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Oltre la politica della violenza

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Cultura dello stupro, modello patriarcale. Forse mai come dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, si è sentito parlare così tanto nell’informazione mainstream di questi concetti. 

La tragica vicenda, infatti, ha aperto uno squarcio nel dibattito pubblico sul tema della violenza di genere. Facendo emergere posizioni che, sebbene non nuove, non erano state legittimate in passato dai media più quotati. 

Susan Brownmiller, la prima a utilizzare l’espressione rape culture, definisce lo stupro come un processo cosciente di intimidazione, con cui tutti gli uomini mantengono le donne in uno stato di paura

Lo stupro, e così il femminicidio, rappresentano di fatto un’arma che gli uomini utilizzano per rinsaldare un ordine, una gerarchia nelle relazioni tra i due sessi. Relazioni non private ma pubbliche, su cui si fonda quel modello di società iniqua denominato patriarcato. Gli atti con cui viene riaffermato questo potere assumono però le forme più variegate, che si snodano tra prevaricazioni psicologiche, fisiche e non solo. 

Partono dall’utilizzo di un linguaggio sessista, passano per la violenza sessuale e lo stupro, ovvero per quello che Rita Laura Segato definisce la “chiusura dentro la posizione [femminile] come destino: il destino del corpo reso vittima, ridotto, sottomesso”. E culminano negli atti di violenza con cui una donna viene messa definitivamente a tacere. Come nel caso di Giulia. 

A unire questi gesti è il movente. Gli uomini, perché uomini, vogliono e si sentono in diritto di piegare le donne e la loro ricerca di indipendenza, perché donne, e lo fanno.

Tra la presunta superiorità maschile e il femminicidio vi è un filo unico, ben saldo, che delinea e identifica l’ambiente culturale nel quale siamo tutti e tutte profondamente immersi. A prescindere dal nostro grado di consapevolezza. Imparare a decostruire pensieri e atti, ricondurli alla loro comune sorgente, è il primo passo per superarne la morsa avvinghiante. 

Sul tema è stato detto molto in questi giorni. Le parole più forti sono certamente quelle pronunciate da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia. 

Con una lucidità glaciale, Elena ha affermato una verità bruciante: che sua sorella non è stata uccisa da un mostro ma da un uomo. Polverizzando ogni tentativo di spettacolarizzazione del dolore, ha esortato a dare alle fiamme il sistema che ha ucciso sua sorella e, solo nel 2023, altre 105 donne.

Mi sono interrogato su quale riflessione potessi apportare a un dibattito che ha già visto contrapporsi posizioni molto diverse.

In questi anni ho cercato di risalire la corrente degli stereotipi, sentendo anch’io la responsabilità del sangue che continua a scorrere, incessante.

In cerca di un margine di riflessione, mi sono allora chiesto perché la cultura patriarcale nel nostro Paese manifesti ancora un grado di prepotenza così elevato nel legittimare discorsi e comportamenti lesivi della dignità, libertà e integrità psicologica, fisica e sociale delle donne.

Credo sia vero quanto sosteneva Simone de Beauvoir, ovvero che sia sufficiente un momento di crisi perché, a livello più generale, si corra il rischio di una reazionaria messa in discussione. Ma si può davvero parlare di crisi in Italia?

Non penso. Non perché la situazione pecchi di drammaticità, sia chiaro. Se si dà anche solo una rapida occhiata all’aumento delle disuguaglianze sociali, la tentazione è l’ultima a congedarsi. 

Risulta difficile, però, tracciare il profilo di una fase di passaggio, quale è la crisi, perché sono tanti anni, troppi, che questa è la parola cui si associa ogni sviluppo del nostro quotidiano. Avvenga questo in una dimensione culturale, sociale o politica. Tanto vale parlare direttamente di ristagno. Un’interpretazione capace di restituire la dimensione dei fenomeni in un’ottica più aderente alla realtà, anche guardando allo stato dei diritti delle donne. 

In merito, i numeri legati alla violenza di genere parlano un linguaggio inequivocabile: ogni giorno nel 2023 in Italia sono state 85 le donne vittime di reato, mentre due italiani su cinque ritengono le donne responsabili della violenza subita. Sono queste, insieme a quelle dei femminicidi, le cifre di uno stato di intimidazione che non accenna minimamente a sgretolarsi. 

Anche la politica, da parte sua, rimane spesso e volentieri avvolta in questo ristagno collettivo, che contribuisce a creare.

Basti pensare che, di fronte a una situazione che non mostra sensibili segni di miglioramento nel tempo, la risposta è stata il silenzio. Come testimonia l’ultimo rapporto di ActionAid Italia, risulta infatti “pressoché assente una strategia di prevenzione di medio e lungo periodo che agisca sulla diffusa cultura patriarcale e maschilista del Paese.” L’approvazione del cosiddetto ddl Roccella in questo senso aggiunge poco, incentrandosi sull’inasprimento dell’azione repressiva

Quelli che prevedono un maggior intervento punitivo dello Stato sono gli interventi più significativi tra quelli adottati dalla maggioranza. Non si tratta di una novità. Il governo Meloni ha deciso infatti di inserirsi in una tendenza di vecchia data, nota in letteratura come populismo penale. Una tendenza che vede nella messa in atto di politiche securitarie la risposta a una serie di problemi di natura sociale, solitamente presentati come critici per la sicurezza pubblica. 

L’ondata di populismo penale che ha segnato il nuovo millennio non va considerata a sua volta come un fenomeno a sé stante. Rientra anch’essa in una cornice più ampia.

La crescita dell’apparato penale è andata, in molti Paesi occidentali, di pari passo con la dissoluzione dell’apparato di welfare. Ma non è tutto. Affinché siano votate norme più repressive, come si accennava, il dibattito pubblico deve farsi vettore di un sentimento di incertezza, quando non di paura, che possa legittimare il passaggio nelle aule parlamentari. È in questo combinato disposto tra populismo politico e giuridico che si determinano i presupposti per massicce violazioni dei diritti umani

Credo che sia da rintracciare in questo fenomeno uno dei principali motivi alla base del ristagno della democrazia. Ma credo anche che esso sia strettamente correlato al mantenimento della cultura patriarcale. 

Quello che costruisce il populismo penale è un ambiente in cui si respira un costante stato di intimidazione, in cui i soggetti più vulnerabili della società sono quelli più minacciati. Contro di loro, si scaglia l’azione dello Stato. Ma questo, sostengono i reazionari, diventa in ultima istanza soltanto l’interprete, il traduttore della volontà assegnatagli dal “popolo”. L’identiticazione tra popolo, leader e Stato, non a caso, è uno dei tratti identitari di questi movimenti politici.  

Le similitudini con la cultura dello stupro sono evidenti. Un soggetto di potere, un soggetto ridotto in una posizione di sottomissione, da punire per “rimettere al suo posto”.

La differenza salta agli occhi se si guarda agli oggetti di questa punizione. Da un lato, l’ordine gerarchico viene stabilito prevalentemente su base razziale, come testimoniano i tassi di detenzione delle minoranze all’interno delle nostre carceri e le indecenti condizioni di reclusione nei Cpr. Dall’altro, i ranghi da ricomporre sono quelli di genere. La prima, una questione pubblica, rappresentata dal binomio cittadini-criminali. La seconda, una questione sempre pubblica ma concepita da chi perpetra l’aggressione come privata, da confinare quindi alle mura domestiche. 

Il populismo penale non ha dato origine alla violenza di genere. Il populismo penale rappresenta però un’ulteriore minaccia per le donne perché rinforza diversi meccanismi che ne sono alla base. La creazione di uno stato di intimidazione, la brutalizzazione dell’altro, la reazione violenta a un percepito disordine naturale che bisogna ricostituire. 

Seguendo l’invito di Elena Cecchettin, credo che tra le prime cose da bruciare con gli stereotipi che sostengono la cultura patriarcale, vi sia il confine che separa, tramite la disumanizzazione e la violenza, “normali” e “devianti”. Il solo modo per uscire dal ristagno, l’unico per dare vita a una società basata su pieni diritti per tutte e tutti, e non pieni poteri per pochi. 

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