ormai confermato, vista l’impossibilità di formare né un governo monocolore né uno di larghe intese a causa dei fragili equilibri non solo politici ma anche sociali, la tensione è rapidamente aumentata fino a quando, a causa dei continui rifiuti dell’Alta Commissione elettorale di accogliere ulteriori richieste di riconteggio, il Quadro di Coordinamento sciita ha annunciato l’intenzione di boicottare il processo di formazione del governo e di non far parte del futuro esecutivo del Paese. Tuttavia, in molti pensano che un tale rifiuto sia parte di una strategia di contrattazione politica che non rappresenta la posizione di tutte le fazioni sciite riunite nel Quadro di Coordinamento e le milizie delle PMF, vista la recente apertura di alcuni leader sciiti al dialogo politico con diverse fazioni, tra cui i partiti curdi.

Un breve excursus per capire l’Iraq: cosa sono le Forze di mobilitazione popolare

La nascita delle PMF, milizie che giocano tutt’oggi un ruolo di primaria importanza nel panorama politico iracheno grazie alla loro partecipazione all’Alleanza al-Fatah, coincide con l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, ma le ragioni di una tale influenza sul Paese sono conseguenze dirette dell’ascesa del sedicente Stato islamico. Nel 2014, con le ripetute sconfitte subite dall’esercito nazionale iracheno e i rischi corsi dalla popolazione sciita, considerata dallo Stato islamico alla stregua di eretici e quindi tra le più perseguitate, si rese necessaria la formazione di forze armate paramilitari. 

Con l’appoggio dell’allora premier iracheno sciita Nuri al Maliki, in disperato bisogno di reclutare combattenti – specialmente sciiti, al fine di preservare il predominio confessionale nelle istituzioni – e la benedizione del più importante clerico iracheno, l’ayatollah al-Sistani, le PMF nacquero ufficialmente nel 2014. I successi ottenuti contro l’Isis spinsero il governo di Baghdad a integrare le PMF nelle forze armate ufficiali. 

Ad oggi, però, il processo di integrazione con l’esercito regolare stenta a partire e alcune delle milizie presenti hanno ramificato i loro interessi nello Stato iracheno agendo indipendentemente dall’autorità centrale. Se infatti è vero che molte delle milizie principali – come l’Organizzazione Badr, braccio armato del partito sciita Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq e risalente agli anni Ottanta; Asa’ib Ahl al-Haq, finanziato e addestrato dai pasdaran delle Forze Quds iraniane; Kata’ib Hezbollah attiva anche in Siria e con solidi legami con i libanesi sciiti di Hezbollah – sono strettamente legate a Teheran, è anche vero che altre gestiscono unicamente gli interessi delle tribù di appartenenza, senza farsi coinvolgere nelle operazioni orchestrate da Teheran.

Il tentato assassinio di al-Kadhimi: il dito puntato contro le Forze di Mobilitazione popolare

Pochi giorni dopo l’attentato del 7 novembre, il Primo ministro iracheno ha dichiarato di essere a conoscenza dell’identità dei mandanti. Scartata l’ipotesi del terrorismo di matrice islamica, i sospetti sono ricaduti sui grandi sconfitti delle elezioni: l’Alleanza al-Fatah, rappresentante le milizie delle PMF, e i suoi alleati. Infatti, se da un lato lo Stato islamico ha già messo in atto attacchi terroristici utilizzando droni, dall’altro la mancata rivendicazione che solitamente accompagna azioni di tale calibro, lascia scettici su un eventuale partecipazione jihadista. 

Gli interessi delle PMF, invece, spesso coincidono con quelli dell’Iran, poco restio nell’elargire armi e finanziamenti e nell’utilizzare le milizie paramilitari sciite come strumento di pressione a livello politico oltre che militare, come nel caso dell’attacco perpetrato in Siria contro la base americana di al-Tanf. Dal canto suo, Teheran ha prima rigirato le accuse ricevute verso Stati Uniti e Israele e poi rassicurato il premier al-Kadhimi sull’estraneità ai fatti della Repubblica islamica, offrendo anche il sostegno delle Forze Quds nello svolgimento delle indagini. Anche le milizie più legate all’Iran hanno negato il proprio coinvolgimento: Asa’ib Ahl al-Haq ha accusato Tel Aviv, mentre Kata’ib Hezbollah sostiene che l’attacco sia stato orchestrato dal Primo ministro stesso con l’intento di nuocere all’immagine delle milizie sciite.

Ad accreditare i sospetti nei confronti dell’Alleanza al-Fatah e le PMF ci sono diversi eventi degli anni recenti che delineano una sorta di modus operandi delle milizie filo-iraniane riscontrabile anche nell’attentato al Primo ministro. Nel 2020, quando al-Kadhimi provò a integrare le milizie del PMF all’interno delle forze di sicurezza nazionali, togliendo margine allo spazio di manovra iraniano nel Paese, Teheran e le frange più oltranziste delle stesse PMF reagirono con decisione. Nell’estate del 2020, infatti, diversi razzi di fabbricazione iraniana furono lanciati su obiettivi stranieri o governativi nella Zona verde di Baghdad, il quartiere centrale ad alta sicurezza che ospita le residenze delle più importanti cariche istituzionali e le ambasciate estere. 

Nel maggio di quest’anno, invece, manifestanti organizzati dall’Alleanza al-Fatah hanno circondato gli uffici del premier in una dimostrazione pubblica per fare pressione sul governo e spingerlo a rilasciare Qassem Musleh, il comandante delle PMF della regione dell’Anbar arrestato e accusato di aver ordinato l’assassinio di Ihab al-Wazni, un attivista critico verso le attività dei gruppi armati del Paese. Il rischio di uno scontro armato con la polizia irachena e una possibile conseguente guerra civile spinsero al-Kadhimi a rilasciare Musleh e a ritirare le accuse nei suoi confronti. 

La vicenda di Musleh è un indicatore importante dell’efficienza delle strategie di Teheran nel vicino iracheno. L’Iran è interessata a mantenere il clima di latente tensione tra le comunità, consapevole di avere dalla propria parte i gruppi meglio armati e più numerosi e diversi legami economici che lo rendono imprescindibile per Baghdad. Infatti, nel caso della fornitura di energia elettrica, ad esempio, l’Iran è il principale fornitore dell’Iraq, che si vede impossibilitato, almeno al momento, a interrompere unilateralmente qualsiasi legame con Teheran, nonostante la continua ricerca di partner a livello regionale. In un contesto del genere, piuttosto che cercare lo scontro aperto, l’Iran è più interessato a mantenere il vicino in uno stato di caos ordinato, con un minimo di stabilità garantito dalle istituzioni ma la libertà di poter agire tramite i propri proxies in maniera più o meno indisturbata.

Il malessere politico, le ingerenze straniere e le tensioni sociali: una nuova guerra civile?

Se il tasso di affluenza alle urne del 10 ottobre (poco più del 40%) aveva allarmato osservatori internazionali e autorità locali sulla disillusione del popolo iracheno nei confronti delle istituzioni, e il relativo rischio di antagonismo e prosecuzione di politiche clientelari a base tribale ed etnica, l’attuale situazione ha confermato le paure per una nuova guerra civile. 

Il fatto che il Quadro di Coordinamento sciita, che rappresenta non solo le milizie filo-iraniane ma anche un ampia fetta della popolazione di confessione sciita del Paese (la maggioranza), abbia deciso di boicottare il prossimo esecutivo, mette a serio rischio la tenuta istituzionale dell’Iraq. Se questa decisione dovesse concretizzarsi, il prossimo governo potrebbe incontrare vaste sacche di resistenza e perdere legittimità agli occhi di una componente tutt’altro irrisoria del Paese va sempre considerato che il partito “vincitore” rimane sciita, anche se anti-iraniano.

Contemporaneamente, il tentato omicidio del premier al-Kadhimi ha accresciuto ulteriormente la tensione tra le forze armate irachene e le milizie paramilitari filo-iraniane. L’esercito repubblicano, infatti, non vede di buon occhio, esattamente come Baghdad, la presenza di folti gruppi armati non inseriti ufficialmente sotto l’ombrello delle forze armate nazionali (come invece succede nel caso dei Peshmerga curdi, legati ai partiti ma considerati un corpo istituzional-regionale dal punto di vista legale e pratico). In un contesto del genere, con le manifestazioni organizzate dai rami politici delle PMF e una Baghdad blindata dall’esercito, un qualsiasi errore o conflitto a fuoco potrebbe innescare un conflitto civile su larga scala.

Anche tra le comunità civili, la tensione è cresciuta fino a causare conflitti armati, soprattutto tra sciiti e sunniti. Con un aumento delle attività dello Stato islamico, dovuto al momento di paralisi e frenesia delle istituzioni, le divergenze nella provincia del Diyala hanno portato alla morte di una decina di persone. In seguito a un attacco rivendicato dallo Stato islamico a fine ottobre (che aveva causato la morte di quindici persone), diverse famiglie della comunità sciita colpita dall’attentato ha organizzato una spedizione punitiva nei confronti della vicina comunità sunnita, accusata di nascondere e proteggere i militanti dello Stato islamico, organizzazione di stampo jihadista salafita (scuola di pensiero sunnita-hanbalita) che si è inserita, nel contesto della rivalità confessionale spesso violenta, come una forza capace di far pendere l’ago della bilancia in favore della comunità sunnita, pur non godendo dell’appoggio incondizionato della popolazione.

La vendetta ha aggiunto al bilancio dei morti altre otto persone, mentre famiglie intere di entrambe le comunità hanno abbandonato la regione nella speranza di evitare guerre confessionali. Nonostante sia solo uno dei casi di violenza verificatisi negli ultimi anni, quello di Diyala mostra il rischio di altre violenze, di un’eventuale guerra civile e delle conseguenti migrazioni interne, difficili da gestire per uno Stato indebolito come quello iracheno.

Infine, oltre alle problematiche relative alle tensioni a base etno-confessionale, l’Iraq si trova a fare i conti con altri scenari altrettanto complicati. Da un lato c’è il recente coinvolgimento del Kurdistan iracheno nella crisi migratoria, sfociata in crisi diplomatica tra Polonia e Bielorussia; dall’altro, ci sono le ingerenze iraniane da tenere sotto controllo, il rischio di terrorismo e la complicata gestione di terre arabili e risorse idriche, in costante calo di disponibilità a causa della desertificazione. Ad oggi, il rischio di una nuova guerra civile è presente, anche se la formazione di un esecutivo in grado di accontentare tutti potrebbe dare nuova unità a livello nazionale e una qualche parvenza di pace sociale tra le varie componenti del Paese. Tuttavia, va considerato che attività di milizie paramilitari e di sigle terroristiche potrebbero aumentare una volta che la già diminuita presenza militare statunitense completi il ritiro a fine anno. Sicuramente un evento augurabile a qualsiasi Paese abbia vissuto un’occupazione militare occidentale per 18 anni, a patto che forze di sicurezza e istituzioni si facciano trovare pronte a ogni evenienza.

 

 

Fonti e approfondimenti

Favoriti A., IRAQ, LA SFIDA DEL PREMIER AL-KADHIMI ALLE MILIZIE SCIITE”, Centro Studi Internazionale, 9 ottobre 2020.

Kittelson S., “Assassination attempt against Iraqi PM sparks fear of ‘return to chaos’”, al Monitor, 7 novembre 2021.

Kittelson S., “Islamic State attack sparks sectarian bloodletting in Iraq’s Diyala”, 4 novembre 2021.

Pretto L., “CESI UPDATE: IL TENTATO OMICIDIO DEL PRIMO MINISTRO IRACHENO EVIDENZIA LE FRAGILITÀ DI UN PAESE DIVISO”, Centro Studi Internazionale, 12 novembre 2021.

 

 

Editing a cura di Carolina Venco

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