Lo Spiegone

Balcani in pillole: Serbia

La storia della Serbia è profondamente legata alla nascita e alla dissoluzione della Jugoslavia. Sin dagli albori, il Paese si è fatto portavoce dell’ideale jugoslavo, come ricongiungimento dei popoli slavi-meridionali, e della costituzione di una nuova entità statale. Coinvolta direttamente nel lacerante conflitto degli anni ’90, la Serbia ha dovuto affrontare una delicata fase post-bellica, segnata da una crisi economica e sociale profonda e dal progressivo avvicinamento all’Unione Europea, seppur vincolato alla risoluzione di diverse delicate questioni politiche.

mappa_fig_vol1_004550_003

Popolazione: 7,111,024 abitanti
Superficie: 77,474 kmq
Densità di popolazione: 80.3 ab./km
Capitale: Belgrado
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Gruppi nazionali: serbi 83.3%, ungheresi 3.5%, rom 2.1%, bosgnacchi 2%, altri 5.7%, non dichiarati o sconosciuti 3.4%
Religioni diffuse: ortodossi 84.6%; cattolici 5%; musulmani 3.1%; protestanti 1%; atei 1.1%; altri 0.8%; non dichiarati o sconosciuti 4.5%
Lingua ufficiale: serbo 88.1%
Altre lingue: ungherese 3.4%; bosniaco 1.9%; rom 1.4%; altre 3.4%; non dichiarato o sconosciuto 1.8%
Posizione rispetto all’UE: Paese candidato dal 2012

Storia politica

La storia della Serbia è intimamente intrecciata con l’idea jugoslava, fin dalla fondazione delle Province illiriche (1805-11) durante la dominazione napoleonica, le quali fornirono una prima occasione di autogoverno dei popoli slavo-meridionali. La Serbia giocò un ruolo politico-militare fondamentale nella creazione di un’entità statale che ricongiungesse le varie comunità slave, avendo essa ottenuto accesso all’indipendenza per prima, in occasione del Congresso di Berlino del 1878.

Considerandosi il “Piemonte slavo”, la Serbia tentò di seguire l’esempio italiano per guidare il processo di unificazione nazionale. Per questo motivo, Belgrado partecipò ad entrambe le guerre balcaniche del 1912-13, con l’obiettivo di conquistare la Macedonia (intesa come Serbia meridionale), e alla prima guerra mondiale, vista come lotta per l’emancipazione delle popolazioni slavo-meridionali ancora sotto il dominio asburgico. È fondamentale sottolineare che già in questo periodo, in alcuni ambienti della classe dirigente belgradese e della monarchia Karadjordjevic, iniziò a farsi strada l’ambiguità di fondo di un approccio serbo che confondeva il progetto jugoslavo con quello di una cosiddetta “Grande Serbia”. Ciò nonostante, nel 1917 a Corfù i rappresentanti delle tre comunità jugoslave (croati, serbi e sloveni) firmarono l’accordo per la costituzione di uno Stato di Jugoslavia (o Regno SHS), sotto la dinastia dei Karadjordjevic.

Pietro I di Serbia, primo sovrano del Regno SHS (Fonte: Wikipedia Commons).

Il periodo tra le due guerre fu segnato da questioni interne legate alla forma dei poteri dello Stato: la Serbia insisteva per l’accentramento dei poteri mentre la Croazia per  il decentramento. A ciò si aggiunsero le pressioni internazionali, in particolare dell’Italia fascista, che sosteneva le milizie croate di Ante Pavelic.

Con l’invasione della Jugoslavia nel 1941, la prima formazione statale fondata dai popoli slavi scomparve, ma l’insorgere del movimento partigiano guidato dal Maresciallo Tito ripropose l’ideale jugoslavo attraverso nuove parole d’ordine, come emancipazione sociale e internazionalismo. Su queste nuove basi, nel 1943, fu fondata la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, composta da Serbia, Montenegro, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. Nel 1945, furono create all’interno della Serbia due regioni autonome: la Vojvodina, abitata da una consistente minoranza ungherese, e il Kosovo, popolata da una solida maggioranza albanese.

Con la rottura tra Belgrado e Mosca nel 1948, la Jugoslavia abbandonò il modello sovietico per introdurre il sistema autogestito che insieme al non allineamento fu uno dei tratti distintivi della Jugoslavia di Tito. Altro momento essenziale per la storia della Jugoslavia furono i cambiamenti introdotti nella Costituzione nel 1974, realizzando progressive aree di autonomia alle repubbliche e alle regioni autonome. Fino alla morte di Tito avvenuta nel 1980, la Jugoslavia conobbe una fase di grande crescita economica, che la portò ad essere la realtà più avanzata tra i paesi comunisti europei. La scomparsa del padre della patria avviò una fase di transizione che fu l’inizio della fine per la Federazione.

A partire dagli anni ’90, la pesante crisi economica che coinvolse la Jugoslavia costruì le premesse per un diffuso malcontento sociale che fu poi abilmente sfruttato dai politici locali, trasformandolo in malcontento politico-nazionale. L’operazione fu sollecitata dagli ambienti intellettuali serbi e sloveni, rispettivamente rappresentati dall’Accademia delle Scienze e dal periodico “Nova revija”. È proprio in questa fase che si distinsero personaggi come Slobodan Milošević, Segretario della Lega dei comunisti serbi dal 1987, e Milan Kucan, Segretario della Lega dei comunisti sloveni.

I due si trovavano su posizioni inconciliabili, in quanto Milošević si faceva promotore di un esasperato centralismo, mentre Kucan di un esasperato decentramento. Tale scontro portò ad una prima lacerazione, ovvero la dissoluzione della Lega dei comunisti di Jugoslavia nel 1990, facendo piombare la Federazione in uno stato di disordine politico che rafforzò notevolmente il nazionalismo serbo coltivato dal Milošević, quello sloveno da Kucan e quello croato da Tudjman. In queste condizioni, si svolsero i referendum per l’indipendenza in Slovenia e in Croazia nel giugno del 1991. Con la fine della Federazione come era stata fondata da Tito nel 1945, sorse la nuova Repubblica Federale di Jugoslavia.

Durante il conflitto degli anni ’90, la Serbia fu direttamente coinvolta nei diversi teatri di scontro (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo). Inoltre, la situazione della Repubblica federale precipitò a causa dell’inesorabile disgregazione dell’ex-Jugoslavia, e dell’embargo internazionale posto nei confronti di Serbia e Montenegro. Da allora, il Paese fu condizionato dalla combinazione di isolamento internazionale e capillare controllo dei mezzi di informazione esercitato da Milošević. Nel 1996, la popolazione dei centri urbani, esasperata, fu risvegliata dal mancato riconoscimento del positivo risultato elettorale della coalizione di opposizione e il seguente scioglimento della coalizione disperse il potenziale faticosamente accumulato per favorire la democratizzazione del Paese. L’assenza di una reale opposizione a Milošević permise al leader serbo di mantenere saldo il potere.

Slobodan Milošević (Fonte: Wikipedia Commons).

Nel 1999, con l’inasprirsi della crisi in Kosovo e il fallimento dei seguenti accordi di Rambouillet, la situazione degenerò rapidamente portando la NATO ad intervenire direttamente nel conflitto, con bombardamenti continui. Dopo una prova così drammatica, l’isolamento internazionale, aggravato dalle sanzioni economiche e da un clima socio-politico lacerato dal regime imposto da Milošević, ha portato al definitivo collasso del Paese. La situazione economica sempre più grave, il progressivo impoverimento della popolazione, il livello di corruzione e criminalità sempre più endemico, causarono molte defezioni sia nell’esercito sia nell’ambiente politico, favorendo la creazione di un fronte di opposizione. Alle elezioni del settembre del 2000, Milošević fu finalmente estromesso dal potere (per poi essere arrestato nel 2001 e processato all’ICTY per crimini di guerra), avviando un nuovo corso politico democratico sotto la guida di Vojslav Kuštunica.

La delicata fase post-Milošević è stata contrassegnata dalla tormentata genesi di un’unione tra Serbia e Montenegro, culminata con l’assassinio del Primo ministro serbo Zoran Djindjic nel 2002. La nuova entità statale (Unione di Serbia e Montenegro), costituitasi nel 2003, ha imboccato la strada delle riforme economiche e istituzionali, con l’obiettivo di una futura adesione all’Unione Europea. Tuttavia, il processo è stato rallentato dalla scarsa collaborazione con l’ICTY, da una critica situazione economica e dalla mancata risoluzione della questione del Kosovo.

Nel 2006, l’Unione fu definitivamente sciolta dal referendum che portò all’indipendenza e al riconoscimento internazionale del Montenegro. La Serbia ha così realizzato la costituzione di un’entità nazionale autonoma dopo circa 90 anni di sperimentazione di progetti di federazione e confederazione con le altre regioni abitate dagli slavi-meridionali. La “nuova” Serbia fu riconosciuta come legittimo erede dell’Unione di Serbia e Montenegro e ne ha ereditato il seggio presso le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali.

A partire dal 2008, la Serbia ha intrapreso il percorso verso una futura integrazione europea, con la firma del Accordo di Stabilizzazione e Associazione. Il processo di avvicinamento all’UE è stato fin da subito vincolato ad alcune condizioni, alcune delle quali ancora irrisolte, come ad esempio il pieno riconoscimento da parte serba del Kosovo. Fondamentale al fine di ottenere lo status di candidato fu la risoluzione adottata dal Parlamento serbo nel 2010, in cui la Serbia si autoaccusava per il massacro di Srebrenica del 1995, nel quale furono uccisi migliaia di bosniaci musulmani, e in cui si incriminavano vari membri politici e militari per i crimini commessi contro civili di etnia albanese nel 1999. Dopo tale risoluzione, l’UE ha concesso lo status di paese candidato nel 2012.

Prospetto economico

La Serbia ha un’economia in transizione: le forze di mercato sono presenti, nonostante il settore statale rimanga dominante in alcune aree dell’economia, la quale dipende dal settore manifatturiero e dagli export, guidati principalmente dagli investimenti stranieri. La malagestione dell’economia dell’era Milošević, il prolungato periodo di sanzioni economiche internazionali, la guerra civile e i danni subiti dalle infrastrutture e dall’industria jugoslava durante i bombardamenti della NATO hanno lasciato l’economia in condizioni molto peggiori di quanto non lo fossero nel 1990, prima della dissoluzione della Jugoslavia. Nel 2015, il PIL serbo era 27,5% sotto al livello in cui era nel 1989.

Dopo che Milošević è stato deposto nel settembre del 2000, la coalizione di governo ha implementato delle misure di stabilizzazione e si è imbarcata in un programma di riforme di mercato. La Serbia ha così rinnovato la propria membership al Fondo Monetario Internazionale nel dicembre del 2000 e ha aderito alla Banca Mondiale e alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Il Paese ha fatto dei progressi nella liberalizzazione del commercio, nella ristrutturazione delle imprese e nella privatizzazione, ma molte grandi imprese, soprattutto gli enti per la distribuzione dell’energia elettrica, le compagnie di telecomunicazioni e le imprese di estrazione di gas naturale, rimangono statali. Da quando sono iniziate le negoziazioni con l’Unione Europea, la Serbia ha mostrato progressi nell’implementare riforme economiche, come ad esempio quelle relative al consolidamento fiscale, privatizzazione e riduzione della spesa pubblica.

Il tasso di disoccupazione in Serbia è relativamente basso (16% nel 2017) se comparato con i vicini Stati balcanici, ma rimane significativamente oltre gli standard europei. Le maggiori sfide riguardano un reddito familiare stagnante, la necessità di creare lavoro nel settore privato, le riforme strutturali delle compagnie statali, riforme strategiche del settore pubblico e il bisogno di nuovi investimenti esteri diretti. Da risolvere restano anche il sistema giudiziario inefficiente, alti livelli di corruzione e una popolazione in invecchiamento.

I fattori favorevoli alla crescita economica serba derivano dalle riforme che il Paese sta intraprendendo come richiesto dall’Unione Europea e dal FMI, la sua posizione strategica, una forza lavoro specializzata e relativamente poco costosa, e accordi di libero scambio con l’UE, la Russia, la Turchia e paesi che sono membri dell’Accordo centro-europeo di libero scambio (CEFTA).

Componente etnico-religiosa

Come per la Bosnia, la componente etnico-religiosa della Serbia costituisce un tratto essenziale per comprenderne le dinamiche passate e presenti.

L’antica terra d’origine della popolazione serba era nei pressi della catena montuosa Kopaonik, a sud dell’attuale Serbia, e includeva il bacino del Kosovo e la regione attorno all’allora capitale Ras (ora Novi Pazar). Dopo la conquista dei territori da parte dell’Impero Ottomano nel XIV secolo, la popolazione serba ha lasciato la regione meridionale per trovare rifugio a nord, nelle colline Šumadija. I precedenti insediamenti serbi saranno poi occupati dalle popolazioni albanesi.

In Serbia, più dei quattro-quinti della popolazione si definisce come serba. Le principali minoranze sono quella ungherese (concentrata nella regione della Vojvodina) e quella bosgnacca (ovvero i bosniaci musulmani). L’etnia rom costituisce una piccola ma peculiare minoranza, mentre altre minoranze particolarmente circoscritte sono quelle croata, slovacca e montenegrina. È da notare che, come spesso accade nei censimenti svolti nei Balcani, parte della popolazione (in questo caso quella albanese) ha boicottato l’ultimo censimento del 2011. Allo stesso modo, la popolazione rom tende a essere costantemente sottostimata, quando potrebbe rappresentare il 5-11% della popolazione.

Composizione etnica della Serbia (Fonte: Wikipedia Commons).

Come in altre regioni balcaniche, la distribuzione etnica della popolazione è notevolmente mutata durante il conflitto degli anni ’90, a causa dei flussi migratori provocati dalle operazioni di pulizia etnica. In particolare, quelle che erano le due regioni autonome della Serbia, ovvero Vojvodina e Kosovo, erano le due aree più etnicamente variegate: in Vojvodina, i serbi costituiscono ancora la maggioranza in un contesto in cui esistono altri gruppi etnici come quello ungherese, mentre in Kosovo prima della guerra la popolazione albanese rappresentava più dei tre-quarti della popolazione (nonostante i serbi la considerino la propria terra originaria), un numero che è aumentato conseguentemente al conflitto scoppiato nel 1998, quando centinaia di migliaia di abitanti serbi e rom lasciarono il Kosovo.

Dal punto di vista religioso, il tratto distintivo dell’identità serba è l’appartenenza alla fede cristiana ortodossa, nonostante durante l’era comunista meno di un decimo della popolazione praticasse attivamente. Nel corso della storia, la Chiesa autocefala serba ortodossa si è dimostrata un campione degli interessi nazionali serbi. Durante il periodo di dominazione ottomana ha intrapreso una strenua resistenza contro le infiltrazioni greche provenienti da Costantinopoli. Proprio a causa di questo attivismo, l’Impero Ottomano decise di sopprimere la Chiesa serba ortodossa dal 1766 al 1832. Le altre religioni diffuse sono la religione cattolica, quella musulmana e quella protestante calvinista.

Bandiera

Bandiera serba

La bandiera serba, come quella croata e quella russa, richiama i colori tradizionali del pan-slavismo (rosso, blu e bianco), i quali rappresentano  la libertà e gli ideali rivoluzionari. Essi sono disposti in bande orizzontali, sulle quali è posto, leggermente sul lato del pennone, lo stemma nazionale. Il campo dello stemma rappresenta lo Stato serbo e presenta un’aquila bianca a due teste su uno scudo rosso. Sull’aquila è posto uno scudo più piccolo, anch’esso rosso, il quale rappresenta invece la nazione serba, diviso in quattro quarti da una croce bianca. Le interpretazioni variano circa il significato e le origini dei simboli bianchi e curvi all’interno di ciascun quarto. Infine, la corona reale sormonta lo stemma.

 

Fonti e Approfondimenti

CIA Database

European Commission, “European Neighbourhood Policy and Enlargement Negotiations: Serbia

Privitera, Francesco (a cura di). Guida ai paesi dell’Europa centrale orientale e balcanica. Annuario politico-economico 2010. Bologna: Il Mulino (2011).

World Bank Database

 

Exit mobile version