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Intervista a Giorgio Cuscito – Pechino corre, Canberra scappa

Intervista a Giorgio Cuscito

Intervista a Giorgio Cuscito - Foto di edwindoms610 da Pixabay

Giorgio Cuscito è consigliere redazionale di Limes, analista e studioso di geopolitica della Cina e dell’Indo-Pacifico. 

Lo scorso novembre è stato firmato il Partenariato economico globale regionale, un accordo di libero scambio che coinvolge quindici Paesi nellarea pacifica. Che significato assume laccordo per la Cina e lAustralia?

Il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) è un accordo che la Cina ha voluto fortemente perché lo considera uno strumento tramite cui modellare, nel lungo periodo, il libero scambio in Estremo Oriente. A questo accordo partecipano anche alcuni rivali di Pechino, come il Giappone e l’Australia, ma questo non significa che questi Paesi appoggino la pretesa strategica cinese. Al contrario, pensando per esempio a Canberra, si tratta di uno strumento per impedire alla Cina di condurre da sola questo progetto. È un modo per essere presente, in quanto rimanere esclusi da questa piattaforma vorrebbe dire rimanere esclusi dalla possibilità di incidere e, di fatto, cercare di bilanciare le attività cinesi, che spesso si svolgono bilateralmente con i Paesi, sia quelli dell’Asean sia, specie in prospettiva, quelli dell’Oceania. 

In questo contesto, Australia e Nuova Zelanda si muovono da punti di vista differenti, in particolare dopo gli ultimi sviluppi tra Canberra e Pechino. Le relazioni tra Australia e Cina in questo momento sono decisamente tese e vanno oltre a una querelle economica, in quanto sono legate al processo di penetrazione della Cina nella sfera di influenza australiana e, soprattutto, nella sfera indiretta degli Stati Uniti. L’Australia rappresenta uno dei partner fondamentali degli USA in Estremo Oriente, non solo nell’ambito del Quad, il dialogo quadrilaterale di sicurezza, rilanciato non a caso recentemente, che coinvolge Giappone, Australia e India, ma anche nei Five Eyes, la comunità di intelligence anglofona composta da Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito e Canada, che vede nell’Australia un tassello fondamentale.

Negli ultimi anni la Cina ha investito forti risorse nella Belt and Road Initiative, un progetto che ha riguardato anche gli Stati dellOceania. Come sono cambiati i rapporti di forza nella regione alla luce della BRI?

Dopo che da tempo ha iniziato a investire ingenti risorse in Oceania, la Cina negli ultimi anni è riuscita a coinvolgere nelle Vie della Seta, il progetto geo-politico tramite cui cerca di ampliare la propria attività all’estero, Paesi come Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Vanuatu, Tonga, Fiji, Isole Cook, Samoa, Kiribati e, seppur in parte, la nuova Zelanda. È un processo in corso d’opera che ha visto di recente nuovi sviluppi: poco tempo fa, dopo che lo Stato di Victoria aveva inizialmente aderito alla BRI, il governo centrale australiano ha deciso di fare un passo indietro, stabilendo che lo Stato non avrebbe potuto fare parte del progetto. La Cina vuole espandere la propria potenza, non solo economica ma anche politica e militare fuori dal suo tradizionale “cortile di casa”, ovvero il Mar Cinese Orientale

In questo tentativo, si confronta con la presenza militare statunitense che si estende lungo la cosiddetta “prima catena di isole”, una zona che comprende lo spazio marino che dalla Corea del Sud passa per Giappone, Singapore, Taiwan e le Filippine, attraverso cui gli Stati Uniti contengono la Cina dall’accesso all’Oceano Pacifico. Senza considerare la questione di Taiwan, se ci concentriamo sull’Oceania le attività in questa regione servono proprio per oltrepassare la prima catena di isole ed espandere così le proprie attività nel Pacifico. Questo ha un impatto diretto sugli interessi degli Stati Uniti, perché per la Cina significa avanzare verso l’Oriente in direzione del continente americano. Una notizia di poco tempo fa, molto interessante, è il possibile investimento cinese a Kiribati per l’espansione di una pista di atterraggio: Kiribati è un Paese con pochi abitanti ma che rappresenta un importante snodo strategico, perché si trova nel mezzo dell’Oceano Pacifico a pochi chilometri da isole e arcipelaghi controllati dagli USA.

Come è cambiata in questo periodo l’immagine che hanno della Cina l’Australia e la Nuova Zelanda?

L’Australia percepisce una minaccia nella Cina, più di quanto non succedesse fino a qualche anno fa, perché ha subito una forte penetrazione politica ed economica e questo ha fatto scattare un campanello di allarme che ha portato Canberra a riconsiderare il suo rapporto con la potenza asiatica. Come dicevo prima, tale ripensamento si è tradotto in un passo indietro rispetto agli investimenti cinesi sul suolo australiano e in una ripresa delle esercitazioni militari nell’ambito del Quad, tra le quali spicca l’esercitazione di Malabar al largo delle coste indiane, avvenuta lo scorso novembre. In questo frangente, per la prima volta USA, Giappone, India e Australia hanno preso parte contemporaneamente all’esercitazione, mandando un messaggio chiaro a Pechino.

La Nuova Zelanda, invece, rispetto agli altri Paesi che compongono i Five Eyes, è maggiormente interessata agli investimenti cinesi e quindi cerca di mantenere un rapporto più equilibrato e meno schierato dalla parte statunitense. Sul lungo periodo tuttavia non assisteremo a un totale appoggio neozelandese nei confronti della Cina in chiave anti-statunitense, perché questo tipo di iniziativa andrebbe contro l’interesse strategico della stessa Nuova Zelanda, che continua a fare parte dei Five Eyes e che fa sempre riferimento all’ombrello difensivo Usa. Non ci sarà pertanto un distacco dalla strategia statunitense, anche a fronte di un’evidente capacità attrattiva esercitata dalla Cina su questo Stato.

Nella competizione tra Cina e Stati Uniti, la dimensione economica, quella politica e militare sono profondamente intrecciate. Un esempio è offerto dalla questione delle terre rare, risorse tanto importanti nei processi energetici quanto nello sviluppo delle tecnologie militari.

L’elemento più importante da tenere a mente è che la Cina non solo detiene i giacimenti più grandi di terre rare, una risorsa che si può trovare anche in Giappone e in Australia, ma a differenza di questi Paesi la Cina è oggi il principale lavoratore di terre rare. Essa infatti è il Paese che più di tutti oggi raffina queste preziose risorse, in un processo peraltro estremamente inquinante, che ha visto la Repubblica Popolare guadagnare un’importante fetta di mercato. La maggior parte dei Paesi, a causa dell’inquinamento, punta molto su questa attività condotta in Cina – e questo è uno dei motivi per cui la quota cinese si conferma la principale. 

È vero che gli Stati Uniti stanno cercando di ridurre la propria dipendenza dalle terre rare cinesi, anche grazie alla collaborazione degli alleati Giappone e Australia, ma in questo momento la Cina ha sicuramente un vantaggio competitivo in questa fase della filiera produttiva. Tuttavia, essa si trova in svantaggio in un’altra fase della filiera, ovvero quella dei semiconduttori, campo nel quale gli Stati Uniti, assieme alla Corea del Sud, dominano la sfera dei brevetti. Know-how – la conoscenza che permette di utilizzare correttamente una tecnologia (ndc) – e design dei semiconduttori rappresentano un affare sostanzialmente statunitense e sudcoreano e questo crea una sorta di dipendenza da parte della Cina nei confronti dei brevetti Usa.

Come si sta muovendo Pechino in questo scenario?

Pechino da un lato finanzia ingentemente le startup cinesi per colmare colmino il divario esistente, ma si tratta di un processo estremamente lungo, dispendioso e che a volte incontra delle difficoltà. Dall’altro cerca di investire anche nelle tecnologie sviluppate da altri Paesi, come nel caso di Lpe, azienda lombarda che opera nel campo dei semiconduttori e che stava per essere acquisita da un’omologa cinese prima che il governo italiano utilizzasse il Golden Power – un meccanismo di cui si può servire l’esecutivo per tutelare interessi strategici nazionali (ndc) – per bloccare l’investimento dell’azienda cinese Shenzen Invenland Holdings. 

La ragione alla base di questa operazione, come di altre andate invece a buon fine, sta proprio nel tentativo di colmare il gap esistente con gli Stati Uniti. C’è un altro fattore che rientra in questo quadro: Taiwan rappresenta il 50% delle attività fondiarie nel campo dei semi-conduttori. Per questa ragione, mentre la Cina cerca di progredire in un settore così fondamentale per le attività economiche e militari, gli USA stanno cercando di coinvolgere l’isola in questa partita in chiave anti-cinese.

Poco fa dicevi di quanto sia inquinante il processo di lavorazione delle terre rare. Quali sono le priorità della Cina nel contrasto al riscaldamento globale, tra i principali obiettivi delineati nelle Due Sessioni, e come si inseriscono nella sua strategia di potenza?

Da tempo il governo cinese promette di ridurre gli alti livelli di inquinamento, non solo per un’immagine legata al proprio soft power ma perché risponde a un’esigenza strategica, ovvero la stabilità interna e il mantenimento del benessere della popolazione. Per Pechino non si tratta di riuscire a garantire solamente la crescita del Pil, ma diventa sempre più fondamentale assicurare anche un miglioramento di qualità della vita dei cittadini cinesi, perché dalla soddisfazione della popolazione dipende la legittimità del Partito Comunista. Da qui tutti gli sforzi promessi negli ultimi mesi per ridurre le emissioni, puntare sulle energie rinnovabili e sullo sviluppo delle auto elettriche, un fattore su cui la Cina punta fortemente anche in collaborazione con altri Paesi, tra cui la Germania, che è il leader nel campo dell’automotive. 

Quando la Cina promette di ridurre i livelli di inquinamento, la sua è un’azione strategica che si ricollega a una visione più ampia, in cui si inseriscono altri gesti che hanno un significato concreto e simbolico. Un esempio è la sua partecipazione agli accordi di Parigi sul clima, un atto che ha acquisito un significato ancor più importante nel momento in cui l’altra grande potenza, gli Stati Uniti, ha deciso di ritirarsi dagli accordi durante la presidenza Trump. Quella ambientale è una questione decisiva, alla pari della questione delle condizioni sanitarie della popolazione, su cui la Cina punta per mostrarsi agli occhi degli altri Paesi un attore e una potenza responsabile.

In questo momento uno dei più rilevanti teatri di confronto tra le due potenze è Taiwan: alla luce della sua importanza per Pechino e per Washington, cosa possiamo aspettarci nel prossimo futuro?

Nel breve periodo, da un lato, proseguiranno sicuramente le esercitazioni militari della Repubblica Popolare cinese attorno a Taiwan; dall’altro, gli USA continueranno a finanziare lo sviluppo e il potenziamento militare dell’isola. L’obiettivo di Pechino è quello di prendere il controllo di quest’ultima entro il 2049, ma al momento è un processo decisamente complicato. Difficilmente si arriverà a un’unificazione pacifica, perché i taiwanesi non intendono accettarla, in quanto questo significherebbe rinunciare a una serie di diritti e di libertà e a un’indipendenza mai ufficializzata ma di fatto. D’altra parte, un’invasione cinese dell’isola, oltre a essere molto complessa sul piano tattico perché implicherebbe tutte le difficoltà di uno sbarco anfibio, andrebbe incontro a un’inevitabile reazione statunitense che porterebbe le prime due potenze al mondo a un conflitto.

Allo stesso tempo gli USA non vogliono per ora incitare Taiwan a dichiarare l’indipendenza formale, perché la Cina vedrebbe questo atto come il superamento di una linea rossa, che allo stesso modo porterebbe inevitabilmente alla guerra. Questa situazione, pertanto, genera uno stallo da entrambe le parti ed è estremamente difficile dire cosa può succedere nel lungo periodo. Certo è che Pechino fa del controllo e della conquista dell’isola un obiettivo strategico che garantirebbe la protezione della costa da possibili attacchi – lo stretto di Taiwan è largo circa 150 chilometri – e servirebbe come punto di accesso all’Oceano Pacifico, grazie al quale “rompere” la prima catena di isole e guadagnare un vantaggio nell’espansione delle attività navali all’estero. Una situazione inaccettabile per gli USA, perché significherebbe consentire alla Cina di compiere un grande passo in avanti in un ambito in cui non possono permettersi rivali: il dominio dei mari.

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