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Dentro alle Conferenze sul clima: intervista a Rachele Rizzo

Intervista

@Tookapic - Canva/Pexel - CC-0

All’interno delle Conferenze sul clima la partecipazione dei giovani è riconosciuta in modo ufficiale, con l’obiettivo di rispettare il principio di equità intergenerazionale all’interno dei negoziati. Tra questi giovani troviamo Rachele Rizzo, policy advisor per l’Italian Climate Network (ICN), un’associazione che con diverse iniziative si occupa di affrontare le sfide dei cambiamenti climatici. Con lei, nell’ambito del progetto Verso la COP25, abbiamo parlato dell’esperienza dei negoziati e dei loro futuri sviluppi.

Per cominciare parlaci di te: di cosa ti occupi e da quanto dura la tua esperienza di partecipazione ai negoziati?

Insieme a ICN ho iniziato a partecipare ai negoziati internazionali sin dal 2013. Nel mio lavoro come consulente mi occupo di responsabilità sociale d’impresa, ormai da diversi anni. Sono esperta di sistemi di gestione ambientali, di strategie di decarbonizzazione per le imprese, compensazione e calcolo dell’impronta di CO2, insieme a una serie di temi dal lato sociale e dei diritti umani.

Dal 2013, ho seguito i negoziati intermedi dell’UNFCCC, che si tengono in primavera e che sono meno conosciuti dai media,e ho partecipato alla COP23 e 24, oltre che a quella attuale di Madrid. Inoltre, con ICN facciamo parte di due constituencies, i gruppi di interesse all’interno dei negoziati, quella giovani (YOUNGO) e quella Women&Gender. Seguiamo le attività dei negoziati facendo parte di questi gruppi. Cerchiamo di coordinare la posizione dei giovani sui temi negoziali e cerchiamo in qualche modo di influenzare il processo politico e portare all’attenzione del segretariato e delle parti dell’accordo alcuni temi da noi ritenuti prioritari. Un tema importantissimo per noi è quello dell’empowerment dei giovani e della diffusione di conoscenze. Abbiamo svolto un ruolo attivo nell’introduzione del principio di equità intergenerazionale nel preambolo dell’accordo di Parigi, proprio per far sì che la partecipazione dei giovani fosse riconosciuta in modo ufficiale nei negoziati.

Quali sono i temi principali di questa COP? In particolare ci sono topic più complessi da affrontare rispetto ad altri?

Questa COP è stata descritta in modo accurato dalla segretaria del UNFCCC, Patricia Espinosa, che ha parlato dell’inizio di un nuovo periodo di ambizione a partire da questa COP. Cosa significa? Per me ciò è legato alla genialità degli Accordi di Parigi, profondamente innovativi, la cui forza (e debolezza) rispetto a Kyoto è l’approccio bottom-up. Quindi c’è un obiettivo globale, quello di mantenere le temperature al di sotto di 2°C, e se possibile a 1,5°C, affiancato a obiettivi che vengono determinati dai Paesi, i cosiddetti NDC (Nationally Determined Contributions). Questa libertà lasciata ai singoli Stati può porre però il rischio che l’obiettivo generale non venga raggiunto, quindi gli Accordi di Parigi prevedono che ogni 5 anni ci sia il “global stock take”, dove il segretariato raccoglie le proposte contributi e iniziative dei vari Paesi e fa una valutazione per vedere se sono in linea con la traiettoria di riscaldamento globale che ci siamo dati.

Oltre a questo, il segretariato sta cercando di innalzare la pressione politica con eventi come il NY Climate Summit, dove è stato dato spazio ai Paesi che avevano dei livelli di ambizione in linea con gli accordi di Parigi o che si proponevano di inoltrare degli obiettivi in linea, per mettere pressione ai Paesi che non l’avevano fatto. Ecco dunque un primo ambito negoziale: cercare di far sì che i nuovi contributi inoltrati entro il 2020 siano effettivamente in linea con l’accordo di Parigi.

Il secondo tema è piuttosto tecnico, ovvero il meccanismo di scambio delle emissioni (articolo 6 degli Accordi). Ritengo che il motivo per cui non sia stata rimandata la COP sia dovuto alla necessità di avere un accordo su questo tema prima che inizi il periodo di riferimento degli Accordi di Parigi, altrimenti rischia di essere un trattato solo parzialmente funzionante. A Katowice è stato fatto un lavoro di negoziazione assolutamente notevole, perché si è arrivati al Paris Rulebook, ma manca proprio la parte sui meccanismi di scambio.

I mercati di scambio delle emissioni esistono sin dal Protocollo di Kyoto. Questo era possibile perché solo alcuni Paesi erano vincolati da dei limiti nelle proprie emissioni e dei target, e si dava la possibilità ai Paesi che non riuscivano a raggiungere questi obiettivi di comprare crediti di carbonio implementando dei progetti in altri Paesi. Ad esempio, c’erano il Joint Implementation e il Clean Development Mechanism (CDM), dove se un Paese non riusciva a raggiungere gli obiettivi di Kyoto poteva comprare i crediti mancanti sul mercato. Gli Accordi di Parigi però pongono il problema su scala globale: se il Paese che non raggiunge gli obiettivi compra dei crediti, questa riduzione viene attribuita a chi paga o al Paese che ha effettuato la riduzione delle emissioni? Questo è un altro nodo negoziale complicato: come si faccia a prevenire il double-counting.

Un altro nodo è il seguente: cosa succederà ai progetti iniziati sotto il CDM una volta che gli Accordi di Parigi entreranno in vigore? Verranno cancellati e i crediti non verranno usati, oppure i crediti saranno tutti trasferiti (o solo in parte)? Se si decide di non trasferirli si crea un problema a chi ha avviato i progetti, che potrebbe avere ancora bisogno di finanziamenti e di un’ulteriore spinta. Oppure si inizia una “fase” in cui questi crediti vengono acquistati anche se non è chiaro come vengano contabilizzati. Se venissero tutti trasferiti nel nuovo periodo di riferimento, si rischia un’offerta spropositata di questi crediti, per cui il prezzo sarebbe troppo basso e ben al di sotto di quello che serve per la riduzione delle emissioni.

Esiste un organo che controlla le effettive emissioni?

Sì, ci sono delle certificazioni. Ad esempio, esistono dei registri globali in cui si riportano le emissioni cancellate dal mercato. Funziona un po’ come i certificati per l’energia rinnovabile: si acquista il certificato verde e viene cancellato dal registro, nel senso che quella quota di energia rinnovabile viene attribuita all’acquirente. Esistono anche enti che certificano i progetti dipendenti da questi crediti di carbonio per verificare che vengano rispettati quei requisiti necessari, come per esempio l’addizionalità della riduzione delle emissioni: se per esempio si considera un progetto di riforestazione già in budget, non è possibile rivenderlo come addizionale a una terza parte.

Inoltre ci sono dei requisiti che con Parigi sono stati resi più forti, come ad esempio integrità ambientale. Non basta che il progetto riduca le emissioni, ma esso deve mantenere intatta la biodiversità, non deve avere impatti sulla popolazione locale, deve essere in linea con gli SDGs. Ci devono essere quindi una serie di criteri oltre la mera riduzione di emissioni: una delle preoccupazioni più forti della società civile è che non ci può essere accordo di Parigi senza inclusione dei diritti umani, i quali devono essere sempre ben presenti in tutte le aree negoziali.

Com’è stata presa la decisione di Trump di uscire dall’Accordo di Parigi? Ci sono Paesi che potrebbero seguire questa decisione?

Nonostante sia avvenuta da poco, era stata preannunciata da tempo. Questo ha permesso un certo riassestamento. Possiamo fare due considerazioni a riguardo:

1) siccome il processo si avvierà, adesso ci vorranno 4 anni e nel frattempo ci saranno le nuove elezioni. Però sarà difficile dire cosa succederà. Ci potrebbe essere l’elezione di un presidente che sia d’accordo con questo tipo di visione, oppure il contrario – non si potrebbe quindi escludere che altri Paesi possano seguirne l’esempio.

2) l’altra considerazione riguarda la reazione che c’è stata con il movimento “We Are Still In” a cui partecipano realtà della società civile e delle imprese, ma anche interi Stati. Mi viene in mente la California che è quella che subisce più impatti e potrebbe alzare la voce. Il problema è che negli USA c’è ancora scetticismo sull’effettiva responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici, quindi la forza della società civile viene meno in questo modo. Ci vorrebbe molta sensibilizzazione della popolazione anche da parte delle imprese che sono convinte, cioè quelle che hanno firmato per continuare in questa direzione.

Per chiudere: ti senti fiduciosa per questa COP25?

La mia risposta è: per forza! Non si può non esserlo. Se nonostante il cambio di location si è deciso di non rimandare l’edizione del 2019, vuol dire che c’è una volontà forte di continuare. Se ciò non fosse avvenuto sarebbe stato preoccupante, perché si sarebbe persa la spinta che si era creata con NY e con gli scioperi sul clima. Secondo me il tempismo era importante, così come il comunicare in modo positivo i negoziati senza farli passare come un fallimento, ma capire che in realtà sono passi da gigante. Il messaggio che voglio mandare è positivo: è vero che bisogna andare alla velocità della luce, ma l’importante è andare nella direzione giusta. 

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