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Nord Stream 2: il gasdotto che divide l’Europa?

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@GerdFahrenhorst, Wikimedia Commons (CC-BY 4.0)

Al centro del dibattito europeo dal 2015, il progetto di matrice principalmente russo-tedesca sembra aver messo in crisi l’Unione dell’Energia fin dal principio. La divisione attorno a Nord Stream 2 permette di riflettere su alcune dinamiche di lungo corso nel commercio del gas tra Russia e Europa, incluso il ruolo degli Stati Uniti. Nonostante la radicalizzazione del discorso, il gasdotto evidenzia la resilienza del settore energetico come locus di cooperazione tra Russia e Unione europea (o meglio, alcune compagnie energetiche) al di là dei risvolti negativi a livello diplomatico.

Alle origini del progetto: una vecchia soluzione per un nuovo contesto

La storia del Nord Stream 2 inizia ufficialmente a giugno del 2015 quando al Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo i colossi energetici Gazprom (Russia), E. ON (Germania), Royal Dutch Shell (Paesi Bassi) e OMV (Austria) firmano un memorandum d’intesa sulla costruzione di un collegamento sottomarino diretto tra i giacimenti di gas della penisola Yamal (Russia) e la Germania. Niente di sorprendente se si pensa agli obiettivi di lungo corso dei due attori statali principali. Da un lato la Russia, intenta a mantenere la propria posizione egemonica nel commercio del gas evitando il passaggio attraverso Ucraina, Polonia, Bielorussia e altri Paesi est-europei per raggiungere i suoi maggiori acquirenti (Germania, Francia, Italia, Austria). Dall’altro la Germania, che aspira a diventare una hub per il mercato energetico europeo. Nel complesso, il progetto ricalca una vecchia soluzione, ovvero l’omonimo Nord Stream 1, che da anni collega direttamente giacimenti russi alla rete di distribuzione dell’Europa occidentale.

A rendere controverso il nuovo gasdotto non è tanto la sua natura, ma il contesto geopolitico. Sebbene una prima bozza del progetto risalga al 2011, l’annuncio è avvenuto soltanto nel bel mezzo della più grave crisi diplomatica del post-guerra fredda tra la Russia e l’Occidente. A fare da sfondo a un gasdotto russo che mira a bypassare il territorio ucraino per raggiungere direttamente il mercato europeo sono, infatti, la crisi ucraina e il regime internazionale di sanzioni economiche imposte a Mosca in seguito all’annessione della Crimea. Tuttavia, oltre alla chiara neccesità del Cremlino di Putin di mostrarsi forte e capace di cooperare sul piano internazionale ed economico, anche la maggiore concorrenza sul mercato energetico europeo e la shale revolution negli USA spiegano l’interesse di Gazprom a salvaguardare la propria posizione come primo esportatore di gas verso l’Europa. Geopolitica e mercato si intrecciano in un progetto infrastrutturale che fa riemergere la “cortina di gas”.

Il fronte degli oppositori: l’asse Washington-Varsavia-Bruxelles

A fare la guerra al Nord Stream 2 ci ha pensato subito l’Europa centro-orientale, Paesi baltici compresi, guidata dalla Polonia.  Oltre alle ovvie ragioni storiche, gran parte degli ex Paesi del Patto di Varsavia presenta ancora un alto tasso di dipendenza energetica nei confronti della Russia. E, sullo sfondo della crisi ucraina, l’offensiva anti-NS2 non si è fatta attendere. Da una parte, con la creazione di un discorso securitario che stigmatizza il gasdotto non solo come un pericolo per gli obiettivi di diversificazione e sicurezza energetica dell’Europa, ma anche come una vera e propria arma dell’hybrid warfare russo. Dall’altra, tramite la condanna della  joint-venture NS2 da parte dell’autorità antitrust polacca in quanto ritenuta dannosa per la concorrenza. La prima forma societaria prevedeva, infatti, la partecipazione azionaria dei vari partner europei oltre a quella di Gazprom. Ad oggi, nonostante le ripetute accuse di monopolio, Uniper, Wintershall, Shell, OMV e Engie figurano come investitori finanziari, mentre Gazprom è rimasto l’unico share-holder.

Uno strumento legale ancora più decisivo si trova, invece, nelle mani di Russia, Finalandia, Danimarca, Svezia e Germania, nelle cui acque territoriali e/o zone economiche esclusive è previsto il passaggio del gasdotto. Finora soltanto Copenaghen ha opposto resistenza varando una legge che consente al governo di porre il veto sul passaggio di gasdotti attraverso le acque territoriali per motivi di sicurezza, difesa e/o politica estera.  Le acque territoriali danesi sono comunque raggirabili tramite un percorso alternativo e il blocco del progetto risulta improbabile.

Anche la Commissione europea ha optato per un approccio legalistico. Secondo Berlaymont, l’opera – oltre a rappresentare una strategia divide et impera da parte della Russia – mette in luce una zona grigia del diritto europeo che soltanto un accordo intergovernativo porterebbe risolvere. La Commissione ha, quindi, chiesto al Consiglio un mandato per negoziare direttamente con la Russia. Sotto crescente pressione dall’Europa centro-orientale, si è poi concentrata sull’applicabilità del Terzo pacchetto dell’energia al NS2. Nonostante l’evidente inadempienza, il servizio legale l’ha però esclusa. La Commissione ha, infine, proposto un’estensione delle regole del mercato interno ai gasdotti offshore. Visto il coinvolgimento di grandi compagnie energetiche e trattandosi di investimenti privati, l’appoggio da parte del Consiglio all’offensiva anti-NS2 resta comunque poco plausibile.

Anche l’America di Trump si è mostrata sempre più minacciosa nei confronti del gasdotto e degli attori europei coinvolti. Oltre agli attacchi verbali, non sono mancate misure più concrete come il CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act) , che rende possibile un’estensione delle sanzioni alle compagnie che finanziano NS2. Tuttavia, oltre che da interessi geopolitici, la posizione americana è fortemente influenzata dall’obiettivo di rafforzare gli States come esportatori di energia a livello globale grazie al GNL (gas naturale liquefatto). Non stupisce che proprio Varsavia abbia appena siglato un contratto di vent’anni per l’approvvigionamento di GNL d’oltreoceano. D’altronde, già Juncker aveva aperto le porte al gas di Trump quando a luglio, minacciato da una guerra commerciale transatlantica, annunciò un aumento delle importazioni.

Il doppio gioco di Berlino con Mosca

Se per il fronte degli oppositori l’elemento geopolitico ha fatto da collante come narrazione fondamentale, lo stesso si può dire per l’elemento commerciale nel gruppo dei sostenitori. Berlino ha più volte respinto le critiche dei partner dell’Europa centro-orientale sottolineando la natura commerciale del progetto, nonché la libertà delle compagnie energetiche. Una visione pienamente condivisa da Mosca, che non nega l’interesse economico dietro il rafforzamento di un collegamento diretto con il suo primo mercato di esportazione dell’energia. Oltre a evitare interruzioni degli approvvigionamenti dovute a scontri con Paesi terzi, raggirare i cosiddetti Paesi di transito (tipicamente Ucraina, Bielorussia e Polonia) significherebbe anche evitare il pagamento di tasse dovute al passaggio. Entrambi obiettivi di lungo corso della Russia che, nonostante il tanto pubblicizzato accordo con la Cina del 2014, resta economicamente dipendente dalle esportazioni di gas al di là degli Urali.

Considerando, però, le reazioni al caso Skripal, il sostengo per la politica delle sanzioni e l’impegno di Merkel nella questione ucraina, il supporto tedesco a NS2 in quanto progetto commerciale sembra quasi inconcepibile. Solo ad aprile 2018, dopo un incontro con Poroshenko, la cancelliera ha creato un nesso tra il gasdotto e il contesto geopolitico, sottolineando che servirà “fare chiarezza sul ruolo futuro del transito del gas russo attraverso l’Ucraina per mandare avanti il Nord Stream“. Tuttavia, l’origine dell’attuale posizionamento tedesco nei confronti della Russia risale all’Ostpolitik degli anni Settanta, che verte sull’ottimizzazione del riavvicinamento economico (comprese le relazioni energetiche) volto a stimolare la distensione. Inoltre, Berlino sa bene che l’economia russa è strettamente dipendente dalle esportazioni di gas sul mercato europeo, mentre lo stesso non si può dire per l’economia tedesca rispetto a Mosca.

NS2 e Unione energetica: complementari o concorrenti?

Il Nord Stream 2 riporta alla luce la tipica divisione tra Europa nord-occidentale e Europa centro-orientale nelle relazioni energetiche con la Russia. La “cortina di gas” deriva da sostanziali differenze strutturali e ha radici storiche nella divisione del continente durante la guerra fredda. Lo stesso vale per l’opposizione degli USA, fin dagli anni Settanta contrari ai contratti di approvigionamento tra Paesi dell’Europa occidentale e URSS. Oggi, però, c’è un quadro unitario che lega gli Stati membri mettendo diversificazione e transizione al centro della politica energetica. Puntare sull’aumento delle importazioni di un combustibile fossile proveniente da un attore geopolitico imprevedibile risulta, pertanto, una scelta discutibile.

I rapporti energetici con gli Stati terzi restano, tuttavia, in gran parte nelle mani dei Paesi membri dell’Ue e la Russia è un partner che ha sempre fatto discutere. D’altronde, neppure la Commissione europea ha deciso di attuare azioni punitive nei confronti di Gazprom, accusata di comportamento monopolistico e sleale sul mercato energetico in Europa centro-orientale. Il caso dell’anti-trust si è concluso con una serie di obblighi che l’azienda russa si è impegnata a rispettare, pena l’imposizione di una multa. Evidentemente, quando si tratta di commercio del gas, la condizione di dipendenza reciproca tra Russia e Europa persiste e, nonostante la polarizzazione del discorso politico prodotta dal NS2, gli interessi mutuali alla base delle loro relazioni energetiche ne fanno da presupposto.

Fonti e approfondimenti

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