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Ancora una volta, il futuro del Sudan lo decidono le armi

Sudan

Remix con supporto AI © Russian Government CC BY-SA 2.0

La mattina di sabato 15 aprile, la capitale sudanese Khartoum si è svegliata all’eco dei colpi d’arma da fuoco esplosi nell’area del palazzo presidenziale e dell’aeroporto. Si trattava delle prime avvisaglie del conflitto, da molti osservatori ritenuto inevitabile, tra l’esercito regolare, comandato dal generale e de facto capo di Stato, Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di supporto rapido (RSF), gruppo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo

A fronteggiarsi sono il presidente e l’ormai ex-vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione, organo di governo istituito con il colpo di stato militare dell’ottobre 2021. Durante i negoziati dello scorso dicembre, in cui si è tratteggiato il percorso per la restituzione del potere a un’amministrazione civile, le due fazioni si sono scontrate sul tema della riforma delle forze armate e della composizione della nuova gerarchia militare integrata. Il conflitto scoppiato in aprile rischia ora di vanificare gli sforzi compiuti per riprendere il percorso di democratizzazione, iniziato con la caduta di al-Bashir nel 2019. 

L’ascesa di Hemedti e le Forze di supporto rapido

Le Forze di supporto rapido, che contano tra i 70 e i 100 mila membri, costituiscono oggi la seconda potenza militare del Sudan, paragonabile per dimensioni a una sorta di esercito parallelo. La loro storia è strettamente legata al conflitto scoppiato in Darfur nel 2003 e alle famigerate milizie Janjaweed, di cui sono filiazione. 

Il termine Janjaweed (dall’etimologia incerta, ma vicina all’idea di «uomini armati a cavallo») indica quei gruppi di miliziani arabi, formati sul finire degli anni Ottanta, che durante la guerra in Darfur combatterono al soldo del governo contro i ribelli del Movimento per la liberazione del Sudan e del Movimento giustizia e uguaglianza, in rivolta contro l’oppressione delle minoranze non-arabe. Nel corso del conflitto persero la vita 300 mila persone, mentre gli sfollati furono almeno 2,5 milioni. I Janjaweed, armati da Khartoum, si macchiarono di crimini contro l’umanità, massacri e torture, rimasti ad oggi impuniti. 

In questo teatro di guerra, si costruì la fortuna dell’appena trentenne Mohamed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto col suo soprannome: Hemedti (“piccolo Mohammed”). Hemedti nacque in Darfur, intorno al 1974, da una famiglia della comunità beduina Rizeigat dedita al commercio di cammelli. Secondo le cronache, si unì ai Janjaweed dopo il massacro di oltre 60 membri del suo clan in un attacco armato alla carovana commerciale. Con lo scoppio della crisi in Darfur, scalò velocemente i ranghi della milizia e arrivò a comandare una brigata, facendosi notare dai vertici per la sua spregiudicatezza e ferocia. Nel 2007, si pose alla guida di una rivolta dei Janjaweed contro il loro patrono al-Bashir, ma in breve tempo raggiunse un accordo con il governo e venne promosso al rango di generale.  

Diffidente dell’esercito, tradizionalmente l’istituzione più solida e influente della storia sudanese, l’ex-presidente al-Bashir, al potere dal 1989, seguiva il principio del divide et impera, stimolando la creazione di strutture militari parallele e la loro competizione interna. Questo approccio doveva servire a prevenire la formazione di centri decisionali alternativi al governo, forti a sufficienza da mettere a segno un colpo di stato. La nascita delle Forze di supporto rapido si inserisce in questa dinamica di calcolati equilibri di potere.  

Nel 2013, Hemedti fu quindi incaricato di fondare le RSF, partendo da un nucleo di ex-combattenti Janjaweed. Create come forza anti-insurrezionale, ben presto le RSF si trasformarono in una sorta di guardia personale dello stesso al-Bashir, con l’obiettivo di dissuadere ogni eventuale sfida al potere presidenziale. Nel 2017, con l’approvazione del “Rapid Support Forces Act”, furono riconosciute come forze di sicurezza indipendenti e legali. Solo due anni dopo, Hemedti avrebbe nuovamente voltato le spalle al suo protettore, decidendo di unirsi ad al-Burhan nel colpo di stato che pose fine al trentennale regno di al-Bashir.

Il colpo di stato e l’improbabile alleanza

Deposto il dittatore nell’aprile 2019, il potere passò al Consiglio militare di transizione (TMC), guidato da al-Burhan ed Hemedti. Dopo aver raggiunto in luglio un primo accordo sulla condivisione delle funzioni esecutive e legislative, il 4 agosto la giunta militare e le élite civili democratiche, riunite sotto l’insegna delle Forze per la libertà e il cambiamento (FLC), formalizzarono il nuovo assetto, sottoscrivendo la nuova Costituzione provvisoria. Per i successivi 39 mesi, fino alle prime libere elezioni, il governo del Paese sarebbe stato affidato al Consiglio sovrano, composto da sei civili e cinque militari

Il generale al-Burhan, già a capo del TMC, avrebbe presieduto il Consiglio sovrano per i primi ventuno mesi. Successivamente, la carica di capo dello Stato sarebbe passata a un leader civile scelto dalle Forze per la libertà e il cambiamento. 

Su proposta delle FLC, il 20 agosto il Consiglio nominava Primo ministro del governo di transizione Abdalla Hamdok, ex-funzionario del ministero delle Finanze, con un importante curriculum internazionale affinato presso la Banca africana di sviluppo e la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni unite. 

L’esperienza della coabitazione civile-militare avrebbe però avuto vita breve. In un contesto segnato da pandemia, crisi economica, instabilità regionale e proteste popolari, i militari cominciarono presto a ritenere il Consiglio e il Primo ministro inadeguati a gestire la turbolenta transizione democratica. Nell’ottobre 2021, al-Burhan e Dagalo unirono le forze per rovesciare il governo di Hamdok e instaurare una nuova giunta militare, il Consiglio sovrano di transizione, al cui vertice rimaneva al-Burhan, con Hemedti come secondo in comando.

L’alleanza, già fondata su fragili fondamenta per la naturale rivalità tra i due generali (l’uno a capo delle forze regolari, l’altro al vertice di un sistema paramilitare con grande influenza sulla politica del Paese), si fece sempre più instabile nel corso del 2022. Prendendo le distanze da al-Burhan, considerato sempre più legato alla tradizione islamista incarnata da al-Bashir, il leader delle RSF cercò di presentarsi al popolo sudanese come l’uomo delle riforme e il portavoce delle istanze democratiche, coltivando rapporti informali con l’élite urbana di Khartoum, che chiedeva il ritorno all’amministrazione civile.

La crisi

Dopo mesi di proteste per la restaurazione del governo civile, colloqui con le opposizioni e pressioni da parte dell’Unione africana (UA), dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD) e della Missione delle Nazioni unite in Sudan (UNMIS), il 5 dicembre 2022 il Consiglio sovrano di transizione ha concluso un accordo con le FLC. I militari si impegnavano nella cessione del potere e nella definizione di un percorso di transizione verso le prossime elezioni, guidato da un governo e un’amministrazione civili. 

L’accordo riconosceva le RSF come un’entità autonoma, posta sotto il diretto comando del capo di Stato civile, invece che alle dipendenze del comandante delle forze armate. Al tempo stesso, poneva le premesse per una riforma delle forze armate e di sicurezza che portasse a una singola struttura militare, ovvero che prevedesse l’integrazione delle RSF nell’esercito regolare, secondo tempistiche e modalità da definire. 

Secondo Hemedti, questo processo non poteva richiedere meno di un decennio. Una previsione inaccettabile per al-Burhan, assolutamente contrario a concedere altri dieci anni di autonomia a Hemedti per estendere la propria influenza al di fuori della supervisione dell’esercito. La discussione sul tema è stata rimandata a un secondo incontro di follow-up, fissato per l’aprile 2023

Dopo reciproche accuse e minacce, la tensione tra il presidente e il suo vice è arrivata a un punto di rottura nei mesi di febbraio e marzo 2023, quando entrambe le fazioni hanno cominciato la corsa agli armamenti e condotto importanti campagne di reclutamento attraverso tutto il Sudan, e, in particolare, nel Darfur, roccaforte di Hemedti. 

L’11 marzo, al-Burhan e Hemedti hanno raggiunto un accordo per la de-escalation: Hemedti accettava di ritirare le sue forze dalla capitale e i due si accordavano per comporre un nuovo comitato di sicurezza congiunto. Ma l’accordo è rimasto sulla carta. La corsa alle armi è proseguita e, in aprile, le due parti hanno mancato la scadenza fissata per la seconda fase di negoziazioni. 

Il 13 aprile, un contingente delle RSF è stato dispiegato nei pressi di una base aerea, nella città di Meroe, nel Nord del Paese, dove stazionano anche alcuni membri delle forze armate egiziane. L’esercito ha accusato pubblicamente le RSF di movimenti non autorizzati e ha concesso loro un ultimatum per ritirarsi. Nonostante le iniziative emergenziali di mediazione attivate con la partecipazione delle Nazioni Unite e di un blocco composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, il conflitto è scoppiato appena 48 ore dopo

Il potenziale di destabilizzazione

Gli scontri a fuoco, prima concentrati nella capitale Khartoum, dove le due fazioni si contendono il controllo del palazzo presidenziale e dell’aeroporto, si sono estesi rapidamente all’intero Paese e in particolare alla regione del Darfur, roccaforte delle RSF. Non è chiaro chi abbia sparato il primo colpo, ma è indubbio che entrambe le fazioni fossero pronte alla guerra, dopo settimane di preparazione tattica ed esercitazioni. Secondo le dichiarazioni di al-Burhan, il conflitto terminerà solo con la completa dissoluzione delle RSF.

Anche se gli analisti prevedono una vittoria dell’esercito, superiore in numero e armamenti, l’esito della confrontazione militare non può essere dato per scontato. Quale che sarà il risultato di questa lotta per il potere, in gioco non c’è solo il futuro del processo di democratizzazione, cominciato nel 2019 e proseguito negli ultimi quattro anni tra tanti passi falsi e battute d’arresto, ma anche la stabilità dell’intera regione

Per ricomporre il conflitto ed evitare che la crisi sudanese riversi i suoi effetti sull’intera regione del Sahel orientale e del Corno d’Africa allargato, sarà necessario il coordinamento di diverse organizzazioni regionali e internazionali (tra cui IGAD e UA). Di particolare efficacia potrebbero inoltre rivelarsi le pressioni provenienti da Paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che mantengono un certo ascendente sui due comandanti militari, già sostenuti nel colpo di stato del 2021. 

 

 

 

 

Fonti e approfondimenti

International Crisis Group. 20/04/2023. “Stopping Sudan’s descent into full-blown civil war”.

New York Times. 23/04/2023. “Chaos in Sudan: who is battling for power, and why it hasn’t stopped”. 

Brendan Koerner, “Who are the Janjaweed?”, Slate, 22/07/2004.  

Mat Nashed, “Will Ethiopia and Eritrea be dragged into Sudan’s complex war?”, Al Jazeera, 06/05/2023. 

Africanews. 05/12/2022. “Sudanese generals, pro democracy groups sign pro-democracy framework deal”.

Al Jazeera. 26/03/2023. “Sudan’s military leader Burhan backs democratic transition”. 

 

 

 

 

Editing a cura di Beatrice Cupitò

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