Neil Armstrong non è mai andato sulla Luna, Giovanni Paolo II è stato sostituito dopo l’attentato compiuto da Mehmet Ali Agca e la terra è in realtà piatta.
Il complotto fa parte della storia dell’essere umano, così come la necessità di vederlo dietro un fenomeno difficilmente spiegabile per via razionale. Come nel recente caso dell’attentato contro Donald Trump durante un comizio a Butler, in Pennsylvania. Ma come si arriva alla genesi di una teoria cospirativa? Come un avvenimento dà adito a ipotesi più o meno fantasiose per spiegarlo?
Il ciclo del complotto
Un report pubblicato dal think tank britannico Demos e da Everything is Connected – un progetto di ricerca dell’Università di Manchester – parla di “ciclo del complotto”, un percorso che parte dalla nascita, passa all’amplificazione e infine alla divergenza. Un percorso molto difficile da interrompere, ma che proprio perché si conosce può essere affrontato.
Questo percorso inizia quando gruppi più o meno piccoli, spesso emarginati dalla società, generano narrazioni sia online che offline che offrono appigli per articolare lotte all’interno delle loro vite, per combattere un risentimento potenzialmente legittimo o offrire una giustificazione di convinzioni preesistenti. La condizione di queste persone viene alimentata dal contesto politico. I genitori dei complotti si sentono trascurati da coloro che dovrebbero tutelarli, a ragione o torto.
Ciò che conta, in ogni caso, è la percezione che questo avvenga. Attribuire una spiegazione a una condizione di marginalità aiuta la comunità del complotto a riconoscersi, a fare fronte comune, ad autoconvincersi che effettivamente quello che viene ipotizzato corrisponde alla realtà.
Da qui è facile arrivare all’amplificazione, specialmente grazie alle possibilità offerte dal Web. Influencer del complotto possono oggi arrivare a migliaia, addirittura a milioni di utenti. Pescando in quella comunità marginalizzata dove queste teorie possono attecchire. Ma un complotto arriva a ottenere un marchio “di qualità” nel momento in cui a riprenderlo è il mainstream. I giornali, che ne parlano, i politici, che strizzano l’occhio in modo più o meno esplicito a queste comunità, quasi sempre per una mera questione di tornaconto elettorale.
Nel caso dell’attentato a Trump, per esempio, il deputato Mike Collins della Georgia ha incolpato direttamente il presidente degli Stati Uniti. Postando sui social che era stato Joe Biden a “dare l’ordine”, in riferimento alla frase pronunciata dal leader dem pochi giorni prima: mettere “Trump nel mirino”.
Il ruolo dei social
Il complottismo è sempre esistito, ma lo sviluppo di interconnessioni rapide in tutto il mondo ha contribuito in modo determinante alla sua viralità. L’accesso e la condivisione facile, le cosiddette “camere dell’eco” sono tra le principali caratteristiche di piattaforme media, blog e in generale i canali online che possono portare a una radicalizzazione dell’idea che, magari, si era già formata. E, ancora di più, convincere le persone a sentirsi come investigatori alla ricerca della verità.
Le teorie cospirative di fatto occupano uno spazio in cui si intersecano esigenze di verità e di protagonismo sociale. Per questo, alcuni studiosi hanno anche interpretato il prendere piede di questi fenomeni come la partecipazione a un gioco di rimandi potenzialmente infinito, basato sulla sovrainterpretazione del reale. Prendendo spunto da alcuni fatti concreti, gli individui tendono a convincersi che, dietro di essi, ci sia semplicemente “di più” di quello che gli altri vedono.
Uno studio di The Conversation identifica le fasi chiave nell’escalation delle credenze del complotto. La conferma dell’identità si realizza attraverso la consultazione e la visualizzazione di diversi tipi di contenuti. La protezione dell’identità, ovvero la testuggine che si autoalimenta a difesa degli individui della comunità, contro possibili attacchi volti a screditarne le tesi. La realizzazione dell’identità, che combacia un po’ con la fase della divergenza analizzata prima. Gli individui della comunità cercano un’approvazione sociale più ampia da parte di un pubblico più mainstream.
I fattori che reggono i complotti
Spiegazioni psicologiche, fattori politici e culturali sono tre categorie che aiutano a individuare il prototipo di chi crede ai complotti.
Per quanto riguarda la componente psicologica, diversi studi hanno sottolineato come coloro che possiedono tratti narcisistici o antisociali, hanno bassa autostima di loro stessi, sono molto religiosi o spirituali oppure soffrono di paranoia o ansia sono più propensi ad aderire alle teorie del complotto.
Per quanto concerne il versante politico, gli individui con forti convinzioni ideologiche avranno maggiori probabilità di sviluppare teorie del complotto a supporto della loro ideologia. Ricerche recenti mostrano che gli individui situati agli estremi da un punto di vista politico sono più suscettibili alle teorie cospirative. Quelli che si riconoscono nell’estrema destra la fanno da padrone.
Nella terza categoria presa in considerazione, quella del fattore culturale, emerge un ruolo cruciale per lo sviluppo delle credenze cospirative dell’individuo. Gli individui che hanno un maggiore bisogno di chiusura cognitiva avranno maggiori probabilità di utilizzare le teorie del complotto. Essi trovano così il modo per spiegare gli eventi e soddisfare le loro esigenze di protezione nei confronti dell’ignoto.
Il volto dietro ai complotti
Molto spesso, le teorie si diffondono in un terreno fertile, in cui si annidano percezioni errate – e volte all’eccesso – del mondo circostante. Come riporta IPSOS, in tanti Paesi le persone tendono a sopravvalutare i dati sociali o economici, come la percentuale di immigrati presenti sul territorio nazionale, i tassi dei fenomeni criminosi oppure la ricchezza delle famiglie. Gli studi mostrano che ci sono alcune caratteristiche socio-demografiche ricorrenti nei “complottisti”, identificandone un profilo di massima.
Ad esempio, una ricerca pubblicata su Nature mostra come uno degli elementi comuni sia il livello di istruzione. Dimostrando come sia più facile rintracciare un’adesione alle teorie cospirative nella fascia meno istruita della popolazione. Lo status socio economico è un altro asse imprescindibile per capire il volto che si nasconde dietro alle teorie dei complotti. La deprivazione materiale, vera e percepita, ha un peso notevole per dare adito a queste visioni irrazionali.
Un’analisi del Center for Countering Digital Hate (CCDH), infine, fa riflettere sul legame tra social e informazione. L’organizzazione no profit ha evidenziato come, rispetto agli adulti, i giovani negli Stati Uniti abbiano maggiori probabilità di credere nelle teorie cospirative online. Ma non è tutto. La percentuale sale in corrispondenza di un numero più elevato di ore passate sulle piattaforme digitali. Il monito degli esperti è che esistono ancora troppi pochi vincoli normativi per tutelare gli utenti.
Fonti e approfondimenti
CCDH, “Belief in conspiracy theories higher among teenagers than adults, as majority of Americans support social media reform, new polling finds”, 16/08/2023
Enders, A., Klofstad, C., Diekman, A., Drochon, H., Rogers de Waal, J., Littrell, S., … & Uscinski, J. (2024). The sociodemographic correlates of conspiracism. Scientific Reports, 14(1), 14184.
Mikhaeil, C.A., “Conspiracy theories: how social media can help them spread and even spark violence”, The Conversation, 2/08/2023