«La colpa che abbiamo avuto nel 1959 è che vi abbiamo lasciato uscire sani e salvi. Io vi insegno che il vostro Paese è l’Etiopia e fra poco vi spediremo attraverso il Nyabarongo con un viaggio espresso». Con queste parole Léon Mugesera, leader hutu estremista, nel 1992 incendiava l’odio interetnico nel Paese. Mentre la Radio televisione libera delle mille colline (Rtlmc) invocava l’uccisione degli inyenzi, gli “scarafaggi”, come erano chiamati i tutsi.
Il 1994 è l’“anno zero” della storia ruandese. Il genocidio ha segnato profondamente il Paese e continua a farlo oggi. Ma il 1994 non è un anno a sé. Va piuttosto inserito in una catena di eventi che risalgono all’epoca coloniale e smentiscono la narrativa per cui il genocidio è stato il frutto di violenti istinti primordiali covati da individui incapaci di controllarsi. È invece il risultato della costruzione e sedimentazione di odi interetnici, iniziata con la colonizzazione e proseguita dopo l’indipendenza.
Gli antefatti
In epoca coloniale, in Ruanda e Burundi furono create e imposte identità etniche. Hutu, tutsi e twa, gruppi sociali che condividevano lingua e cultura, divennero etnie distinte e immutabili sulla base di presunte caratteristiche fisiche e sociali. I tutsi erano considerati individui superiori, originari dell’Etiopia: futura classe dirigente, beneficiarono di una buona istruzione ed entrarono nell’amministrazione pubblica. Hutu e twa invece erano la massa subordinata e arretrata.
Nei decenni, le identità etniche furono interiorizzate dalla popolazione locale, alimentando un odio razziale sempre più profondo. I tutsi si consideravano superiori. Gli hutu li disprezzavano, ritenendoli invasori delle loro terre.
Alla fine degli anni Cinquanta, Grégoire Kayibanda, uno dei pochi hutu ad aver ricevuto una buona istruzione, fece leva su questo crescente malcontento. Con una retorica razzista, sosteneva che fosse il momento di restituire il Ruanda ai suoi legittimi proprietari, gli hutu. I tutsi dovevano essere cacciati in quanto stranieri.
Ben presto iniziarono i primi massacri. Tra il 1959 e il 1962, 100.000 tutsi persero la vita e altri 30.000 lasciarono il Paese. Gli equilibri politici del Ruanda coloniale si ribaltarono: ora a detenere il potere erano gli hutu.
La guerra civile
Gli anni tra l’indipendenza e il genocidio furono un crescendo di tensioni. Vennero introdotte quote di hutu (85%), tutsi (14%) e twa (1%) ammessi nelle scuole, nell’amministrazione pubblica e nelle aziende. Censimenti e carte d’identità, che riportavano l’etnia, divennero i cardini di una società suddivisa in rigidi gruppi.
Mentre i massacri continuavano, tra i tutsi fuggiti dal Paese iniziò a crescere un sentimento di rivalsa. Alcuni rifugiati in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese (Fpr). Guidato da Fred Rwigyema e Paul Kagame, il primo ottobre 1990, il movimento invase il Ruanda, scatenando la guerra civile e rinfocolando l’odio interetnico.
Mentre l’esercito rispondeva all’invasione, la polizia lanciò un’ondata di arresti nei confronti di presunti sostenitori dell’Fpr, ma anche di qualsiasi oppositore del governo. Si consolidò la corrente dell’Hutu power, estremisti che sostenevano la tesi della “democrazia maggioritaria”: l’idea che gli hutu, essendo l’80% della popolazione, dovessero automaticamente governare.
Così a ogni passo in avanti nei negoziati di Arusha, iniziati nel 1992 tra Fpr e governo di Kigali, seguivano massacri di tutsi che bloccavano i dialoghi.
Preparando il genocidio
Il genocidio è stato organizzato e messo in atto dagli Hutu power. I cento giorni di massacri sono il risultato di decenni di indottrinamento etnico e propaganda mirata. L’odio era stato instillato a fondo tra la popolazione e la macchina genocidaria era stata attentamente preparata.
Gli squadroni della morte e l’Interahamwe erano operativi sin dal 1992. Le liste di cittadini da eliminare erano state compilate nei minimi dettagli e distribuite agli incaricati. L’odio interetnico diffuso dalla Rtlmc era incessante. Nei villaggi si tenevano incontri di “sensibilizzazione” per spiegare agli abitanti che le persone che avrebbero ucciso, i tutsi, erano ibyitso (potenziali collaboratori dell’Fpr) e inyenzi (“scarafaggi”, individui inferiori agli esseri umani).
La firma degli Accordi di Arusha (4 agosto 1993) e l’assassinio di Melchior Ndadaye (21 ottobre 1993), primo presidente hutu del Burundi ucciso da militari tutsi, sancirono il collasso della situazione. Gli estremisti avviarono la “propaganda dello specchio”: profetizzavano il genocidio degli hutu, mentre preparavano quello dei tutsi.
L’inizio dei massacri
Alle 20.30 del 6 aprile 1994, il Falcon 50 che trasportava il presidente ruandese, Juvenal Habyarimana, e il suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira, fu abbattuto da due missili.
La morte del presidente ruandese è ancora oggi uno dei punti più oscuri della storia del Paese. Non si sa con certezza chi ne sia il responsabile. Ma la tesi più probabile è che l’ordine sia giunto dagli Hutu power. Un tempo fedeli di Habyarimana, gli estremisti ora vedevano in lui un moderato che aveva accettato gli Accordi di Arusha e avrebbe consegnato il Paese ai tutsi.
La macchina genocidaria partì in pochi istanti. A Kigali, l’Interahamwe istituì blocchi stradali. L’Rtlmc accusò l’Fpr di aver ucciso Habyarimana e incitò alla violenza contro i tutsi per vendicarsi. Le liste della morte iniziarono a essere spulciate già la notte del 6 aprile: morirono politici, giornalisti e attivisti. Soprattutto tutsi, ma anche hutu moderati.
Il giorno successivo i massacri si allargarono a tutto il Paese. L’8 aprile, l’Fpr rispose riprendendo le armi. Quattro giorni dopo si combatteva a Kigali. Il governo hutu fuggì verso ovest, a Gitarama.
Le violenze
Buona parte delle uccisioni nella capitale fu opera della Guardia presidenziale e delle milizie estremiste, Interahamwe e Impuzamugambi. Mentre nelle campagne, la Gendarmeria, la polizia rurale, era affiancata da “volontari”, contadini indottrinati per decenni sulla “maggioranza democratica”.
Sotto l’influsso di una propaganda arrivata a paragonare lo sterminio dei tutsi a una sessione speciale di akazi (lavori collettivi, frequenti nelle campagne), circa un milione di civili perse la vita.
Alcuni tutsi furono salvati da vicini hutu. Molti altri furono traditi. Chiese e moschee, dove spesso i civili cercavano rifugio, divennero trappole della morte. «Il nemico è là! Andate a cercarlo! Le tombe sono solo mezze piene!», con queste parole, tra il 10 e il 12 aprile, la Rtlmc guidava l’assalto alla Moschea di Nyamirambo che accoglieva diversi rifugiati.
La Francia
Nel frattempo, l’Fpr avanzava in modo lento ma inesorabile. Solo a Kigali e Ruhengeri i guerriglieri fronteggiarono una resistenza consistente. La capitale fu conquistata il 4 luglio, dopo tre mesi di combattimenti. Nel frattempo, il 6 giugno era stata presa Gitarama e il governo hutu era fuggito ancora più a ovest, a Gisenyi.
Il 23 giugno l’esercito francese iniziò l’Opération Turquoise. Ufficialmente un intervento umanitario per salvare i tutsi, la missione disponeva di un equipaggiamento militare decisamente eccessivo.
La Francia istituì una “Zona umanitaria sicura” nell’ovest, dove, sotto la pressione dell’avanzata dell’Fpr, si rifugiarono il governo hutu, i miliziani e migliaia di civili, che poi fuggirono nello Zaïre. Gli estremisti infatti avevano diffuso la voce di massacri sistematici da parte dei guerriglieri, causando il panico tra la popolazione. In realtà, anche se l’Fpr fu responsabile di uccisioni, raramente erano eccidi indiscriminati.
L’atteggiamento della Francia fu ambiguo. Per tutto il 1992 e 1993, il governo di Mitterrand intrattenne ottimi rapporti con gli estremisti. Militari di Parigi avevano addestrato la Gendarmeria e gli squadroni della morte. E quando la caduta di Gisenyi era ormai prossima, il generale Lafourcade non esitò a dire che il governo hutu poteva cercare rifugio nella “Zona umanitaria sicura”.
La comunità internazionale
Il resto della comunità internazionale rimase immobile. La missione Unamir delle Nazioni Unite era in Ruanda dal 1993 per garantire gli Accordi di Arusha. Ma il 6 aprile, dopo l’uccisione di dieci caschi blu, agli ordini del generale Roméo Dallaire rimasero solo 270 uomini, impotenti dato il mandato di osservatori.
Furono confusi guerra e genocidio. Ritenendo che la prima avesse causato il secondo, le Nazioni Unite insistettero sulla necessità di un cessate il fuoco per fermare i massacri. Trascuravano che la macchina genocidaria era pronta da tempo.
Traumatizzati dal fallimento in Somalia, gli Stati Uniti rimasero in silenzio. Solo il 10 giugno, la portavoce del dipartimento di Stato, Christine Shelly, disse: «Anche se ci sono stati atti di genocidio in Ruanda, non tutte le morti possono essere inserite in questa categoria». Tentava di evitare l’obbligo gravante sui firmatari della Convenzione contro il genocidio di intervenire, una volta identificato l’atto.
Il “nuovo” Ruanda
Sebbene il genocidio si sia concluso ad agosto 1994, gli strascichi continuano oggi.
Circa un milione di hutu, tra cui governo e miliziani, trovò rifugio nello Zaïre. Le condizioni disumane nei campi di sfollati causarono un’epidemia di colera. A cui si aggiunsero le rappresaglie dell’Fpr, intenzionato a eliminare i genocidari. I quali si servirono dei civili come scudi umani, impedendone il ritorno in Ruanda. Si crearono alcune delle condizioni ancora oggi alla base dell’interferenza ruandese nella Repubblica Democratica del Congo.
Sul piano della giustizia la sfida fu enorme. I sospettati erano tantissimi e molti colpevoli erano sparsi per il mondo. Nel novembre 1994, le Nazioni Unite crearono il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ad Arusha. Nel 2001, nacquero i gacaca, tribunali popolari per giudicare reati minori a livello comunitario. In dieci anni, furono processati due milioni di persone, di cui 800.000 condannate.
Il lascito più difficile da affrontare fu quello socioculturale. Al centro del discorso della riconciliazione fu posta l’abolizione delle etnie, sostituite da una nuova coscienza nazionale, la rwandité, intesa come identità inclusiva. In realtà, ancora oggi l’etnia è centrale e influenza le relazioni sociali.
L’unica occasione in cui si parla di etnie sono le commemorazioni, ma con l’effetto di acuire ulteriormente fratture silenziose. Nel 2013, ad esempio, il presidente ruandese, Paul Kagame, invitò gli hutu a trovare la forza di chiedere perdono ai tutsi.
Un’affermazione che, oltre a ricordare il persistere subdolo della polarizzazione etnica, rafforza anche una visione dicotomica del genocidio. Che tutti gli hutu siano colpevoli e tutti i tutsi vittime. In realtà, numerosi hutu sono stati a loro volta uccisi in quanto oppositori del regime, mentre molti altri hanno rischiato la vita per salvare i tutsi.
Fonti e approfondimenti
Amselle, Jean-Loup, M’Bokolo, Elikia. 2017. L’invenzione dell’etnia. Meltemi editore. Milano.
Fusaschi, Michela (a cura di). 2019. Rwanda: etnografie del post-genocidio. Meltemi editore. Roma.
Jourdan, Luca (a cura di). Il Rwanda a vent’anni dal genocidio. Afriche e Orienti, 3 (2014).
Lemarchand, René. 2009. The Dynamics of Violence in Central Africa. University of Pennsylvania Press. Philadelphia.
Prunier, Gérard. 1995. The Rwanda Crisis (1959-1994). History of a Genocide. C. Hurst & Co. Londra.
Prunier, Gérard. 2010. Africa’s World War. Congo, the Rwandan genocide and the making of a continental catastrophe. Oxford University Press. New York.