Site icon Lo Spiegone

Un corpo, due teste: la soluzione a due Stati e la sua (in)fattibilità

due stati

Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Pensata per risolvere il conflitto israelo-palestinese, la soluzione dei due Stati prevede la creazione di due Stati separati nella parte occidentale della Palestina storica, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. La proposta porterebbe gli arabi residenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza a ricevere la cittadinanza del nuovo Stato palestinese, così come i rifugiati palestinesi. Gli arabi residenti in Israele avrebbero invece la possibilità di scegliere se mantenere la cittadinanza israeliana o optare per quella palestinese.

Lo scorso 28 maggio, Spagna, Irlanda e Norvegia hanno ufficialmente riconosciuto lo Stato della Palestina. Questo ha fatto sì che in tanti riportassero in auge la soluzione per il conflitto che, dopo il 7 ottobre, ha (ri)dato inizio ad una spirale di violenza tutt’ora in corso. La soluzione a due Stati, tuttavia, è ancora possibile?

La Commissione Peel

La Commissione Peel, riunita nel 1937 nel pieno della Grande Rivolta Araba, propose una suddivisione dell’area del Mandato britannico della Palestina in tre sezioni. Una per gli arabi, una per gli ebrei e, infine, una piccola zona con Gerusalemme sotto controllo internazionale. 

Il rapporto finale della Commissione suggeriva anche il ricollocamento di parte della popolazione, in modo da creare due nazioni etnicamente omogenee. Questo avrebbe comportato il trasferimento di 225.000 arabi dall’area assegnata agli ebrei e di 1.250 ebrei  da quella riservata agli arabi. Tuttavia, il trasferimento sarebbe stato problematico, soprattutto per la parte araba, a causa della scarsità di territorio coltivabile disponibile. 

La Commissione sperava che la situazione potesse stimolare un grande piano di irrigazione della regione. Ma i costi elevati sarebbero dovuti essere sostenuti principalmente dalla Gran Bretagna, in quanto la popolazione locale non poteva affrontarli.

La Commissione Woodhead

Nel 1938, l’idea di dividere il territorio in due Stati venne ripresa dalla Commissione Woodhead. Ispirandosi al progetto della Commissione precedente, elaborò tre possibili piani di spartizione:
– Il Piano A, basato sul Piano Peel, prevedeva la creazione di uno Stato ebraico lungo la costa, nonché di un corridoio sotto mandato britannico da Gerusalemme a Jaffa. Il resto della Palestina si sarebbe unito alla Transgiordania, formando uno Stato arabo. Jaffa (senza Tel Aviv) era inclusa nel corridoio mandatario nel Piano Peel, ma faceva parte dello Stato arabo nel Piano A. Secondo quest’ultimo, lo Stato arabo avrebbe ospitato 7.200 ebrei e 485.200 arabi, quello ebraico 304.900 ebrei e 294.700 arabi;
– Il Piano B prevedeva una revisione delle dimensioni dello Stato ebraico, aggiungendo la Galilea all’area sotto mandato permanente e la parte meridionale della regione a sud di Jaffa allo Stato arabo. Per questa versione, lo Stato ebraico avrebbe accolto una popolazione di 300.400 ebrei e 188.400 arabi (di cui 50.000 nel distretto di Haifa), mentre circa 90.000 arabi e 76.000 ebrei sarebbero rimasti sotto il dominio britannico;
– Infine, il Piano C, quello preferito e consigliato dalla Commissione, avrebbe limitato lo Stato ebraico alla regione costiera tra Zikhron Yaakov e Rehovot, mentre la Palestina settentrionale, inclusa la valle di Jezreel, e la parte semiarida della Palestina meridionale, sarebbero state poste sotto un mandato separato. Questo sarebbe stato amministrato dai britannici, fino a quando le popolazioni arabe ed ebraiche non avessero concordato la loro destinazione finale. Un elemento importante del piano era l’istituzione di un’unione doganale tra lo Stato arabo, lo Stato ebraico e i territori sotto mandato.

Il Libro bianco del 1939

Tuttavia, sia la popolazione araba che quella ebraica respinsero queste proposte. Rendendo nella pratica impossibile attuare una soluzione di questo genere.

Dopo la fine della rivolta araba, il governo britannico emise il Libro bianco del 1939 per rassicurare la popolazione arabo-palestinese che non aveva intenzione di creare uno Stato ebraico. Confermando così le promesse già fatte nel Libro bianco del 1922. Il Libro impose limitazioni sull’immigrazione ebraica e annunciò la creazione di uno Stato unico palestinese entro 10 anni, che avrebbe posto fine al mandato britannico.

In seguito, l’esplosione della Seconda guerra mondiale, con la persecuzione degli ebrei in Europa e l’aumento dell’immigrazione ebraica, resero impossibile la realizzazione dello Stato unitario. Inoltre, le pressioni internazionali per ridurre i vincoli all’immigrazione legale degli ebrei contribuirono a complicare ulteriormente la situazione.

Il piano di spartizione Onu

Dopo la guerra e l’indagine condotta dall’UNISCOP (United Nations Special Committee on Palestine), la ripartizione in due Stati divenne la proposta ufficiale del piano di spartizione dell’Onu del 1947, che riprendeva i lavori delle commissioni. 

Questo progetto prevedeva la suddivisione in tre aree, con Gerusalemme ancora sotto controllo internazionale per l’inestimabile valore religioso, storico e artistico che la città ricopriva. Ma la leadership palestinese e la maggior parte delle nazioni arabe respinsero il piano. Sul fronte ebraico, i rappresentanti ufficiali dichiararono, almeno a parole, di aver accettato la proposta, mentre gruppi estremisti come l’Irgun la rifiutarono esplicitamente. 

Lo Stato ebraico proposto avrebbe ospitato la maggioranza degli ebrei (498.000 contro 407.000 arabi) e occupato il 55% del territorio. Il futuro Stato arabo sarebbe stato invece abitato principalmente da arabi, con una popolazione totale di 735.000 abitanti. 

Una delle ragioni per l’assegnazione della maggior parte del territorio ai coloni ebrei era la volontà di unire tutte le aree in cui erano presenti in numero significativo nel futuro Stato ebraico (anche se in numero minore rispetto alla popolazione araba) per prevenire possibili rappresaglie. Ciò ha portato all’assegnazione al futuro Stato ebraico di quasi tutto il territorio allora sotto l’amministrazione mandataria.

I rappresentanti della popolazione palestinese rifiutarono l’assegnazione dello Stato arabo poiché non includeva sbocchi sul Mar Rosso e sul Mar di Galilea – quest’ultimo essenziale per le risorse idriche della zona. Inoltre, la proposta assegnava loro solo un terzo della costa mediterranea e riconosceva alla minoranza ebraica (che costituiva il 33% della popolazione totale) la maggior parte del territorio. Incluse aree improduttive, come il deserto del Negev.

Con la guerra, la terra: i conflitti del ’48 e del ‘67

Il 15 maggio 1948, contestualmente alla proclamazione della nascita dello Stato ebraico e il ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, scoppiò il conflitto tra Israele e le truppe provenienti da Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania. Nonché di corpi di spedizioni minori provenienti da altri Stati arabi.

Dopo l’uccisione di 6.373 israeliani e di un numero compreso tra 5.000 e 15.000 arabi (stima non confermata), nonché della cosiddetta al-Nakba” (النكبة, “la catastrofe”), ovverosia l’esodo che costrinse 700.000 palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina, a fuggire o ad emigrare altrove, lasciando la terra d’origine. Nel 1949 furono firmati armistizi separati tra Israele ed i vari Stati arabi. Essi portarono lo Stato ebraico a tracciare i propri nuovi confini, mantenuti fino al 1967, che comprendevano il 78% della Palestina mandataria. Un territorio vastissimo, molto più ampio rispetto al 56% previsto dal Piano di Partizione dell’Onu di due anni prima. 

Nel 1967, Israele ottenne una vittoria schiacciante grazie all’effetto sorpresa dell’attacco nella cosiddetta “Guerra dei sei giorni”,  nonostante la superiorità numerica delle truppe arabe. Il conflitto, oltre all’inizio della decadenza di Gamal Abd el-Nasser quale leader d’Egitto e del mondo arabo, segnò un altro cambiamento geografico nell’area della Palestina storica. Difatti, al cessare delle ostilità, Israele guadagnò ancora più territori. 

Grazie a questa vittoria, Israele passò da 21.000 a 102.000 km² di territorio. Occupò le alture del Golan siriano, la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai fino al canale di Suez, mentre la Giordania dovette cedere l’insieme dei territori palestinesi ottenuti nel 1948. L’annessione di Gerusalemme venne ratificata all’indomani del conflitto, indicando la volontà d’Israele di conservare in tutto o in parte le sue conquiste. Gli Stati Uniti chiesero a Tel Aviv il ritiro incondizionato dai territori occupati, senza che vi fosse però un seguito alle dichiarazioni ufficiali. 

La risoluzione 242 

Israele sperava di utilizzare i territori come uno strumento diplomatico. Ma la Lega Araba, riunita nella Conferenza di Khartum, rispose con un netto rifiuto a qualsiasi offerta. Le grandi potenze cercarono un compromesso. 

La Risoluzione 242 delle Nazioni Unite subordinava il ritiro israeliano dai territori occupati allo stabilirsi di una pace “giusta e duratura” e alla cessazione delle “attività terroristiche” da parte di alcuni gruppi palestinesi come il FPLP. Israele vi aderì malvolentieri, seguita da Nasser e da re Husayn di Giordania, mentre i palestinesi la rifiutarono.

gerusalemme
La visita reale del re Saud bin AbdulAziz Al Saud del Regno dell’Arabia Saudita e del re Hussain del Regno Hashemita di Giordania a Gerusalemme nel 1953

Attorno alla Risoluzione 242 ruota un elemento che ha complicato, a lungo andare, l’evoluzione degli eventi. La versione francese chiedeva il “ritiro dai territori occupati” (“des territoires occupés”), quella inglese “da territori occupati” (“from territories occupied”) Nel primo caso, “dai” sta a indicare tutti i territori occupati durante il conflitto appena concluso, mentre nel secondo caso “da” sta a indicare almeno una parte dei territori.

Questa ambiguità è stata il perno della strategia dei diplomatici di entrambe le parti. Subito dopo il cessate il fuoco, i contendenti ricominciarono però ad armarsi. Nel 1969 Nasser armò le milizie popolari e lanciò una guerra di logoramento che durò un anno e registrò molti morti.

Guerre, esodi e rifiuti 

Le forze in campo mantennero le proprie posizioni ferme e iniziò un nuovo esodo di palestinesi che si unirono alla massa di profughi del conflitto del 1948. Circa altrettanti profughi ebrei erano stati cacciati dai Paesi arabi confinanti, a seguito della guerra dichiarata da Egitto, Siria, Libano e Iraq. I drusi che vivevano sull’altopiano del Golan, occupato da Israele il 9 giugno 1967 nonostante il cessate il fuoco con la Siria, decisero di lasciare la regione dirigendosi verso Damasco e le città di Bosra e As-Suwayda.

Il 9 giugno, Nasser presentò le  dimissioni che furono successivamente ritirate a causa delle pressioni dell’opinione pubblica egiziana. Tuttavia, la sconfitta nella Guerra dei sei giorni ebbe conseguenze devastanti per il nasserismo e l’ideologia panaraba. Che non riuscirono a sopravvivere alla situazione critica del Medio Oriente. 

Negli anni Settanta, nacque il “fronte del rifiuto“, quando alcune organizzazioni del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, guidate da George Habbash, decisero di abbandonare l’OLP per abbracciare una linea di completo rifiuto del riconoscimento di Israele. Questa posizione estremista fu sostenuta dalla Libia di Gheddafi e dall’Iraq, ed ebbe ripercussioni durature nella Regione.

Gli accordi di Oslo

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza del giugno 1976, che sostenevano la divisione dell’area in due Stati basata sulle linee pre-1967, furono respinte dagli Stati Uniti con un veto. Tuttavia, l’idea ricevette un grande sostegno dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire dagli anni ’70. Negli anni ’90, la necessità urgente di pace riportò l’idea dei due Stati al centro dell’attenzione. Ma dopo intensi negoziati, inclusi gli Accordi di Oslo e il Summit di Camp David, non fu raggiunto un accordo definitivo.

In breve, gli accordi di Oslo prevedevano il ritiro delle forze israeliane da alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il riconoscimento del diritto palestinese all’autogoverno attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese e la divisione delle aree in zone con diversi gradi di controllo. Vennero però escluse questioni delicate (e fondamentali) come il controllo di Gerusalemme, il destino dei rifugiati palestinesi e il futuro degli insediamenti israeliani

Le parti si impegnarono a negoziare un accordo permanente entro un periodo di cinque anni, durante il quale sarebbe stata garantita un’autorità palestinese di autogoverno. L’OLP riconobbe Israele come Stato legittimo e rinunciò al terrorismo, in cambio del proprio riconoscimento da parte di Tel Aviv come rappresentante del popolo palestinese. Il Consiglio palestinese avrebbe avuto giurisdizione sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza, escludendo questioni da negoziare in futuro. 

Sarebbero state indette elezioni democratiche per scegliere i membri del Consiglio e sarebbero stati affrontati temi come sicurezza, confini, insediamenti e cooperazione economica. I palestinesi avrebbero avuto potere in ambiti come educazione, salute e assistenza sociale, mentre Israele avrebbe mantenuto la responsabilità per la difesa esterna. Sarebbe stata costituita una forza di polizia palestinese, e un Comitato di Cooperazione Economica avrebbe sviluppato programmi congiunti. Le forze israeliane si sarebbero disposte nelle aree coinvolte. 

Camp David e l’accordo mancato

La Dichiarazione di Principi sarebbe entrata in vigore un mese dopo la firma, includendo tutti i protocolli e verbali concordati. Tra l’11 e il 24 luglio 2000, si tenne un incontro storico a Camp David tra il Presidente statunitense Bill Clinton, il Primo ministro israeliano Ehud Barak e il presidente dell’OLP Yasser Arafat. 

L’obiettivo dell’incontro era quello di arrivare a un accordo su uno status permanente per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Gli sforzi senza precedenti non portarono però a un accordo finale. Durante i negoziati, Barak propose ad Arafat la creazione di uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania, il ritorno di alcuni profughi con indennizzo per la Nakba, la demilitarizzazione dello Stato palestinese e lo smantellamento dei gruppi terroristici. Proposta che il presidente l’OLP rifiutò. 

Nonostante il fallimento dell’accordo, entrambe le parti concordarono su importanti principi guida per il proseguimento dei negoziati in seguito a Camp David. Entrambi confermarono l’obiettivo di porre fine al conflitto e raggiungere una pace duratura, impegnandosi a negoziare in buona fede alla luce delle risoluzioni dell’Onu. Inoltre, fu sottolineata l’importanza di evitare azioni unilaterali che potessero compromettere il processo negoziale.

L’opinione pubblica

La maggior parte dei palestinesi, degli israeliani e della Lega Araba si dichiarò all’epoca favorevole alla soluzione dei due Stati basata sulle linee pre-1967. Tuttavia, nessun governo delle due nazioni avrebbe mai accettato il controllo condiviso del Monte del Tempio.

sionismo
I territori israeliani e palestinesi, dal 1946 al 2000

In un sondaggio del 2002, ben il 72% dei palestinesi e degli israeliani era favorevole a un accordo di pace basato sulle frontiere del 1967, a condizione che la controparte fosse  disposta a fare le necessarie concessioni. Clinton propose una divisione verticale dell’area. Ma la proposta fu prontamente respinta da entrambe le parti e bollata come inaccettabile.

Sempre nel 2022, il principe ereditario (poi re nel 2005) dell’Arabia Saudita, Abd Allah, propose un’iniziativa di pace che ottenne il sostegno unanime della Lega Araba. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, annunciò il suo sostegno per uno Stato palestinese, favorendo la soluzione dei due Stati. Stessa cosa fecero anche le comunità cristiane presenti in Israele. 

Qualche anno dopo, nel 2007, una rilevazione condotta nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania dimostrò che il 47% degli intervistati supportava la soluzione dei due Stati, mentre il 26,5% preferiva uno Stato unico. 

La Conferenza di Annapolis

Alla Conferenza di Annapolis, svoltasi nel novembre del 2007, i principali partiti palestinesi (Al-Fatah, ma non il governo di Hamas a Gaza), israeliani e statunitensi concordarono su una soluzione dei due Stati come punto di partenza per i negoziati sulla fine del conflitto israelo-palestinese. Ma la questione presentava serie problematiche. Vi erano infatti importanti differenze di vedute, riguardanti lo Stato e i confini di Gerusalemme e del Monte del tempio, i confini del futuro Stato palestinese e degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e, infine, il ritorno dei profughi palestinesi.

La Conferenza di Annapolis si è differenziata dai precedenti accordi di pace in Medio Oriente in diversi modi:
– È stata la prima volta che entrambe le parti (israeliani e palestinesi) hanno concordato che la soluzione finale per la pace israelo-palestinese sarebbe stata quella a due Stati;
– Per la prima volta i palestinesi hanno potuto esprimere le proprie posizioni direttamente, senza essere parte di una delegazione più ampia come la Lega Araba;
Non sono emerse posizioni critiche nei confronti di Israele da parte di organizzazioni come le Nazioni Unite e l’Unione europea, contrariamente a quanto accaduto in passato;
Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di primo piano come mediatori durante la conferenza, mentre gli altri membri del Quartetto – un gruppo che comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Ue e la Russia, il cui scopo è favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese – hanno avuto un ruolo più marginale.

Nel 2011, la Palestina si è vista rifiutare il riconoscimento come Stato membro all’ONU, ma ha ottenuto l’ammissione all’UNESCO. L‘anno successivo, lo Stato di Palestina è stato ufficialmente riconosciuto dall’Assemblea generale dell’ONU. Nel 2016, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ha chiesto a Israele di porre fine alla politica di insediamenti nei territori palestinesi.

Una strada ancora perseguibile?

Grandi radici storiche, tanti tentativi: ma la strada della soluzione a due Stati è davvero ancora perseguibile? Nonostante le premesse sulla carta, il continuo fallimento degli accordi mostra che la soluzione non è mai stata realmente un’opzione di pace. Difatti, nessun governo israeliano dal 1948 ad oggi ha accettato la creazione di uno Stato palestinese autonomo. 

E’ certo che il susseguirsi degli eventi più recenti ha polarizzato ancora di più le due posizioni. Israele porta avanti la teoria secondo la quale se i palestinesi non verranno completamente sradicati continueranno a “perseguitare” gli ebrei. Viceversa, il popolo palestinese è sempre più convinto che la fine della violenza israeliana è un requisito indispensabile per sedersi al tavolo delle trattative.

Per quanto concerne la praticità della soluzione, all’epoca degli Accordi di Oslo c’erano circa 250 mila coloni nei territori occupati (Striscia di Gaza e Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est). Oggigiorno, la cifra si avvicina ai 700mila. Di fatto, il processo di Oslo ha fornito a Israele la giustificazione per continuare a espandere le colonie nella terra palestinese. Date tali premesse, Israele non accetterebbe di punto in bianco la sospensione della colonizzazione e il conseguente ritiro di tale numero di coloni dalle zone occupate. 

Inoltre, il processo di pace ha permesso allo Stato ebraico di eludere anche gli obblighi che una potenza occupante ha nei confronti della popolazione occupata secondo le normative internazionali. Questo è stato reso possibile delegando il compito di mantenere l’ordine all’Autorità Palestinese, che ormai non gode più di alcuna legittimità agli occhi dei palestinesi. In questo modo, Israele ha trasferito alla comunità internazionale i costi dell’occupazione coloniale. Occupazione che non accenna a finire.  

Fonti e approfondimenti 

Alessia De Luca, Spagna, Irlanda e Norvegia: sì a uno Stato di Palestina, ISPI, 22 maggio 2024.

Giorgio Fruscione, Israele-Palestina: cos’è e come nasce la “soluzione a un solo stato”, ISPI, 12 marzo 2024.

Khaled Elgindy, How the peace process killed the two-state solution, Brookings Institute, 12 aprile 2018.

Laura Guazzone, Storia contemporanea del mondo arabo: I Paesi arabi dall’impero ottomano ad oggi, (v. Palestina), Mondadori, 2015.

Leonardo Pini, Cos’è la “Soluzione due Stati”: storia, problemi e reazioni, La Stampa, 23 settembre 2022.

Exit mobile version