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La rivoluzione nel Kurdistan è ancora sotto attacco | Intervista a Zagros Hiwa, portavoce KCK (2|2)

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Immagine generata con supporto AI © Lo Spiegone CC BY-NC

Negli ultimi mesi, l’Asia sud-occidentale (o Medio Oriente) è stata attraversata da cambiamenti socio-politici che hanno aperto, o chiuso, lo spazio di manovra per diversi movimenti e altri attori politici, tra cui le varie organizzazioni che rappresentano le minoranze curde presenti in Turchia, Siria, Iraq e Iran. 

L’ottobre scorso, Devlet Bahceli (leader dell’MHP, partito nazionalista turco) ha invitato pubblicamente le autorità turche a permettere al fondatore e leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Öcalan, di presentarsi in parlamento e “ordinare” alla propria organizzazione – riconosciuta come terroristica da USA e UE – a deporre le armi. Piuttosto che di una capitolazione, però, Bahceli ha parlato di un passo fondamentale per riaprire il dialogo tra Ankara e PKK e, conseguentemente, il processo politico per trovare una soluzione alla questione curda. 

In segno di apertura, le autorità turche hanno permesso a una delegazione del DEM Partisi (partito di sinistra radicale turco a maggioranza curda) di incontrare Öcalan nell’isola-carcere di Imrali (dove è in detenzione in condizioni di isolamento da quasi 26 anni) e riportare ai media il messaggio del leader curdo. Tuttavia, le operazioni anti-PKK (e organizzazioni affiliate) della Turchia proseguono nell’intera Regione. 

In un luogo non definito tra le montagne di Kandil (gruppo montuoso parte della catena Zagros tra Iraq, Turchia e Iran), abbiamo parlato di Öcalan, Siria del nord-est, relazioni intra-curde in Iraq e altro ancora con Zagros Hiwa, portavoce del KCK (Unione Comunità del Kurdistan, che racchiude al suo interno il PKK e gli altri gruppi armati – e non – che perseguono la causa curda) e leader della sezione irachena del PKK. Questa è la seconda parte dell’intervista: la prima si può leggere qui

Non è difficile notare come in città (Sulaymaniyah) ci sia un ampio sostegno al movimento. Ci sono molti simpatizzanti, c’è l’Accademia di ricerca delle donne, intellettuali schierati a vostra difesa, ecc ecc. Ho visto molti libri di Öcalan esposti nelle librerie, bandiere, ritratti e cose del genere. Come vi trovate a portare avanti il vostro lavoro rivoluzionario in questa regione e con questa popolazione? Perché in un certo senso il popolo vi sostiene, ma – come abbiamo visto – siete comunque un partito “illegale”. 

Naturalmente abbiamo rapporti con diverse organizzazioni popolari in diverse parti del Kurdistan, non solo a Sulaymaniyah. È tutto ciò che abbiamo (sorride): abbiamo solo il sostegno delle persone. Nessuno Stato ci sostiene. Stiamo lottando per la gente, con la gente. Quindi la gente di Sulay (Sulaymaniyah) ci sostiene come la gente di Amet (Diyarbakir, città a maggioranza curda nell’est della Turchia). La gente di Sulay ci sostiene come la gente di Erbil. Anche a Erbil, qualche settimana fa, c’è stato un evento di sostegno al Rojava. 

Il popolo sente, osserva, guarda e sa chi sta facendo cosa. Chi si è aggrappato alla causa curda e sta lottando per essa, e chi ha fatto della causa curda una merce di scambio nei negoziati per interessi familiari (riferimento alla famiglia Barzani, la leadership del KDP). La gente lo sa. La gente di Sulay ha una storia molto ricca e violenta di resistenza, nella lotta contro Saddam Hussein come contro Daesh. Hanno un’eredità partigiana e sanno distinguere tra i rivoluzionari e i collaborazionisti. Lo sanno. Quindi ci relazioniamo con tutte le persone, non solo a Sulay, ma in tutte le parti del Kurdistan. E da questo traiamo la nostra forza, il sostegno è il nostro unico punto di forza.

E riuscite ad avere contatti con la leadership del PUK o con i suoi agenti in questo momento? Il sostegno popolare di cui godete ha sicuramente del peso nelle relazioni col PUK.

A un livello molto basso e orizzontale riusciamo ad avere contatti col PUK e i suoi uomini armati, ma solo per le cose pratiche – soprattutto militari come la gestione checkpoint o il pattugliamento contro Daesh -, ma non a livello politico e non con costanza. Se avessimo avuto rapporti con loro non avrebbero chiuso le organizzazioni femminili a noi vicine o avrebbero permesso alcune conferenze, alcuni simposi, alcuni forum per la libertà del leader Öcalan. 

Se avessimo avuto relazioni dirette non avrebbero vietato la marcia a sostegno di jin jiyan azadi (nda: il riferimento è al movimento sorto in Iran nel 2022) se avessimo avuto relazioni dirette non avrebbero arrestato molte persone legate a noi. Il Kurdistan sarebbe stato a un punto diverso ora se avessimo avuto relazioni a un livello politico superiore. Il nostro rapporto ora è che loro non fanno nulla contro di noi e noi non li attacchiamo.

Quali sono i vostri prossimi passi politici e le vostre prospettive per continuare a lottare qui in Iraq? 

Stiamo resistendo contro l’occupazione turca. È questo che stiamo facendo. la Turchia sta attaccando l’Iraq, sta invadendo l’Iraq. La Turchia occupa un’area grande quanto la Svizzera nel nord dell’Iraq e noi stiamo combattendo contro questa invasione. Questo è ciò che stiamo facendo per l’Iraq e in Kurdistan. Questo è il nostro programma principale. 

Ogni giorno i nostri compagni sacrificano le loro vite per la difesa del Kurdistan e per la difesa dell’Iraq. Chiediamo alle autorità curde e a quelle irachene di sostenerci in questa lotta o, se non ci sostengono, di non ostacolarci almeno. Ora stiamo difendendo il Bashur (Kurdistan meridionale) e anche il popolo iracheno dall’invasione della Turchia, contro le ambizioni ottomane di Erdogan. Questo è il nostro programma principale: combattere l’invasore turco.

Alla luce di questo obiettivo, pensate che il Kdp stia combattendo contro di voi in questo momento?

Più o meno. Il KDP non ha schierato combattenti contro di noi. Non partecipa quindi direttamente al conflitto contro di noi, ma i loro sforzi sono stati più che altro diplomatici e d’intelligence. Il KDP ha messo il ministero degli Esteri iracheno al servizio della Turchia. Il KDP facilita l’accordo turco-iracheno contro il nostro movimento, ecco, lavora a contattato con Baghdad per facilitare le operazioni turche nel Paese.

Inoltre il KDP dà sostegno politico alla Turchia in termini di spionaggio contro di noi, condivide molte informazioni e forze. Costruisce strade per l’esercito turco, strade militari, fornisce loro tutte le necessità logistiche. Porta i loro feriti negli ospedali. Il KDP poi è riuscito a imporre il suo punto di vista sui media per evitare che discutessero la portata dell’invasione turca, la portata dell’operazione e la portata della guerra in altre parti del Kurdistan. Non è inferiore alla portata della guerra a Gaza, ma il KDP ha messo a tacere i media e non ne parlano, ma la guerra c’è sempre.

Intende dire come Rudaw? INA?

Sì, non ne parlano. Sotto pressione di Erbil hanno ripulito i crimini turchi per farli apparire normali operazioni di polizia. I turchi hanno ucciso secondo il CPT (Comitato Europeo per la Prevenzione del Crimine) – forse avete visto il loro rapporto – migliaia di persone in detenzione e migliaia con attacchi militari, specialmente con i droni. Ma il KDP ha censurato tutti questi crimini. Nei loro rapporti autoptici i funzionari del KDP non menzionano che le vittime sono state uccise dai droni turchi, dicono che sono state uccise in incendi, in incidenti, in esplosioni misteriose o colpite da armi non identificate… tutti coloro che parlano contro l’invasione e dimostrano i crimini di guerra turchi vengono arrestati dal KDP.

C’è qualche tipo di infiltrazione del KDP da parte dei servizi segreti e dell’esercito qui a Sulaymaniyah?

il KDP è un’organizzazione particolare. Il KDP non è un partito, è un partito politico creato ad hoc per camuffare la sua natura di apparato di intelligence. Il KDP è un apparato di intelligence nelle mani della Turchia e di alcune potenze regionali, ma per nasconderlo e dare una forma di legittimità e formalità hanno creato un partito, il KDP appunto, che però non è né un partito né democratico né del Kurdistan; non è curdo, è turco. In quanto tale, in quanto organizzazione d’intelligence al servizio di una potenza estera che conduce una politica di terrorismo nei nostri confronti e nei confronti del popolo curdo, sì, pensiamo che la loro infiltrazione sia piuttosto profonda, anche in questa parte del bashur, anche se non sappiamo quanto.

Il KDP non è l’unica istituzione curda, in Iraq, ad avere rapporti privilegiati con potenze estere. La posizione del PUK, ad esempio, è molto vicina all’Iran. Paese recentemente scosso da ondate di protesta con radici diverse ma in cui i curdi hanno rappresentato una voce importante, aggiungendo tensione tra voi e Teheran. C’è il rischio che il PUK inizi a fare quello che il KDP ha fatto con la Turchia, ma con l’Iran, contro di voi?

Finora non abbiamo alcun indizio che ci faccia sospettare di ciò, che ci sia collaborazione tra loro di questo livello. Ma anche l’Iran è uno Stato non democratico. In Iran, qualsiasi opposizione politica viene incontrata con la condanna a morte e la forca. Molti attivisti politici non condannati a morte, magari tutt’oggi liberi, sono minacciati dal governo iraniano. E pensiamo che se l’Iran continuerà con queste politiche, sarà un male per il futuro dell’Iran, sia come Stato che come popolo.

Le politiche dell’Iran nei confronti dei curdi secondo noi dovrebbero cambiare.Teheran dovrebbe rispettare i diritti dei curdi, dovrebbero riconoscere l’identità dei curdi dal punto di vista costituzionale, dovrebbero lasciare che i curdi si esprimano liberamente, si organizzino liberamente e si governino liberamente sulla base dei principi dell’autogoverno democratico (base del Confederalismo democratico, l’ideologia di abdullah Ocalan). Ma invece vediamo come le politiche dell’Iran, sotto molti aspetti diverse da quelle della Turchia, siano altrettanto repressive e violente nei confronti della minoranza curda.

Nel 2022, quando sono iniziate le proteste che abbiamo menzionato, avete fatto qualcosa per facilitare fomentare le proteste nel Rojhilat (Kurdistan orientale, Iran centro-occidentale)? So che ci sono sezioni dei movimenti ovunque ci siano curdi, ma so anche che sono deboli in Iran, per ovvie ragioni. E dal momento che voi del ramo iracheno siete geograficamente i più vicini al confine, mi chiedevo se foste stati in grado di partecipare alle proteste degli ultimi anni o di sviluppare reti e strategie anche in territorio iraniano…

La nostra strategia principale è quella di sostenere le attività politiche del popolo nei rispettivi Paesi. Non abbiamo alcun programma di interferenza militare diretta in quei Paesi. E ora come PKK non siamo in guerra con l’Iran. In Iran abbiamo legami e contatti con il Pajak (Kurdistan Free Life Party), con i comunisti, con il Komala (altra organizzazione curda) e con altri gruppi della sinistra iraniana. 

Naturalmente abbiamo rapporti con tutti questi partiti e, in misura diversa, offriamo consigli e sostegno, ma per quanto riguarda la strategia da adottare in Iran la decisione finale spetta a loro. Per conto nostro siamo soddisfatti di vedere come le idee dei curdi diventino sinonimo di idee di libertà per tutti. Jin Jian Azadi, ad esempio, è arrivato fino in India grazie alle proteste in Iran. È uno slogan magico del nostro movimento, ideato dal leader Apo per formulare la speranza di libertà comune a ogni popolo. 

Dal punto di vista militare, invece, come le ho già detto, non siamo in guerra con l’Iran Ora la nostra attenzione è rivolta alla Turchia ma sosteniamo la soluzione democratica della questione curda in Iran. Non vogliamo che questa soluzione arrivi attraverso conflitti e scontri militari. Vogliamo una soluzione democratica. E anche con il Pajak, con cui il governo dell’Iran ha un cessate il fuoco fino dal 2011. Ma questo non significa che la popolazione curdo-iraniana si sia fermata. Il popolo curdo in Iran non ha interrotto la sua lotta. La nostra lotta continua a ispirare tutti i popoli oppressi del mondo. 

Ovviamente dobbiamo menzionare l’attuale situazione in Siria. Nel 2014, quando Kobane (Rojava, Siria del nord-est) era sotto assedio, tutti i movimenti e i partiti curdi hanno collaborato alla difesa della città. Persino il KDP ha inviato Peshmerga in Rojava, il PUK, che con la Siria ha poco a che fare, ha inviato Peshmerga in Rojava. Ora, 10 anni dopo, Kobane e il Rojava sono di nuovo in pericolo. Qual è la vostra posizione e strategia nel cantone occidentale del Kurdistan? Siete in grado di fare qualcosa di concreto per loro, come inviare rinforzi o qualsiasi tipo di aiuto?

Nel 2014, 11 anni fa, era diverso da oggi. 10 anni fa, 11 anni fa, era diverso da adesso. All’epoca, diciamo, la popolazione di Kobane non aveva le competenze militari necessarie per difendersi così come molte altre persone di diverse etnie che vivevano in Rojava. All’epoca i nostri guerriglieri partivano dal Bakur (Turchia sud-orientale, Kurdistan settentrionale) a Kobane, nel Rojava, per aiutare la popolazione a difendersi.

Ma dopo 10 anni, le cose sono cambiate molto. Ora abbiamo le SDF (Syrian democratic forces, fondate nel 2015), e le SDF sono in grado di difendersi da sole, come stanno mostrando nella loro lotta contro i banditi e i jihadisti (l’ultima offensiva delle SNA, milizie siriane sostenute dalla Turchia). Nel 2014, Kobane ha chiesto aiuto a tutto il movimento e a tutti i popoli del Rojava. E noi siamo corsi in loro aiuto e abbiamo fatto il massimo sacrificio:  600 guerriglieri hanno sacrificato la loro vita nella difesa di Kobane. 

Ora, non è il momento di dire chi ha combattuto meno, chi ha combattuto di più. Ma posso dire che 600 guerriglieri sono andati volontariamente dal Bakur a Kobane e hanno sacrificato la loro vita per la difesa della città. Ancora una volta, se pensiamo che Kobane e il nostro popolo in Rojava e in altri luoghi sono sotto la minaccia di un genocidio, di un massacro, di una pulizia etnica, giuriamo che faremo del nostro meglio per difendere il nostro popolo. Ma per il momento pensiamo che possano gestire la situazione per conto proprio e con la massima efficienza. 

Il popolo curdo è in grado di gestire la situazione ed è in grado di sconfiggere i jihadisti e difendere le vite di tutti i popoli oppressi della Siria, non solo quello curdo. È questo ciò che devono fare, perché l’obiettivo principale di Erdogan è sterminare i curdi. Penserai che faccio propaganda, lo so, ma questi sono fatti sostenuti anche da John Bolton (ex consigliere sicurezza nazionale USA, spesso coinvolto in missioni in Medio oriente), quando dichiarò che “per Erdogan il miglior curdo è un curdo morto”. John Bolton non ha bisogno di fare propaganda per il PKK, anche lui ci considera niente più che terroristi. Le sue parole mostrano chiaramente la posizione di Erdogan e della Turchia nei confronti dei curdi.

Quindi i curdi del Rojava, insieme agli altri popoli del Rojava, devono difendersi dalle aggressioni della Turchia. Non dobbiamo dimenticare che quelle aree che ora sono sotto attacco sono le stesse in cui è avvenuto il genocidio armeno. Se leggete il libro di Robert Fisk, si parla di Deir Ezzor, si parla di Shaddad, di quei luoghi, del fiume Khabur, di come l’esercito ottomano abbia ucciso gli armeni, di come la raccolta e l’accumulo dei corpi degli armeni massacrati abbia cambiato la direzione dei fiumi. 

Erdogan ha la stessa mentalità e lo stesso progetto per quei popoli (gli abitanti del Rojava). La stessa mentalità! Non solo contro i curdi, ma anche contro gli armeni, gli yazidi e tutti gli altri popoli. Popoli che non possono far altro che resistere. Devono resistere a questi attacchi. E noi sosteniamo la loro resistenza, come abbiamo fatto in passato.

In Siria c’è molta agitazione politica anche a causa del nuovo governo, molto vicino alla Turchia, che sta dialogando con le SDF per integrare una parte dei suoi militari nel nuovo esercito siriano. Tuttavia, Damasco, su richiesta di Ankara, vorrebbe anche espellere alcuni membri dei rami politici dal Paese. Se questa soluzione fosse perseguita, o se la Turchia sconfiggesse militarmente le SDF, sarete voi a organizzare il trasferimento e l’accoglienza dei militanti e militari espulsi dalla Siria e a riorganizzare la resistenza?

Intende tutti i membri che si trovano in Siria?

Sì, i membri ma anche i rifugiati politici e le persone anziane che non si fidano del nuovo governo e non hanno altro posto dove andare se non qui.

Noi (PKK) siamo andati in Siria al tempo della lotta contro Daesh e solo alcuni membri sono rimasti lì nel paese. Molti di loro ora sono anziani o disabili a causa delle ferite di guerra, ma il nostro movimento ha annunciato che se la Turchia e altre forze insistono affinché alcuni membri del PKK attualmente in Rojava lascino il Paese, noi siamo pronti a far lasciare la Siria ai suddetti nostri membri e a farli andare in Bakur, in Turchia, da dove gran parte di loro proviene. Ma questo è qualcosa che deve essere deciso nelle fasi successive delle trattative. I nostri membri hanno raggiunto il Rojava dal Bakur, per difendere la popolazione, se un accordo viene raggiunto e se le condizioni dovessero permetterlo, non avremmo alcun problema a gestire il loro ritorno in Bakur (così come in Iraq), anche in collaborazione con le autorità turche. 

Al momento però, devo dire, abbiamo solo contatti formali con il Rojava, e non abbiamo alcuna influenza diretta sul loro operato. Quelli che ora amministrano il Rojava si rifanno ideologicamente al PKK ma non tutti sono membri del PKK. Non abbiamo alcun rapporto organico e organizzativo con loro, hanno i loro organi amministrativi, hanno la loro struttura militare e quindi, in caso, saranno loro a prendere le decisioni richieste e a gestire i problemi che sorgeranno, noi sicuramente li aiuteremo.

Nel complesso però, quello che speriamo per la Siria – che vediamo come un mosaico di popoli e gruppi religiosi ed etnici – è di evitare di imporre una religione o un nazionalismo etnico come identità nazionale. Piuttosto cerchiamo di insistere sui popoli come soluzione al problema siriano. Ogni entità etnica o religiosa dovrebbe potersi esprimere liberamente, praticare la propria religione o aggrapparsi alla propria identità e poter parlare, studiare e imparare nella propria lingua madre. 

Ogni gruppo etnico e confessione religiosa dovrebbe essere in grado di governarsi e autodifendersi nel quadro della Siria come entità federale o decentralizzata. È nella nostra filosofia: ogni gruppo, che sia popoloso o meno, deve poter godere degli stessi diritti,  rifiutiamo l’approccio in cui la maggioranza governa la minoranza. È ancora questa, secondo noi, la soluzione migliore! già in passato gli al-Asad hanno cercato di imporre gli alawiti come gruppo al potere secondo logiche settarie, e abbiamo visto com’è finita….oggi, come sempre in Siria, ci sono alawiti, curdi, armeni, yazidi, turkmeni… Tutti gruppi che presentano legittime perplessità e dubbi sul nuovo governo e sulle ingerenze turche.

Noi pensiamo che il futuro della Siria sarà segnato da una filosofia e da un paradigma democratico e libertario. Lo stesso paradigma incarnato dalle SDF. Le SDF sono un modello per tutta la Siria, una soluzione per tutto il Paese. Le forze internazionali dovrebbero sostenere l’incorporazione dell’amministrazione autonoma della Siria nordorientale nel nuovo governo di Damasco. Solo con il contributo delle SDF la Siria potrà raggiungere la stabilità. Dal canto nostro, noi sosteniamo il dialogo tra la Siria del nord-est e il governo di Damasco e pensiamo che i problemi tra loro debbano essere risolti attraverso il dialogo, perché solo così si può riunire una Siria troppo a lungo divisa. Solo così saranno garantiti i diritti di ogni minoranza e la democrazia.

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