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Lo scacchiere dell’Oceania: vecchie eredità e nuovi scenari

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Con il termine Oceania si è soliti indicare due attori principali, l’Australia e la Nuova Zelanda, e 15 Stati indipendenti, ma dalle limitatissime dimensioni territoriali. Per poter propriamente riflettere sul peso geopolitico dell’area, è innanzitutto necessario effettuare una distinzione tra tre macro zone, il Pacifico centro-meridionale, il Pacifico sud-orientale e il Pacifico sud-occidentale.

Nonostante in tempi più recenti il peso geopolitico dell’area sia risultato spesso di poco interesse, l’Oceania ha da sempre rappresentato un microcosmo a sé stante nel più ampio “balance of power” del Pacifico. Nonostante Australia e Nuova Zelanda  abbiano tentato di mantenere saldo il timone nella gestione economica e politica dei territori limitrofi, gli interessi delle potenze tradizionali, come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, cui di recente si sono aggiunti Giappone, Europa e Taiwan, sono forti.

L’Oceania è stata considerata di secondaria importanza dalle cronache storiche, benchè abbia rappresentato, durante la e successivamente alla Guerra Fredda, il teatro della penetrazione sovietica, cinese e, in seguito libica, con l’obiettivo di scardinare la considerevole supremazia americana.

Le nuove tecnologie di individuazione di minerali, messe a punto soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, hanno riacceso il confronto tra Cina e Stati Uniti, entrambi desiderosi di impossessarsi innanzitutto delle importanti rotte navali dell’area. Laddove la presenza americana è stata incerta e, al succedersi delle amministrazioni, titubante, la politica cinese, ad oggi vincente, ha puntato sul più consueto soft-power. Nello stato del Vanuatu, a titolo di esempio, la Cina si è garantita un importante hot-spot a Port Vila, in cambio della promessa di un accrescimento infrastrutturale, di cui il paese necessita moderatamente. Nei territori limitrofi, la Cina è invece riuscita a insediarsi, in primis nelle Fiji, per il tramite delle proprie banche le quali hanno non solo sottratto la leadership alle concorrenti australiane, ma hanno anche consentito importanti investimenti nei settori delle comunicazioni e dell’estrazione mineraria.

L’avanzata di Pechino ha preoccupato non poco la Casa Bianca che, a margine del Pacific Islands Forum del 2012, per il tramite dell’allora Segretario di Stato Clinton, riconobbe un legame di lunga e perdurante amicizia con gli Stati insulari della regione e favorì una maggiore presenza militare soprattutto nelle zone a nord dell’Australia.

Se la cooperazione tra USA e Australia è stata riconfermata, di recente, in un incontro tra il Presidente Trump e il Primo ministro Turnbull,  i legami tra Stati Uniti e Nuova Zelanda, i quali, dopo essere rimasti freddi per oltre un trentennio, hanno da poco conosciuto una stagione di riavvicinamento, sono più complessi.

Tanto Canberra quanto Wellington hanno preferito non perdere l’occasione di stringere accordi, benchè solo formali ed occasionali, con Pechino. Il dialogo che si è instaurato riguarda prevalentemente gli addestramenti militari, che avvengono con continuità e sinergia nel Pacifico, nonostante la ferma opposizione australiana alle rivendicazioni cinesi nel Mare cinese del Sud.

Per altro, più di recente, una certa preoccupazione australiana non è mancata nei documenti ufficiali. Nella National Security Strategy si chiarisce l’intenzione di monitorare una minaccia, intenzionata a influenzare l’Australia ed i suoi partner regionali, prevalentemente attraverso pressioni di natura economica.

La Nuova Zelanda, al contrario, ha salutato con interesse la conclusione di un accordo commerciale, di quasi 20 miliardi di dollari, con la Cina, che è divenuta il secondo più grande partner commerciale del paese scalzando la posizione di favore mantenuta dagli Stati Uniti fin dal 2008. Inoltre, mentre Canberra ha mostrato ripetutamente riluttanza all’accesso al programma della Nuova Via della Seta cinese, nello scorso anno Wellington ha concluso un accordo bilaterale con la Cina e un Memorandum of Understanding con cui sono già state identificate le infrastrutture da realizzare o ammodernare nel nord del paese. A ben vedere, infatti, la Nuova Zelanda è già parte dell’AIIB, la banca per gli inventi infrastrutturali voluta e capitalizzata prevalentemente dalla Cina.

Gli altri Stati minori, pur corteggiati dalla richiesta di apertura dei porti e di accesso alle risorse sottomarine avanzata dalla Cina, sono più preoccupati dal cambiamento climatico, che comincia ad avere evidenti manifestazioni in paesi come il Kiribati e, più in generale, la Micronesia. Fortemente mossi da uno spirito di collaborazione, tali Stati hanno recentemente concluso tra loro accordi di mutuo supporto, così da assicurare la disponibilità ad ospitare un certo numero di profughi, in caso di evacuazione forzata delle zone più a rischio. La riconosciuta gravità della situazione ha portato all’assegnazione della presidenza della COP 23 dello scorso novembre alle Fiji che si pongono come il nuovo middle power della regione. La debolezza di questi piccoli paesi, tuttavia, è ancora sostanziale, se si considera che sono completamente dipendenti dall’importazione di petrolio da Australia, Stati Uniti e, più di recente, dall’Unione Europea, che ha posto l’accento sulla necessità di raggiungere importanti obiettivi in termini di produzione di energia pulita.

Allo stato attuale, come rendita di un passato più “glorioso”, gli Stati Uniti continuano a mantenere un considerevole primato in termini di investimenti e di intelligence nell’intera regione, ma prevalentemente in Australia e nelle isole Marshall.

Ciò, tuttavia, non si è concretizzato in un reale input allo sviluppo, richiesto dagli Stati insulari, che hanno necessariamente dovuto affidarsi alla Cina, all’Australia e all’Unione Europea.

In tal senso, l’incertezza sul futuro del TPP ha esteso le ambizioni di Pechino, che punta ora a divenire la forza leader nella regione. Del resto, lo strapotere economico cinese è un pericolo che nemmeno i leader storici dell’Oceania, Australia e Nuova Zelanda, possono arginare. Devastante, in tal senso, è stata la loro imposizione di sanzioni alle isole Fiji che, forti del supporto cinese, hanno finito per allontanare sempre più gli storici partners e per ergersi, se possibile, a middle power dell’area.

In conclusione, l’Oceania, da sempre lo scacchiere meno definito, si presenta come una regione il cui peso politico è tutto da ridistribuire: non è chiaro chi risulterà il vincitore di questo gioco di poteri, ma certamente la Cina è, allo stato attuale, il candidato favorito.

 

 

Fonti e Approfondimenti

Fai clic per accedere a 521_Schleich.pdf

Fai clic per accedere a Regionalism-Security-Cooperation-Oceania.pdf

https://thediplomat.com/2013/10/the-geopolitics-of-australia/

https://www.huffingtonpost.com/eddie-walsh/whats-at-stake-in-fiji-fo_b_1342832.html

https://www.mfat.govt.nz/en/countries-and-regions/north-asia/china

http://www.nzherald.co.nz/nz/news/article.cfm?c_id=1&objectid=11998271

http://www.atimes.com/article/china-scare-spreads-new-zealand/

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