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Iran al voto: cosa aspettarsi dopo la morte di Raisi

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Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Il 28 Giugno l’Iran tornerà al voto dopo la morte del presidente Raisi, coinvolto in un incidente aereo con il suo elicottero mentre tornava dal confine con l’Azerbaijan. Un evento che ha sconvolto l’establishment iraniano, che pensava di aver già scritto intorno alla figura di Raisi il futuro del Paese. 

L’improvvisa morte dell’ex presidente ha invece rimescolato le carte. In una Repubblica islamica lacerata da un profondo conflitto interno, le prospettive della leadership al potere non sono più così nitide. Le mosse del prossimo presidente, è opportuno ricordarlo, si inseriranno comunque in un tracciato segnato dalla Guida Suprema, che rappresenta la carica più importante dell’Iran.  

Il piano del Leader Supremo

Era il piano del Leader Supremo Khamenei fin dal 2017. L’ultraconservatore e poco carismatico religioso Ebrahim Raisi, in quel momento capo della magistratura, era perfetto per assumere la presidenza. Con il tempo sarebbe diventato il Leader Supremo, mantenendo al potere il clero conservatore, ma senza esporre il figlio di Khamenei, Mojtaba Khamenei.

Un progetto che nel 2017 era stato sfatato dalla rielezione di Rouhani, il presidente moderato che, forte dell’accordo sul nucleare firmato con l’amministrazione Obama, aveva battuto proprio Raisi. Quello di Rouhani e dell’ex presidente riformista Khatami era un piano che sembrava poter distruggere tutte le macchinazioni dei conservatori. Non fosse stato per Trump e l’apparato statale statunitense. Che ritirando prima Washington dall’accordo e poi eliminando il Generale Qassem Soleimani – fautore e ideatore dell’espansione iraniana a Ovest – hanno rimesso in traiettoria le idee del Leader Supremo.

Si è arrivati a dama il 18 giugno del 2021, quando Raisi ha vinto le elezioni con l’opposizione riformista e moderata che ha disertato le urne. Mandando l’affluenza sotto il 50% e spianando la strada per l’arrivo del religioso conservatore, vicino a Khamenei, alla carica di Presidente.

Conservatori e principalisti

Lo schianto dell’elicottero in cui hanno perso la vita il presidente Ebrahim Raisi e il ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian, apre una breccia nel futuro del Paese degli Ayatollah. Il 28 giugno l’Iran dovrà fare i conti con un’economia in caduta libera, un Occidente sempre più chiuso al dialogo e una tensione altissima, frutto della situazione a Gaza e dello scontro, nella notte del 15 aprile per la prima volta apertamente militare, tra Teheran e Tel Aviv. E questi sono solo alcuni dei problemi da affrontare.

Anche il fronte politico interno iraniano è sempre più intricato e complesso, sia dalla parte dei riformisti moderati, sia dalla parte più conservatrice. Rispetto a quest’ultima fazione, che dall’elezione di Raisi è egemonica, si avvertono i maggiori fattori di rischio. Le elezioni parlamentari del marzo 2024 hanno sancito il primo sorpasso storico della fazione ultraconservatrice rispetto a quella dei cosiddetti principalisti.

La prima rappresenta i conservatori di seconda generazione rivoluzionaria, quindi coloro che non hanno visto la nascita della Repubblica islamica. Non avendo vissuto la dittatura dello Shah , essi hanno un diverso approccio al nazionalismo iraniano e più lontano dal mondo islamico di Khomeini. Sono un gruppo ben connaturato all’interno della classe dirigente economica e all’elite militare. In particolare nei Pasdaran, dei quali però ancora non controllano i vertici. Il punto principale è il posizionamento del Paese e la sua postura nei confronti degli altri.

I principalisti, invece, sono per la maggior parte religiosi e membri della prima generazione rivoluzionaria. Vedono nella “pazienza strategica” dell’Iran, teoria fondamentale della diplomazia iraniana, il faro delle loro decisioni. Se gli ultraconservatori vedono l’Iran in modo totalmente differente con una postura più aggressiva e rapida, la pazienza strategica iraniana è la strategia che per anni ha guidato il Paese  secondo una linea più moderata, ma tacitamente aggressiva e capace di porsi obiettivi a lunghissimo tempo. Un percorso che ha portato a costruire il legame di alleanze e relazioni con Stati, milizie, sigle e potentati che formano la sfera di influenza con il quale la longa mano di Teheran arriva fino a Beirut e a Gaza passando per Baghdad e Damasco.

Quale Iran dopo la morte di Raisi

Khomeini, Khamenei e il mondo conservatore più tradizionale riconosce Teheran come una potenza principalmente mediorientale e sciita, che guarda Occidente e non a Oriente e che vede nella contrapposizione con gli USA,  alcuni Paesi a maggioranza sunnita (Arabia Saudita in testa) e Israele il centro della sua attività. Gli ultraconservatori pongono invece l’accento sulla natura asiatica della ex Persia, ricollegandosi anche all’identità nazionale, e si vedono in un ponte con la Cina, la Russia e il mondo orientale. 

In un quadro dove l’avversità a Washington si scioglie in una vista globale, rendendola più radicale ma profondamente panasiatica. Si addolcisce al contrario la posizione nei confronti del mondo sunnita,  non più acerrimo nemico in quanto avversario religioso e minaccia per il potere delle teorie di Khomeini, ma solo avversario in quanto alleato del grande nemico: gli Stati Uniti. 

Uno scontro durissimo che sempre di più dalla morte di Raisi va in scena e che potrebbe addirittura favorire i riformisti nelle prossime elezioni, che invece hanno più di un problema di morale e credibilità dopo i due mandati di Rouhani. Nel campo progressista, infatti, come sempre dopo le grandi manifestazioni e le terribili repressioni, è in dubbio la credibilità e il valore del voto. 

Se dopo dieci anni di Rouhani il regime perpetua violenze e fa scorrere fiumi di sangue – come nelle repressioni delle rivolte del movimento Donna Vita e Libertà, seguite all’omicidio di Jina “Mahsa” Amini – quale potrebbe essere la spinta per andare a votare per i giovani disillusi? Rispetto al 2021, però, il Fronte nazionale dei riformisti ha deciso di supportare alcune candidature e una di queste è stata ammessa dal Consiglio dei Guardiani. Resta da capire se nel caso in cui i riformisti decideranno di presentarsi a votare, se il loro popolo e i giovani manifestanti si accoderanno o decideranno comunque di non partecipare, non accettando alcun compromesso.

I protagonisti del voto

Il Consiglio dei Guardiani, l’organo che verifica che i candidati alle elezioni presidenziali iraniane rispettino le caratteristiche di islamicità e fedeltà alla rivoluzione, ha ammesso sei candidati per il voto di venerdì. Ma solo tre sono quelli che hanno una reale chance o avranno un risultato degno di nota. Il presidente del parlamento iraniano, Mohammed Baqer Qalibaf, l’esponente dei conservatori radicali Saeed Jalili e Masud Pezeshkian, punto di riferimento dei riformisti e ministro della salute sotto Khatami. 

Dalle esclusioni sono uscite due sorprese, una più grande dell’altra. La più importante è quella di Ali Larijani, un centrista conservatore che avrebbe permesso al regime di potersi riavvicinarsi nuovamente agli USA di Biden senza grandi scossoni interni, ma evidentemente per la fazione ultraconservatrice non si trattava di uno scenario positivo. A questo si aggiungono la nuova esclusione dell’ex presidente Ahmadinejad, e più interessante, quella di tutti i ministri di peso del defunto Presidente, alleati stretti del genero dello stesso. Un messaggio chiaro del consiglio, che vuole affermare che l’era Raisi è finita.

Qalibaf rappresenta il più sicuro investimento per la Guida Suprema, che non ha ancora pubblicamente supportato un candidato, ma l’attuale speaker della Majlis, il Parlamento iraniano, rispetto a Jalili, non ha posizioni così estremiste. Jalili, infatti, è da sempre proponente di leggi ancora più liberticide per le donne e in questo momento potrebbe essere esplosivo nel Paese. Anche il super conservatore ex ministro degli esteri Ali Akbar Velayati ha criticato Jalili per la sua inflessibilità. Qalibaf invece è un tecnocrate puro. Ha guidato per un breve periodo i Pasdaran e ne è uno dei principali portavoce. Una parte del mondo conservatore principalista non ha grande fiducia, a causa dell’assenza di fede ideologica. Al punto che, dopo essere già stato sconfitto due volte in elezioni presidenziali, ha dovuto trovare voti anche tra riformisti e moderati per essere riconfermato speaker della Camera.

Il candidato riformista ha poche chances di vittoria. Tra tutti i politici riformisti che avevano avanzato la candidatura di Masud Pezeshkian è il più leale al regime e quello che meno rappresenta una minaccia. Un candidato che, come Rouhani, ha promesso grandi riforme dal punto di vista economico sociale, ma non da quello dei diritti. Deludendo anche una parte dei giovani protagonisti delle proteste, che gli avevano chiesto di schierarsi contro la sanguinosa repressione. Non lo ha fatto e ha definito il lavoro di presidente come quello di attuare le politiche volute dal Leader Supremo. Nota positiva per lui è l’endorsement di Mohammad Javad Zarif, che può garantirgli il voto dell’élite riformista e filo occidentale. 

Un futuro in sospeso

Nei prossimi giorni scopriremo i risultati del voto. Oltre alla naturale competizione elettorale tra i candidati vi saranno alcuni fattori da tenere in considerazione. Innanzitutto l’affluenza: Khamenei, a 85 anni, non può permettersi di avere un Presidente delegittimato o poco riconosciuto, dato che nell’eventualità di una sua dipartita dovrebbe fare da king maker del prossimo Leader Supremo. Dall’altra parte rimane da  da capire come il mondo conservatore si spaccherà e nel caso il candidato riformista dovesse raggiungere il secondo turno, come poi potrà ricompattarsi in caso.

Fonti e approfondimenti

Azizi, A., “the Fundamentalist, the Technocrat, and the Reformist,” The Atlantic, 13/06/2024

Clawson, P., “Khamenei’s Presidential Choice: Weak Reformer or Strong Hardliner”, The Washington Institute For Near Middle East, 20/06/2024

Parasiliti, A., “Could Zarif tilt Iran’s election toward longshot reformist Pezeshkian?”, Al Monitor, 25/06/2024

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