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Il Venezuela tra crisi e sanzioni – Intervista a Lucia Capuzzi

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Lucia Capuzzi è inviata della redazione Esteri del quotidiano Avvenire. Prima di Avvenire ha lavorato per Tg – Leonardo della Rai. Ha vinto il Premio Internazionale Lucchetta (2014) per un articolo sui baby lavoratori boliviani, il Premio Colombe della Pace dell’Archivio Disarmo (2016), il premio Giornalisti del Mediterraneo (2018), il Premio Parise (2018), il Premio Enzo Rossi-Altrapagina (2018) e il Premio De Carli per l’informazione religiosa (2020).

Dopo il voto del 2018 l’Assemblea nazionale venezuelana dichiara Juan Guaidò presidente ad interim, anche se il potere rimane a tutti gli effetti nelle mani di Nicolas Maduro. Nel 2022 il governo termina. Cosa è cambiato da allora nel Paese?

All’interno del Paese sono cambiate le principali componenti. Dal punto di vista politico l’opposizione è riuscita questa volta a trovare una sorta di unità interna, sempre molto fragile e orientata all’anti Maduro, però il fatto che Machado sia riuscita a passare integralmente i propri voti a Gonzalez fa capire che c’è una unità di intenti che prevale sui differenti, che ci sono e restano all’interno dell’opposizione. Abbiamo insomma un miglioramento su questo fronte.

E dall’altra parte?

Dall’altra parte abbiamo il governo Maduro che ha dimostrato di poter reggere. A una crisi spaventosa interna, a una forte crisi economica e anche a una serie di pressioni internazionali non da poco, che includono sanzioni internazionali, Usa e Ue. Quindi Maduro ha dimostrato una capacità di resistenza forte e una capacità, con tutti i limiti e con tutte le difficoltà, di condurre il Paese verso una timida uscita dalla fase più nera della crisi.

In che modo c’è riuscito?

Lo ha fatto applicando il metodo cubano. Quando a Cuba l’Unione sovietica si sgretola e inizia il cosiddetto Periodo Speciale, Fidel Castro è costretto ad aprire al mercato. Quando vi sono queste “aperture” costrette, si parla di aperture molto selvagge e crudeli, perché premiano chi ha accesso al dollaro. Di fatto Maduro ha consentito l’uso della valuta. Questo ha fatto sì che, almeno a Caracas, un minimo di economia ripartisse, ovviamente in modo fortemente diseguale; chi non ha accesso al dollaro sta peggio di prima. Dal punto di vista macroeconomico degli indicatori, la fase più nera dell’inflazione è stata combattuta e un minimo di ripresa si sta vedendo, per quest’anno si prevede una crescita.

C’è qualche elemento che resta tuttavia uguale al 2018?

Certo, per esempio Maduro non ha il consenso della maggioranza della popolazione. Una parte importante, inclusa la fascia più povera, gli ha voltato le spalle. Le proteste questa volta non erano solo proteste di classe media. C’erano i bastioni storici, i quartieri popolari del Chavismo. Questo è rilevante. Quello che non sembra cambiare, di nuovo, è lo stallo che si profila. I militari, che sono l’elemento chiave, restano saldamente ancorati al governo. Queste elezioni, a differenza delle altre, sono state fatte da Maduro, non proprio di buon grado, per cercare di rendere stabile la ripresa venezuelana e l’unico modo è quello di tornare sui mercati internazionali, in primis quello del petrolio. Ragion per cui, queste elezioni sono il frutto di una lunga negoziazione, che si è svolta in Qatar con gli Stati Uniti. Il punto è che era stato negoziato che ci fossero elezioni trasparenti, e che appunto si rispettasse il risultato. Ovviamente, erano state date garanzie a Maduro, che la transizione sarebbe stata morbida, che non avrebbe avuto rischi giudiziari, che tutti negano. Maduro si è tirato però indietro all’ultimo al patto. Almeno finché non mostrerà gli atti. 

Per quale motivo Maduro si è tirato indietro?

Questa è la grande incognita. Quello che sta facendo adesso va contro tutto quello che aveva negoziato lui stesso, perché ne aveva bisogno, sull’allentamento delle sanzioni; attualmente gli Stati Uniti non sono nelle condizioni di procedere in questa direzione. Per Maduro questa era l’ultima spiaggia. Con le elezioni negli Stati Uniti potrebbe esserci un cambio di rotta, l’allentamento si profilerebbe più difficile nel caso in cui arrivasse Trump alla Casa Bianca. Per Maduro i casi sono due: avere più garanzie oppure sperare che la tensione internazionale vada su altri temi per stare al potere. Io propendo sempre per la razionalità degli attori: presumo che voglia negoziare un’uscita migliore, ma comunque non ci giurerei.

Le proteste esplose nel Paese sono, in parte, state sedate con la violenza. C’è il rischio effettivo di una guerra civile o parliamo di qualcosa di più complesso?

È più complesso, perché manca l’attore fondamentale che è l’esercito. Da sola, un’insurrezione civile che rovesci Maduro, la vedo difficile. Certo è un fenomeno di lungo periodo di erosione; questo sicuramente, però l’insurrezione che avrebbe efficacia nel breve periodo sarebbe quella dei militari, o una congiura di palazzo che destituisca Maduro. Al momento i militari non sembrano rispondere agli appelli dell’opposizione. 

C’è comunque una forte tensione interna al governo.

Molta, c’è tutta la frangia più giovane del Chavismo che era favorevole a un’uscita  negoziata, per rimanere comunque come attore politico. Perché il Chavismo non sarebbe stato smantellato, ma sarebbe andato all’opposizione col controllo dell’Assemblea, nella speranza di poter tornare. Quindi c’è sicuramente questa tensione. Che però sfoci in una guerra civile, in vent’anni non è mai accaduto. 

Parliamo dell’Esequibo, un territorio ricchissimo di giacimenti petroliferi. In una situazione di instabilità generale, può riaccendersi la pretesa su questo territorio?

Ha sicuramente un’utilità effettiva. Al di là di questo c’è un’utilità di propaganda. Esequibo galvanizza il nazionalismo venezuelano nei momenti in cui il regime vacilla, come ora. Potrebbe, adesso mi sembra che però l’opinione pubblica sia concentrata sulle elezioni. La prima incognita è quello che succederà ora. Gli attori chiave sono sicuramente gli Stati Uniti e il Brasile di Lula, molto dipenderà da cosa loro riescono a mediare in questa crisi. Lula si gioca molto dal punto di vista sia della regione che dal punto di vista internazionale. Molto dipende da cosa succede nel breve periodo. Se la crisi dovesse protrarsi a lungo, è probabile che si riaccendano le tensioni. 

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